Adriano Favole, Corriere della Sera - La Lettura 15/2/2015, 15 febbraio 2015
IN PRINCIPIO NON FU IL BARATTO MA IL CREDITO E IL GIUBILEO FINANZIARIO PER EVITARE LA SCHIAVITÙ
«C’erano una volta e in paesi lontani… i popoli del baratto. Joshua, uno degli abitanti, aveva bisogno di un paio di scarpe, ma attorno a sé aveva solo patate. Per fortuna il suo vicino Henry produceva scarpe e voleva mangiare patate: i due ricorsero al baratto per soddisfare i loro bisogni. Le cose però non erano così semplici: Henry a un certo punto non ne poteva più di patate e a Joshua non servivano altre scarpe. Certo, altri attori potevano entrare in gioco con i loro beni, ma il baratto si rivelò inadeguato a società più complesse. L’invenzione della moneta semplificò il quadro. Misurando il valore delle merci, essa rese più agevoli gli scambi. Ancora una volta però le cose non erano così semplici: alcune persone cominciarono a richiedere crediti e finirono per indebitarsi. Nacquero così istituzioni per tenere a bada i debitori e garantire le restituzioni…».
Il resto ci porta più o meno fino alla Grecia di Syriza. Quella del baratto originario è, in realtà, una fiaba della scienza economica, sostiene David Graeber in un libro che ha creato un interessante dibattito anche in Italia ( Debito , il Saggiatore, 2012) e da cui ho tratto, sintetizzandola, la storiella iniziale. Un mito che gli economisti ripropongono dai tempi di Adam Smith, ma che non ha alcun riscontro né nella storia né nell’etnografia, né tra i primitivi antenati dell’Occidente né tra gli abitanti di altre parti di mondo. «Noi — scrive Graeber — non abbiamo cominciato col baratto, per poi scoprire la moneta e alla fine sviluppare un sistema di credito. È successo proprio l’opposto». Non è il baratto la categoria fondante delle economie e delle società umane, bensì il debito.
Nella piccola comunità di Joshua e Henry le patate si possono sì scambiare con delle scarpe, ma lo scambio sarà con tutta probabilità differito nel tempo. Joshua «dona» a Henry dei tuberi che ha in abbondanza, rendendo Henry un debitore. «Questo debito è l’essenza stessa della società ed esisteva prima ancora del denaro e dei mercanti». Il «debito» si basa sulla fiducia e sulla relazione sociale: la mitica società del baratto, un totem dell’economia neoclassica perché ha al centro l’atomo individuale dell’ homo oeconomicus , non è mai stata ritrovata né dagli storici né dagli antropologi. Di società che praticano il baratto è pieno il mondo ma, a parte periodi tormentati, esso è un fenomeno marginale che per lo più si attua con gli stranieri.
Non è un caso che le prime forme di scrittura ritrovate in Mesopotamia e datate oltre 5.000 anni fa fossero tavolette d’argilla su cui i sacerdoti dei templi registravano i debiti dei contadini. L’ammontare del debito era commisurato a quantità di grano o di argento che fungevano da «moneta virtuale». Le monete fisiche comparirono molto più tardi, verso il 600 a.C. Se ci spostiamo dalla storia all’etnografia, ritroviamo molte società in cui, tuttora, una parte importante dell’economia si basa sul dono e sul debito reciproco. Lo schema di Adam Smith viene così rovesciato: il debito e i sistemi creditizi sono all’inizio della storia (e, a volte, anche alla fine).
Nella prospettiva di Graeber, il debito è così importante da divenire un autentico «fatto sociale totale», a partire dal quale prendono forma istituzioni, pratiche e credenze che ritroviamo nelle stesse società contemporanee. Templi e sacerdoti, capitali e sovrani si fecero garanti dei debiti, coniando monete e «pagherò» di varia forma, ma seppero anche sfruttare il fenomeno a loro vantaggio, imponendo interessi e tributi. Il controllo della moneta permise di sorvegliare e punire i debitori. Accadde e accade spesso nella storia che intere schiere di popolazione non siano più in grado di far fronte ai loro debiti: esse finirono in schiavitù, cedettero le donne come prostitute oppure furono «redente» (liberate, assolte) attraverso giubilei finanziari.
Il debito è così importante per le faccende umane che il lessico e le credenze di molte religioni alludono a redenzioni e remissioni come vie di salvezza, concepiscono la vita come un «debito» verso la divinità e gli antenati, presentano il «conto» dopo la morte a coloro che non hanno rispettato i vincoli del debito. «Non è un caso — scrive ancora Graeber — che la prima parola che ci è stata tramandata con il significato di libertà sia il termine sumerico amargi , che stava per “libertà dai debiti” e che in senso letterale significava “ritorno alla madre”: quando veniva dichiarata bancarotta, infatti, tutti i pegni offerti come garanzia del debito potevano “tornare a casa”».
Un’attenta lettura della storia e dell’etnografia insegna dunque che, quando il debito interpersonale che fonda il legame sociale si corrompe in debito di massa, dando vita a schiere di debitori che marciano sull’orlo dell’abisso, la scelta è tra il renderli schiavi, il creare buone condizioni di vita perché possano restituire i loro debiti o ancora dichiarare un giubileo universale.
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Nelle trattative a livello europeo la Grecia ha avanzato l’ipotesi (invisa ai tedeschi) di convertire parte del suo debito pubblico in perpetual bond , titoli di Stato senza scadenza. Si tratta di uno strumento finanziario che ha una lunga storia dietro di sé, visto che venne adottato inizialmente dalla Gran Bretagna nel XVIII secolo e che il governo di Londra ha deciso di rimborsare il prossimo 9 marzo una parte dei perpetual bond emessi per coprire le spese della Prima guerra mondiale. Ma il concetto di debito perenne non riguarda solo una particolare categoria di titoli, poiché gli oneri gravanti sulle finanze di alcuni Paesi, compresa l’Italia, hanno assunto da tempo un carattere che ne condiziona la vita in modo permanente. Da qualche tempo la questione è centrale per il nostro futuro: per questa ragione, al di là dei problemi economici contingenti, ci è sembrato utile esplorarne gli aspetti di natura culturale. Per esempio il retroterra storico ripercorso in queste pagine da Sergio Romano, con puntuali riferimenti alle vicende del Regno d’Italia. Oppure i risvolti di natura antropologica su cui si sofferma Adriano Favole, smentendo alcune consuete raffigurazioni della teoria economica classica. Per finire con le questioni filosofiche esaminate da Donatella Di Cesare, che ribadisce l’importanza della distinzione tra etica ed economia, ponendo in rilievo la pericolosità del nesso istituito tra debito e colpa morale.