Gianandrea Gaiani, Panorama 12/2/2015, 12 febbraio 2015
LA NOSTRA GUERRA AL FRONTE CONTRO IL CALIFFATO
Quasi 300 militari italiani con sette aerei e droni sono impegnati nella guerra contro lo Stato islamico, ma da quando sono schierati in Kuwait e in Kurdistan, sono diventati invisibili. La missione, che non prevede l’impiego dei mezzi in combattimento, ha un ampio consenso da parte delle forze politiche. Tuttavia, sui velivoli che sorvolano i territori occupati dallo Stato Islamico e sui consiglieri militari che addestrano i peshmerga curdi è calato il silenzio. Eppure l’operazione anti Isis che gli statunitensi hanno battezzato «Inherent Resolve» e gli italiani «Prima Parthica» (dal nome di una legione romana istituita nell’attuale Siria nel II secolo) è destinata a diventare la più impegnativa per le forze armate italiane, dopo il ritiro dei 700 militari dalla base afghana di Herat, previsto per l’estate.
Entro pochi mesi il contingente italiano in Iraq conterà 525 militari, una forza seconda solo a quello dei nostri caschi blu in Libano (1.100 militari) e sullo stesso piano della presenza in ambito Nato in Kosovo (550 unità). I costi della missione, che comporta un considerevole sforzo logistico e impiega sette velivoli dell’Aeronautica, oltre a cinque o sei elicotteri, sono stimati intorno ai 150 milioni all’anno, quanto la missione libanese.
Attualmente a Erbil, nel nord dell’Iraq, sono una sessantina i militari italiani arrivati tra dicembre e gennaio ospiti della locale base americana, ma sono attese decine di incursori delle forze speciali. Il completamento del contingente di 200 unità a Erbil e di 80 consiglieri militari assegnati ai comandi di Baghdad è rallentato dalla lentezza esasperante della burocrazia irachena nella concessione di visti e permessi. Pesano anche le difficoltà logistiche, visto che è necessario attendere che mezzi, elicotteri e materiali per la realizzazione della base italiana, arrivino via nave in Kuwait.
Gli specialisti italiani non hanno però perso tempo e, da quanto riferiscono fonti della coalizione, hanno già effettuato tre corsi per addestrare un centinaio di combattenti curdi a individuare e neutralizzare mine e ordigni esplosivi e impiegare i bazooka anticarro Folgore, donati da Roma insieme a mitragliatrici, razzi e munizioni. Le operazioni di addestramento delle forze curde e irachene sono gestite dal comando statunitense in sei basi principali in tutto l’Iraq. Fonti militari in Germania hanno confermato, però, che a Erbil italiani e tedeschi si alterneranno ogni sei mesi al comando di un reparto di formazione multinazionale attivo anche in altre aree del Kurdistan. Italia e Germania sono i paesi che, dopo gli Usa, compiono lo sforzo maggiore in questo settore e ai loro contingenti verranno aggregati i reparti addestrativi di altri partner europei e Nato.
Benché non sia previsto l’impiego di militari italiani in prima linea, la natura del conflitto contro il Califfato impone di disporre di molti mezzi difensivi e di reazione rapida. Per questo l’esercito sta schierando a Erbil veicoli blindati Lince, elicotteri Nh-90 per trasporto ed evacuazioni sanitarie e Ch-47, adibiti all’impiego delle forze speciali. Il rischio di azioni terroristiche o rappresaglie ha indotto per la prima volta i vertici militari italiani a non rendere noti nomi e volti dei comandanti italiani (un colonnello dell’aeronautica e un tenente colonnello dell’esercito) che guidano le forze impegnate contro lo Stato islamico. Il dispositivo aereo italiano, che a fine gennaio aveva già superato le mille ore di volo sull’Iraq, vede schierati in Kuwait da novembre circa 200 militari dell’aeronautica e sette velivoli: quattro bombardieri Tornado, due droni Reaper e un aero cisterna Kc-767a, che avrebbero effettuato circa 250 sortite sull’Iraq.
