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 2015  febbraio 17 Martedì calendario

Notizie tratte da: Rupert Crawsshay-Williams, Bertrand Russell. Ricordo di un’amicizia, Castelvecchi Roma 2014, pp

Notizie tratte da: Rupert Crawsshay-Williams, Bertrand Russell. Ricordo di un’amicizia, Castelvecchi Roma 2014, pp. 184, 19,50 euro.

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«Poiché il mondo intero è la tomba di uomini illustri, la cui storia non soltanto è scolpita sulla roccia della loro terra natia, ma continua a vivere nelle profondità del tempo, senza simboli visibili, intessuta nella sostanza delle vite di altri uomini.» [Dall’orazione funebre di Pericle, Tucidide]

Bertie era il diminutivo con cui veniva chiamato Russell dagli amici. Quasi un delitto di lèse-majesté che a un uomo così eminente si desse un nome simile. Quel nome, quando pronunciato, causava un fragore più forte del consueto.

Per circa un anno, fino al 1934, Bertrand Russell alloggia e lavora al castello-albergo Portmeirion. Nella biblioteca gotica vittoriana scrive Storia delle idee del secolo XIX. Quando per esigenze belliche il castello è requisito dal ministero dell’Istruzione, nel 1939, Rupert Crawshashay-Williams, suo futuro amico, è chiamato a insegnare matematica, francese e inglese si trova circondato non solo dai libri ma anche dalla leggenda della presenza di Russell. La maggior parte dei libri sugli scaffali, in effetti, erano i resti della biblioteca personale di Russell ai quali si aggiungevano i molti mandati da autori ed editori speranzosi.
Bertrand Russell era, in fin dei conti, la più alta personalità nella nostra sfera di interessi. E conoscere una persona che predomina intellettualmente e che è celebre per questo non è soltanto un piacere sociale o snobistico; è anche un’impresa. Sebbene si possa essere colpiti da un re, purché si conoscano le forme, il protocollo, poche cose possono andare storte. Con un uomo come Bertrand Russell, invece, esiste sempre l’orribile possibilità che l’intera conversazione possa languire e scomparire nel nulla perché si è incapaci di far scoccare una scintilla di intelligenza luminosa sufficiente per stimolare all’azione quell’eminente cervello.

Russell non smetteva mai di fumare tranne che per mangiare o dormire.

I capelli di Russell: lunghi (per quei tempi), folti e di un bianco puro. Lui andava orgoglioso di qui capelli e mia moglie si accorse che riusciva a indispettirlo lodando i capelli bianchi di una zingara che viveva nella tenuta Portemeirion. Anni dopo, divertì molto tutti quanti la gara tra Russell e Frank Lloyd Wright a un ricevimento in una sala di Portmeirion, in cui una delle pareti è rivestita interamente di specchi. L’aspetto di Frank Lloyd Wright era così ben curato, alla maniera americana, che i suoi capelli, sebbene meno folti e rigogliosi di quelli di Russell, sembravano più bianchi del bianco.

Russell era molto basso di statura. Ma non lo si notava mai. Si teneva sempre molto dritto e in lui non c’era alcuna traccia dei sotterfugi che carezzano l’uomo basso di statura che soffre di essere piccolo. È straordinario il numero delle volte in cui, nel periodo in cui lo frequentammo, le persone che avevano trascorso una serata con lui non avevano notato, semplicemente, come la sua statura fosse insolitamente bassa.

Nella conversazione, Russell era sensibile come il grilletto che cede alla minima pressione; ascoltava attento qualsiasi opinione venisse esposta e, ciò che più conta, il suo sorriso incoraggiava all’istante anche il più blando tentativo di dire qualcosa di divertente.

Due tipi nettamente opposti di reazione alle situazioni sociali capaci di determinare ansia: una delle reazioni si traduce nel desiderio di piacere, l’altra nel desiderio di passare per una persona che non vuole piacere nel timore di sembrare insicuri. Gli uomini illustri, forse perché in genere sono assillati da individui i quali amano la loro fama più che la loro persona, sembrano reagire più spesso nel secondo modo o, comunque, nessuno si stupisce se si comportano così. La reazione di Russell rientrava decisamente nella prima categoria. E lui stesso riconobbe, durante conversazioni successive, che il suo desiderio di piacere, di essere apprezzato era fortissimo.

