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 2015  febbraio 15 Domenica calendario

ORSO D’ORO AL REGISTA DISSIDENTE PANAHI L’IRAN SPIATO DA UN TAXI TRA CENSURE E

RISATE –
È stato sicuramente l’Orso d’oro alzato al cielo dalla «vincitrice» più giovane, ma anche uno dei più applauditi: Hana Saeidi, la piccola interprete di Taxi (nel film è la puntuta e intraprendente scolaretta che vuole girare un documentario, secondo il sito della Berlinale anche vera nipote di Panahi) è stata trascinata sul palco dal direttore del festival Dieter Kosslick a ricevere il premio al posto del regista iraniano, impossibilitato a lasciare Teheran. E intanto la sala della Berlinale si stringeva con il suo calorosissimo applauso attorno a un regista che nonostante minacce e condanne non ha perso la voglia di lottare con il cinema e per il cinema.
Quest’anno erano in molti ad avanzare dei dubbi sulla giuria di questa sessantacinquesima edizione: tre statunitensi su sette (i produttori Martha De Laurentiis — la figlia di Dino — e Matthew Weiner, e il regista Darren Aronofsky a fare il presidente) rischiavano di far pendere i premi dall’altra parte dell’Atlantico, o comunque verso un cinema eccessivamente sbilanciato sul versante «hollywoodiano».
E invece il verdetto che ha assegnato l’Orso d’oro a Taxi di Jafar Panahi (comprato per l’Italia da Valerio De Paolis) e quello d’argento a El Club di Pablo Larraín ci sembra inappuntabile e tra i migliori degli ultimi anni, perché, grazie anche a due ex aequo, non ha dimenticato nessuno dei bei film visti a Berlino (con la parziale eccezione del nostro Vergine giurata , non esente però da qualche ingenuo intellettualismo di troppo), passando invece sotto silenzio le opere che erano arrivate in concorso soprattutto per popolare il red carpet con le loro star.
Bloccato a Teheran da una condanna che non è mai stata applicata fino in fondo (dovrebbe passare sei anni in carcere) ma che comunque ne limita fortemente i movimenti, Jafar Panahi si è inventato taxista per offrire, attraverso i suoi variopinti clienti, uno spaccato del Paese reale e delle sue tante contraddizioni.
Un po’ quello che ha fatto anche il cileno Pablo Larraín e il suo El Club , con un tono però decisamente più cupo e drammatico (squarciando un velo sui tanti peccati della chiesa cilena, dalla pedofilia alla compromissione con i torturatori militari). Assolutamente condivisibile anche il premio Alfred Bauer (per il film che apre nuove prospettive) al guatemalteco Ixcanul , sulle catene culturali e materiali dei poverissimi contadini maya (anche questo arriverà in Italia, comprato da Parthénos/Lucky Red).
Come era stato facile prevedere, i premi per l’interpretazione sono andati a Tom Courtney e Charlotte Rampling, coppia sull’orlo di una crisi matrimoniale in 45 Years (anche lui già comprato dall’italiana Teodora): una prova assolutamente perfetta, come solo i grandi attori sanno regalare.
Due gli ex aequo: per la regia (al romeno Radu Jude per Aferim! e alla polacca Malgorzata Szumowska per Body ) e per la fotografia (al film tedesco Victoria e al film russo Sotto nubi elettriche ).
Mentre l’Orso alla sceneggiatura ha premiato il documentarista cileno Patricio Guzmán per El botón de nácar dove traccia un parallelo tra il genocidio degli indios della Patagonia e le esecuzioni in massa sotto Pinochet.
Rivendicando anche con questo riconoscimento l’anima «politica» di un festival che — per usare le parole del direttore Kosslick, smagliante con il suo papillon bianco — «non si preoccupa solo di quello che si vede sul tappeto rosso, ma di quello che succede in tutto il mondo».