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 2015  febbraio 17 Martedì calendario

IL VOTO ALLE PORTE, I CONTI CON I FRATELLI E LA LUNGA MARCIA DI AL SISI SULLA LIBIA

I raid aerei egiziani su Derna, conquistata alla fine dello scorso mese di novembre dai jihadisti dello Stato islamico, non sono solo una rappresaglia per l’uccisione dei 21 cittadini copti. L’intervento militare in Libia, anche via terra, è nei piani delle forze militari egiziane – e del presidente Abdel Fattah al-Sisi, in primis capo delle Forze armate dal settembre 2012 al giugno del 2014 – da tempo, giudicato inevitabile per preservare la stabilità interna del Paese. Semmai, ieri è stato “consegnato alla storia”.
Il primo intervento congiunto egiziano- emiratino in Libia risale alla seconda metà dell’agosto 2014: allora, aerei non identificati bombardarono la periferia di Tripoli, là dove le brigate islamiste avevano conquistato l’aeroporto internazionale e fronteggiavano le brigate di Zintan. Era solo l’inizio di una serie di attacchi mirati, poi slittati nei cieli di Misurata, sempre smentiti dall’Egitto, ma confermati in modo uf- ficioso da fonti diplomatiche straniere, fra cui alcune americane. Una gaffe politica, forse, oppure uno sgarbo vero e proprio, quando la riconciliazione diplomatica fra Washington e l’alleato “golpista” non era ancora avvenuta.
Ciò che è certo è che l’Egitto, nell’estate- autunno del 2014, ha concesso le basi nei pressi di Siwa all’aviazione di Abu Dhabi per entrare nello spazio aereo libico. La scelta strategica è stata pagata con l’intensificarsi delle aggressioni nei confronti dei cittadini egiziani in Libia, anche se episodi cruenti anti-copti e anti-musulmani di cittadinanza egiziana hanno punteggiato tutto l’ultimo decennio, soprattutto in Cirenaica.
Evidentemente, i servizi egiziani e sauditi hanno valutato opportuno porre un freno ai jihadisti già otto mesi fa. Ma ora la minaccia, come un’ombra lunga, si è estesa a tal punto da richiedere un intervento con tanto di nome e cognome e probabilmente un progetto di tutoraggio politico di lungo termine. Per al-Sisi questo frangente è al tempo stesso un’opportunità e un rischio senza precedenti. Da un lato, con le elezioni parlamentari ormai alle porte, si tratta di dare nuovo smalto al suo profilo di “salvatore della patria”, così come a tutte le Forze armate: non mancano infatti le voci critiche per le diffuse violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze dell’ordine. Un nemico con mire espansionistiche concrete potrebbe oscurare il dissenso. E dare il colpo di grazia politico alla Fratellanza musulmana. Sulla scena internazionale, poi, il mondo arabo necessita di una nazione guida, ora che l’Arabia Saudita zoppica, nel dopo Abdullah, e che realmente si avverte l’apprensione per l’avanzata dei miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi.
Per Il Cairo, d’altronde, impegnato nel Sinai e nei principali centri urbani su base quotidiana non si può attendere che gli islamisti interni e quelli appostati a Ovest si coordinino e uniscano. L’azzardo sta tutto nel gioco delle alleanze: chi appoggerà sul campo le forze egiziane, chi darà al Cairo il sostegno politico ora e domani. Al-Sisi, per tutelarsi, ha intessuto relazioni economico- politiche in direzioni svariate: gli Stati Uniti non sono più l’unico fornitore; con armi e aerei russi e francesi – e progetti energetici nucleari – il ventaglio egiziano si è allargato. Ma è nelle nazioni nordafricane - Tunisia, Algeria, Marocco - che l’Egitto dovrà cercare appoggio. Senza, è difficile che possa fermare il virus islamista armato.