Il «rituale del riconoscimento di gregge» di Trotter sulla «conversazione tra persone che non si conoscono» dice «…quando è soddisfacente, tende ad essere ricca per quanto concerne il rituale del riconoscimento. Allorché si ascoltano queste evoluzioni complesse, o vi si prende parte, queste caute profferte dei reciproci caratteri distintivi dell’identità, dei rispettivi punti di vista sul clima, sull’aria fredda e sugli spifferi, sul governo e sull’acido urico, nel corso delle quali si bada attentamente al primo sommesso accenno di un ringhio, tale da dimostrare che si appartiene a un’altra muta e che occorre fare marcia indietro, è impossibile non ricordare le analoghe manovre del cane e non essere grati per il fatto che la natura ci ha fornito un codice meno immediato, anche se forse più noioso».

«Come insegnerebbe ai bambini la definizione del numero 2?» domandò Russell. «Immagino che introdurrebbe il concetto sin dagli inizi dell’aritmetica». Come si aspettava, l’amico Rupert, rispose che l’avrebbe introdotto sin dall’inizio, dapprima facendo giocare il bambino con alcune paia di oggetti, e poi, quando le parole fossero state opportune, in termini di addizionare uno e uno. «In Principi della matematica», disse Russell, «la definizione del numero cardinale 2 viene data pressappoco a pagina 250. E quanto essa dice, sebbene in simboli, è: “Il numero cardinale 2 consiste della classe di tutte le coppie. Queste coppie vengono definite come segue: esiste qualche concetto, che noi chiameremo p, per cui, se A e B, che non sono identici, fanno entrambi parte di p, e non esistono altri componenti, allora p è una coppia». Notai un particolare tono di soddisfazione nella sua voce, mentre diceva così; e in seguito scoprimmo che gli era caratteristico. Provava un piacere da autocrate intellettuale se riusciva a dimostrare che le cose sono più complesse o paradossali di quanto potrebbero sembrare. Arrivava al punto di far nascere misteri dove prima non ne erano mai esistiti.

L’implicita esagerazione era un fattore dell’arguzia di Russell. Come riconosceva lui stesso, è quasi impossibile essere divertenti a spese delle idee di una persona intelligente senza essere anche un po’ sleali nei suoi riguardi. Se vale la pena di prenderle in giro, di rado quelle idee saranno del tutto e manifestamente stupide. Così, per farle sembrare abbastanza sciocche, affinché siano vulnerabili da un commento «conciso» e di conseguenza potenzialmente arguto o incisivo, è necessario che in qualche modo vengano ipersemplificate.

Russell faceva una distinzione chiara tra rimorso e colpa. Potevamo riconoscere un obbligo etico di questo genere, e potevamo anche decidere con rimorso che non lo avremmo osservato.

Nel 1931 eredita il titolo nobiliare dal fratello, non si affretta ad adottarlo, ma di certo non lo disdegna, in caso di emergenza gli assicura un trattamento privilegiato in alberghi, ristoranti e negozi.

Russell era un inveterato osservatore dei numeri di targa e spesso inventava sistemi mnemonici per imparare a mente le sigle. La macchina che avevamo allora, targata BPJ 417, venne identificata in modo lusinghiero come Bloody Potent Jalopy (un macigno maledettamente potente).

Nel 1940 fu nominato professore di filosofia nel CItu College di New York. Prima che avesse potuto assumere il nuovo incarico, ma quando già aveva rassegnato le dimissioni in California, la nomina venne contesta da un contribuente e annullata, perché, secondo il giudice (un cattolico romano), Russell difendeva teorie immorali e volgari e scriveva oscenità. Il giudice si rifiutò di far intervenire Russell alle udienze, per cui lui non poté replicare, e le autorità scolastiche decisero di non fare appello.

A cena, il giorno del suo arrivo, iniziammo a parlare della definizione di «gentiluomo» con la quale ci aveva deliziati partecipando a un recente Brains Trust della Bbc. La sua era stata la sola definizione priva di ipocrisia, snobismo e cliché. Altri componenti del Brains Trust avevano avanzato proposte vaghe inconcludenti (come quella secondo la quale il gentiluomo non deva mai essere sgarbato tranne che volutamente), dopodiché Russell aveva detto: «Gentiluomo è colui il cui nonno guadagnava più di mille sterline all’anno».

