Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  febbraio 17 Martedì calendario

LA RICETTA DI ULIVIERI

Quando capisce dove si va a parare, e di cosa vogliamo parlare, al telefono Renzo Ulivieri ridacchia. Ormai c’è abituato: il direttore della scuola allenatori del Centro tecnico di Coverciano è fra l’incudine di colleghi che comunque hanno studiato per sedersi sulle panchine dove si accomodano (più o meno) oggi e il martello di altri colleghi, diciamo un po’ più vicini alla sua età, che parlano di «generazione messa al confino» e dei «danni devastanti del Guardiolismo » (Serse Cosmi, tanto per non fare nomi).
Come se ne esce, Ulivieri?
«Anzitutto non generalizzando, perché c’è una premessa fondamentale da non trascurare: non si può mortificare il desiderio di aggiornarsi e di farsi una strada di chi ha voglia di studiare. E dimostra di avere le capacità di percorrerla bene, quella strada».
E questo è quanto le «impone» di dire il suo ruolo: parlerebbe diversamente se non fosse a capo della Scuola e anche dell’associazione allenatori?
«No, perché ci sono esempi che parlano chiaro. Capello: prima di arrivare in A aveva allenato solo la Primavera del Milan. Mancini: prima della Fiorentina, solo vice allenatore alla Lazio. E’ gente che poi ha vinto abbastanza, mi pare».
Si potrebbe obiettare che sono eccezioni. E lei è stato il primo a sostenere che la voglia di studiare non basta.
«Infatti: non è questione di studiare o meno, ma di quanto si studia. O meglio: di quanto si deve studiare. Sui libri e soprattutto sul campo».
Si spieghi meglio.
«Io tornerei alla normativa che c’era fino a qualche anno fa. Devono passare due anni, e non solo otto mesi, per il passaggio dal diploma Uefa B al diploma Uefa A, e dunque per tutto quel periodo di tempo si può allenare solo nelle categorie consentite. E una volta diventato allenatore Uefa A, ne dovrebbero passare altri due, e non solo otto mesi, per provare ad avere la licenza Uefa Pro. Questo è l’unico “freno” che la Scuola potrebbe permettersi».
E quanto conta il parere del direttore di quella scuola, per ricominciare eventualmente a frenare?
«Io posso fare una proposta, e magari ne parleremo, ma teniamo conto che quanto succede negli altri Paesi non ci aiuta, visto che la situazione cambia da federazione a federazione. Però il parere del Consiglio del settore tecnico non basta, anche se per quanto mi riguarda dovrebbe bastare: il regolamento del Settore tecnico, e dunque le eventuali modifiche, dipendono dal parere del Consiglio federale. Dunque: noi possiamo suggerire, ma non decidere».
Invece le società sì: e infatti spesso decidono di bruciare i tempi, lanciando allenatori che hanno fatto la famosa gavetta solo per modo di dire.
«Questa è la legge del mondo del lavoro: non capita solo nel calcio che i più bravi, ma a volte anche i più fortunati, trovino un percorso più abbreviato».
Non c’è il rischio che si svaluti il concetto di professionalità?
«Torniamo sempre lì: la professionalità poi viene “giudicata” dal campo, ma in partenza dipende dallo studio. E gli allenatori italiani studiano tanto, fidatevi».
E invece il rischio che le scelte delle società dipendano dalle disponibilità economiche?
«Credo sia più un problema, che in effetti esiste, delle categorie inferiori. Almeno spero».