Il governo ha limitato l’impiego dei Tornado alle missioni di ricognizione e intelligence. I nostri aerei individuano i bersagli che altri jet della coalizione distruggono, e raccolgono immagini per valutare i danni inflitti dai raid. Della ventina di paesi occidentali e arabi che hanno inviato aerei da combattimento contro l’Isis, l’Italia è l’unica a negarne l’utilizzo in azioni di attacco. Una decisione politica, già messa in atto tra il 2008 e il 2011 in Afghanistan, che limita il ruolo italiano nella coalizione. Senza per questo farci apparire meno belligeranti e senza ridurre i rischi per gli equipaggi in caso di abbattimento o di guasto tecnico agli aerei. Per soccorrere piloti caduti in territorio nemico gli statunitensi hanno schierato specifici reparti di elicotteri in diverse aree, inclusa Baghdad, e dopo la brutale esecuzione del tenente giordano Muaz al-Kasasbeh, anche a Erbil.
Compiti limitati a ricognizione e intelligence anche per i droni Mq-9 Reaper del 32° stormo schierati all’aeroporto Alì al-Salem (Kuwait), che sarebbero in ogni caso disarmati, poiché Washington non ha mai concesso a Roma l’acquisto dei kit di armamento. I droni avrebbero al loro attivo già una cinquantina di missioni mentre sarebbero quasi il doppio quelle effettuate dal «benzinaio volante» la Kc-767a del 14° stormo basato all’aeroporto Mubaraq di Kuwait City.
A sei mesi dell’inizio delle operazioni aeree della coalizione in Iraq è stato conseguito solo qualche piccolo successo contro il Califfato. Grazie a un costante supporto americano i curdi sono riusciti a respingere i jihadisti e a incalzarli nel settore di Sinjar, Mosul e Kirkuk. Le milizie sciite Badr, che in molti zone hanno sostituito l’esercito di Baghdad rilevandone armi e mezzi pesanti, hanno ripreso il controllo della provincia di Dyala, grazie anche al supporto aereo offerto dai Phantom iraniani. In altre aree come Tikrit e Ramadi, invece, lo Stato islamico non cede o contrattacca.
A fine gennaio il Pentagono valutava che solo poco più dell’1 per cento del territorio iracheno occupato dal Califfato (55mila chilometri quadrati) fosse stato riconquistato, a oggi la percentuale è forse salita al 2 per cento. L’offensiva aerea sta avendo un impatto limitato, sufficiente a contenere i jihadisti, ma non a sbaragliarli. Sono state compiute più di 2 mila missioni aeree, il 90 per cento dagli americani, seguiti da britannici e francesi, per un totale di oltre 6 mila ordigni sganciati e altrettanti miliziani presumibilmente uccisi (secondo il Pentagono). Numeri che indicano un ritmo offensivo molto blando, soprattutto in Siria dove le operazioni aeree condotte soltanto da americani e arabi sono iniziate il 23 settembre e dove l’unico successo tangibile è stato la cacciata dei miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi dalla città curda di Kobane. Una vittoria più che altro simbolica, poiché le forze dello Stato islamico e i qaedisti del Fronte al-Nusra avanzano in tutto il paese, per lo più a spese delle milizie cosiddette moderate che combattono il regime di Assad. Nel frattempo il Califfato si espande. È penetrato anche in Libano, dove secondo il quotidiano panarabo Al Sharq al Awsat controlla il 4 per cento del territorio, mentre movimenti affiliati si stanno espandendo in Sinai e Libia.
I vertici militari Usa premono sulla Casa Bianca affinché autorizzi l’impiego di truppe terrestri per guidare l’offensiva di primavera prevista per liberare Mosul. In attesa di un eventuale via libera di Obama, la società di contractors Raidon Tactics sta arruolando decine di ex membri delle forze speciali da inviare in Iraq per addestrare le forze locali, ma anche per condurre azioni di combattimento e incursioni in profondità nel Califfato, con elicotteri e veicoli che saranno messi a disposizione dalla coalizione. Il bando d’arruolamento richiede un’esperienza di almeno sette anni nelle forze speciali con incarichi in Iraq, Afghanistan o Filippine e disponibilità a restare sei, otto mesi in «ambiente ostile». La paga è commisurata ai rischi: tra i 1.250 e i 1.750 dollari al giorno, circa il doppio di quanto guadagnano i contractor di Triple Canopy che proteggono l’ambasciata americana a Baghdad e dieci volte la retribuzione media di un contractor che protegge installazioni fisse in Afghanistan.