«Il concetto di gentiluomo», disse Russell, «è stato inventato dagli aristocratici per tener buone le classi medie».

Russell si era recato in Russia nel 1920 (ma non si abbassava mai al punto da lasciar capire che coloro che non c’erano stati non potevano parlare) ed era stato tra i primi delusi.

Russell diede prova di essere molto più draconiano di quanto ci fossimo aspettati. In fin dei conti, una delle cose che avevamo sempre ammirato in lui era il modo straordinario con il quale, per tutta la vita, aveva combattuto, il proprio impulsivo desiderio di certezza. E questa ammirazione era stata confermata quando, nell’introduzione alla Storia della filosofia occidentale, avevamo letto la seguente affermazione: «Insegnare il modo di vivere senza certezza, non lasciandosi però al contempo paralizzare dall’esitazione, è forse la cosa più importante che la filosofia, nella nostra epoca, possa ancora fare per chi la studia».

Nei suoi scritti, quando aveva il tempo di riflettere, i freni e i controlli venivano opportunamente applicati… perlomeno per la maggior parte delle volte. Ma nella viva discussione, le cose stavano spesso in modo diverso.

All’interrogativo se il comunismo sia peggiore del nazismo Russell aveva un atteggiamento variabile. Poteva asserire che i sistemi del comunismo erano pessimi quanto quelli di qualsiasi Stato totalitario, ma se provocato poteva arrivare a dire che la Russia era di gran lunga peggiore della Germania. Circa il secondo interrogativo, rivelare o non rivelare i segreti nucleari ai russi, le generalizzazioni diventavano ancora più feroci. Il tradimento dei russi sarebbe stata cosa certa, per così dire costituzionale. Inutile dirlo, avrebbero rubato i nostri segreti e conservato i loro.
Nell’ Autobiografia dichiarò essere una sua caratteristica «l’abitudine di descrivere le cose che si trovano quasi insopportabili in modo così repellente da indurre anche gli altri a condividere la nostra furia».

La grande differenza tra lui e la maggior parte dei polemisti consisteva nel fatto che lui poteva di norma essere fatto indietreggiare dalla propria posizione estremista, e spesso indietreggiava spontaneamente quando entrava in gioco la serietà. Il suo fondamentale equilibrio aveva escogitato una sorta di efficace «ragionamento strategico» che effettuava una difesa in profondità delle opinioni a lui più care.

Quando era in vena di attività e rilassava il proprio scetticismo, si sentiva libero di chiamare a raccolta le proprie energie e quelle dei suoi compagni d’armi. Avanzava in profondità e occupava una posizione in apparenza dominante. Questa, in fin dei conti, è la stessa cosa che fa la maggior parte di noi; veniamo indotti ad avanzare dall’accondiscendenza dei nostri amici, dal fatto che non siamo esposti a critiche malevole; di conseguenza, non ci accorgiamo delle prove accumulate contro di noi. Ci troviamo a un’altezza dominante che le sovrasta. Poi, dopo esserci convinti che la nostra posizione è inespugnabile, tentiamo di mantenerla. E quando constatiamo che, tutto sommato, questa è vulnerabile, ci lasciamo prendere dall’ira.

L’uomo, per Oscar Wilde, è un «animale razionale che perde sempre la pazienza quando deve agire in armonia con i dettami della ragione». Russell non appena una posizione diventava insostenibile, ripiegava, l’abbandonava, riorganizzava le proprie forze.

In una lettera al «Times» del 30 novembre 1948, Russell volle precisare le sue opinioni circa delle errate interpretazioni a seguito di un suo discorso pronunciato alla Westminster School. Era uno di quelli che sul problema sovietico non faceva mistero ma stavolta sottolineò che si era limitato a dire che le «democrazie dovrebbero essere “preparate” a ricorrere alla forza, se necessario, e la loro decisione dovrebbe essere resa perfettamente chiara alla Russia».

Bertie accennò a una volta in cui aveva discusso di etica alla radio con Lord Samuel: questi aveva appena dichiarato, convenzionalmente, che far giustificare i mezzi dal fine è ingiusto. Russell obiettò: «Che altro potrebbe giustificare i mezzi?».

