Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 14/2/2015, 14 febbraio 2015
GENIALE PADRE-PADRONE DEI LIBRI LIVIO GARZANTI , L’ULTIMO CAPITANO
Era l’ultimo padre-padrone dell’editoria italiana. La sua generazione ha sfornato grandi patriarchi del libro, tutti (o quasi) pieni di genio. Giulio Einaudi era del 1912, Alberto Mondadori del 1914, Giangiacomo Feltrinelli e Vito Laterza erano del 1926. Livio Garzanti era del 1921, come Paolo Boringhieri. In poco più di un decennio sono venuti al mondo i pilastri della cultura del dopoguerra: all’estero quei signori erano invidiati e ammirati.
Garzanti è stato l’ultimo e uno dei maggiori, ma sempre un po’ in disparte, per civetteria amava dirsi «anomalo», con il suo carattere impossibile, poca mondanità, nessun giro politico e molto lavoro dietro le quinte. Non ha fondato la casa editrice, ma è come se l’avesse fatto. Nel 1936, suo padre Aldo, professore forlivese di lettere, aveva acquisito la Treves, trasferendosi a Milano. Il giovane Livio, laureato con una tesi su Kant, avrebbe voluto insegnare filosofia, e invece prima si occupa dell’«Illustrazione italiana» poi, nel 1952, si ritrova tra le mani il giocattolo intero, perché suo padre molla tutto per ritornare a Forlì. Nel giro di qualche anno, la Garzanti diventa una delle maggiori casa editrici italiane: «Sono arrivato in editoria — raccontava il vecchio Livio — da figlio di papà, ero un agnellino, non un enfant prodige , sono stato favorito dalla sorte…».
Nel 1955, su consiglio del grand gourmand della letteratura italiana, Attilio Bertolucci, suo mentore e consulente principe, Garzanti pubblica Ragazzi di vita di Pasolini. In realtà, quando gli capitano sotto gli occhi le bozze del romanzo, l’editore si rende conto dei rischi che correrebbe pubblicandolo tale e quale, dunque impone all’autore una pesante «autocensura»: gli consiglia di sfoltire le parolacce e di attenuare gli episodi più spinti. Pasolini gli obbedisce, accusando in privato l’editore «vergognosamente ingeneroso», in un mese perde 5 chili e invia a Garzanti il dattiloscritto «ripulito». Il che però non eviterà a entrambi un processo, contro il «carattere pornografico» dell’opera, promosso niente meno che dal governo di Antonio Segni.
Era l’anti-Einaudi, Livio Garzanti. Detestava sia l’eccessiva collegialità sia la militanza politica. Non amava i rapporti amichevoli sul lavoro, mai dare del tu a un autore, era troppo timido e troppo arrogante, un seduttore e un tiranno, capriccioso e pronto a scaricarti alla prima occasione, a sbeffeggiarti, a mandarti al diavolo senza ragione. Non per niente Goffredo Parise, che ne subì a lungo le nevrosi, gli fece un ritratto al vetriolo nel romanzo Il padrone , una sorta di favola kafkiana il cui protagonista è un despota che considera i dipendenti «suoi oggetti personali». Garzanti soffrì in silenzio: «Parise — ricordò — veniva spesso a pranzo da me per poi scrivere male di me…». Pasolini lo confortava, dicendo che Il padrone in realtà era una dichiarazione d’amore. Pierpaolo era amico di Garzanti, ma un amico «senza confidenze», anche con lui Livio non arrivò mai a darsi del tu. «Lei mi dà una merce e io la pago», gli diceva l’editore. Ruppero ogni rapporto perché Pasolini non approvò la pubblicazione di Alberto Bevilacqua, considerandolo uno scrittore di serie B. Cominciò così la corte a Pasolini da parte dell’Einaudi, e Garzanti avrebbe poi rifiutato fieramente di pubblicare l’«impubblicabile» postumo Petrolio .
Caratteraccio: parola che Garzanti considerava troppo gentile e per questo pensava di non meritarsela. Fatto sta che per tollerare le sue bizze bisognava avere l’equilibrio dei diplomatici, la pazienza di certi santi e una forte dose di ironia sdrammatizzante. Certamente ne sapeva qualcosa la scrittrice (e allora anche politica) Gina Lagorio, che Livio sposò nel 1973, dopo un primo matrimonio con Orietta Sala.