Il torto del comunismo, riconoscemmo, non stava nel fatto che esso giustificava i mezzi con il fine, ma nella sua eccessiva certezza che i propri, cattivi, mezzi avrebbero conseguito il fine, buono, e che il bene del fine avrebbe superato il male dei mezzi. Se fosse stato possibile essere assolutamente certi (ad esempio) che lo sterminio dei kulak avrebbe portato a un augurabilissimo Stato senza classi, allora quello sterminio avrebbe potuto forse essere giustificato. Ma non era nemmeno concepibile che i capi comunisti potessero essere stati sufficientemente certi di questo.

Quando Patrick Blackett pubblicò il suo libro Conseguenze politiche e militari dell’energia atomica, nel 1948, Russell si oppose energicamente alla tesi generale dell’opera, vale a dire, in termini generali, che «il lancio delle bombe atomiche sul Giappone non ha costituito tanto l’ultima azione militare della Seconda Guerra Mondiale, quanto la prima mossa della Guerra Fredda diplomatica con la Russia».
Quando il risentimento venne soppresso scomparve anche il ricordo di tale parere. È questo, secondo Rupert, a spiegare il vuoto di memoria, a prima vista stupefacente, degli anni Cinquanta, quando lui, recisamente e furiosamente, negò di essere mai stato «favorevole a una guerra preventiva contro la Russia».
Russell, riferendosi ai suoi dinieghi disse:
«Avevo in effetti dimenticato completamente di aver mai ritenuto augurabile una politica di minaccia implicante una possibile guerra. Nel 1958 Alfred Kohlberg e Walter W. Marseille richiamarono la mia attenzione su cose che avevo detto nel 1947, e io le lessi con stupore. Non so come giustificarmi».

L’intero aspetto compendia un aspetto del genio di Russell: la sua dedizione emotiva a una causa era tutto o niente, eppure lui riusciva a resistere alla tentazione di razionalizzare i propri errori.

Conservo ancora, ricorda l’amico Rupert, un diagramma sul quale segnavo i nostri punteggi relativi a un questionario che doveva fungere da indice degli atteggiamenti di sinistra e di destra, non soltanto nel campo della politica, ma in tutti i campi. Si trattava della graduatoria Wisconsin del radicalismo e del conservatorismo, impiegata da Sheldon nella sua opera sulla sua opera sulla psicologia delle differenze costituzionali. Su questa graduatoria vi sono venti domande suddivise in quattro «zone consce» e contrassegnate da uno per l’estremo conservatorismo a cinque per l’estremo radicalismo. Il punteggio totale per un conservatore estremista ammontava così a venti, e per un radicale estremista a cento.
Il punteggio totale di noi […] si approssimava a ottantacinque.

Russell fu sottoposto a una piccola batteria di test di vario genere. Per determinare il quoziente intellettivo. Bertie non soltanto aveva un’intelligenza unidimensionale, possedeva par excellence, una immaginazione verbale (in contrapposizione a quella visiva). Per lui la realtà veniva mediata con simboli; in molte situazioni non poteva rendersi conto di quel che accadeva se non tramite le parole. La sua necessità di simboli verbali venne dimostrata in modo drammatico quando lo sottoposi a un test sul quoziente di intelligenza del tipo delle analogie… il tipo di test che dimostra, nella sua forma più semplice, ad esempio, un circolo tracciato con una sola line accanto a un quadrato tracciato con una sola linea, e poi mostra soltanto un circolo tracciato con una doppia linea, e si aspetta che il soggetto scelga, tra quattro figure diverse, il quadrato tracciato con una doppia linea.
Dapprima Bertie fu molto rapido di quanto lo fossero stati tutti i miei allievi a scuola. Questo era straordinario, perché la capacità intellettuale innata determinata essenzialmente da questi test non aumenta in misura apprezzabile dopo i sedici anni di età e perché, in pratica, la gente tende a peggiorare in questi test man mano che invecchia. Ci entusiasmammo molto, e poi, con nostro stupore, Bertie rinunciò prima di essere arrivato alla fine. La spiegazione: «Non riconoscevo i nomi delle figure», disse semplicemente Bertie. Verso la fine del test le figure erano divenute tante e così complesse che non esistevano più denominazioni descrittive ragionevolmente concise. A partire da quel momento, la sua percezione delle forme era venuta meno (naturalmente esisteva, con ogni probabilità un altro fattore nel suo rifiuto di continuare. Alla sua età e con la sua fama rimanevano ben pochi impulsi intellettuali emulativi. Sapeva già, in fin dei conti, di avere un quoziente di intelligenza molto alto).