Non c’è dunque da meravigliarsi se in Garzanti i direttori di più lungo corso sono stati Piero Gelli e Gianandrea Piccioli. Il primo arrivò nell’inverno del ‘69 per studiare le carte di Gadda e fu assunto dall’editore nel giro di pochi giorni con il triplo dello stipendio che Gelli guadagnava come insegnante. Il secondo, Piccioli, sarebbe stato chiamato nel 1972 da Giovanni Raboni per scrivere le voci teatrali della Garzantina letteraria e poi entrare alla redazione di quell’impresa monumentale che fu l’ Enciclopedia . Perché non bisogna mai dimenticare che la più geniale innovazione di Livio Garzanti fu, dai primi anni Sessanta, il cantiere delle grandi opere: le Garzantine monotematiche, i dizionari, l’ Enciclopedia Europea , che richiesero una formidabile struttura redazionale interna. Dal ’73 la collana di tascabili Grandi libri comincerà a competere sul mercato con Oscar e Bur. Nei corridoi di via Senato in quegli anni circolavano — oltre a Bertolucci e Raboni — Del Buono, Manganelli, Arbasino, Soldati, Garboli, Tadini, Magris, Fofi, Bellocchio, Cherchi, Camon, il giovanissimo Cordelli.
E i poeti. Alla poesia Garzanti aveva aperto il suo catalogo con generosità. Mettendo su, complice Bertolucci ma anche Gina Lagorio, una doppia collana ambitissima, con i maggiori, da Mario Luzi a Giorgio Caproni, dallo stesso Pasolini a Vittorio Sereni, da Sandro Penna a Camillo Sbarbaro, da Giudici a Amelia Rosselli. Il meglio.
Certamente, Livio Garzanti era un uomo di gusti raffinati e di notevole cultura. Fu il primo editore del romanziere Paolo Volponi ( Memoriale è del 1962), con il quale vinse un premio Strega ( La macchina mondiale , 1965). Litigò con lui, fino a portarlo in tribunale, quando nel 1974 Volponi consegnò Corporale a Einaudi. Con l’Einaudi furono battaglie epiche: Livio cercò di soffiare allo Struzzo La storia della Morante, senza riuscirci. Il colpaccio avvenne nel 1984, quando strappò al nemico torinese, in crisi economica, niente meno che Italo Calvino. Fu Gelli a condurre la trattativa, ogni volta scontrandosi con i suoi umori variabili: «Non me ne frega niente di Calvino! — urlava — Non è neanche un mio autore, e poi non l’ho mai sentito al telefono!». Era irritato che Calvino non lo avesse mai chiamato, ma una cena al Toulà di Roma pose rimedio all’«offesa». Per non dire della battaglia per l’Ingegnere, Carlo Emilio Gadda, che distribuiva promesse editoriali a tutti, minacciando di tradirlo a ogni istante. E infatti lo tradì più volte. Ma il suo maggiore successo, il Pasticciaccio , del 1957, fu targato Garzanti. Anche per Beppe Fenoglio fu in perenne contesa con Einaudi. Erano guerre tra intenditori, evidentemente: oggi impensabili, visto che la qualità degli autori conta molto meno del loro valore di mercato. Bisognerebbe aggiungere gli stranieri, con scelte sussultorie e a volte contraddittorie, ma comunque spesso folgoranti e pionieristiche: due Faulkner, un Nabokov, un Canetti, Fleming, Capote, Mailer, Segal…
Ma qui si apre un altro capitolo conflittuale, quello tra Garzanti e il potente (anzi, unico) agente Eric Linder, che veniva accusato di boicottaggio e che lo accusava a sua volta di essere semplicemente un pazzo. Nel febbraio 1995, Livio Garzanti cedette la sua casa editrice alla Utet e si ritirò a leggere e a scrivere (aveva già scritto romanzi e racconti e poi avrebbe dato alle stampe un saggio su Platone). Pare che per molti anni il suo sogno ricorrente fosse l’incendio della casa editrice. E qualcuno ricorda che un giorno sì e l’altro no urlava: «Se trovassi qualcuno che desse fuoco alla Garzanti, gli darei un sacco di soldi!».