Nel 1959 il programma Tonight della Bbc pose il seguente quesito: come individuare, mediante tre pesature su una bilancia, un penny non rispondente ai requisiti normali tra dodici pennies. L’amico Rupert girò il problema a Bertie che, per tutta risposta disse «No, non voglio risolvere un problema di questo genere. Accadrà che non riuscirò a risolverlo e la mente continuerà a ronzarmi per due giorni». Raccontò poi del povero Herbert Spencer che, a causa della sua iperattività cerebrale, andava alle cene con due tappi per le orecchie in tasca. Se la conversazione diventava troppo stimolante se li conficcava nelle orecchie e taceva per il resto della serata.

Le quattro, ora del tè. Russell senza il tè si sentiva infelice, da solo non sapeva come mettere l’acqua nel bricco, il tè nella teiera e la tazza sul piattino. Era quasi una caricatura del filosofo lontano dalla vita pratica, e l’idea che sapesse davvero regolarsi in un’emergenza domestico-meccanica faceva ridere. Un pomeriggio Rupert ed Elizabeth dovevano fare delle commissioni, rientrarono alle cinque, Bertie era infelice e il tè ancora da fare.

Le incapacità pratiche di Russell trovavano un parallelo in una sorta di disagio pratico in taluni contesti sociali. Non che lui si dimostrasse incapace in tali contesti. All’opposto, l’educazione impartitagli lo aveva costretto a imparare le «regole». Era notevolmente abile nell’essere compito; come ospite sapeva adulare e come anfitrione era premuroso, e i suoi modi erano così perfettamente all’antica che non riusciva a sedersi a un ricevimento se vedeva donne in piedi (questo portò alla conseguenza, sia detto di sfuggita, che i cocktail divennero faticosi per lui a novant’anni, a meno che non si trattasse di piccoli ricevimenti in cui tutti potevano trovare posto a sedere). Interveniva più che mai, pertanto, per constatare che lui potesse essere talvolta sopraffatto dal silenzio della timidezza.

Timidezza. Ricordo che nei primissimi tempi entrammo tutti in una farmacia perché lui voleva acquistare un pettine. Il commesso aspettò con aria interrogativa; seguì un silenzio. Infine Bertie mi disse a voce bassa: «Chiedilo tu».

In un noto esperimento un luccio viene posto in una grossa vasca insieme ad alcuni pesciolini d’acqua dolce. Il luccio attacca e divora i pesciolini. Poi una lastra di vetro viene inserita nella vasca, in modo da dividerla in due metà, e molti altri pesciolini vengono immessi nella metà in cui non si trova il luccio. Quest’ultimo comincia subito ad attaccare, ma ogni volta urta contro la lastra di vetro. Alla fine, rinuncia completamente ad attaccare. Dopo qualche tempo, la lastra divisoria viene tolta, e i pesciolini tornano ad essere disponibili, ma il povero luccio non fa un bel nulla: ha imparato la lezione. La teoria del condizionamento.

Mentre stavamo prendendo il tè, oggi, Bertie ci ha parlato del suo ultimo viaggio in treno fino a Londra; era stato riconosciuto da un compagno di viaggio che aveva cominciato a parlare senza riprendere fiato, finché lui, incapace di interromperlo e quasi sul punto di venir meno per la noia, si era domandato se non fosse il caso di azionare il segnale d’allarme. È a quel punto che l’amica Elizabeth esclamò la prossima volta fingi di non essere lui. Bertie allora, seduto sulla sedia come se si trovasse sulla carrozza ferroviaria, ha cominciato con una voce sonora da oratore: «BERTRAND RUSSELL, signore, è DI GRAN LUNGA l’uomo più intelligente del mondo. Non c’è nessuno che lo uguagli, è un gran lavoratore, è astemio…».

Un giorno uno sconosciuto lo avvicinò e disse «Io l’ammiro molto». Russell assunse un’espressione di diffidenza. L’uomo proseguì nei complimenti fino a quando non fu chiaro che l’uomo aveva creduto che Bertie fosse un uomo, dalla chioma altrettanto bianca, autore di un ottimo libro intitolato Vele immortali. L’aveva scambiato per un altro.

Bertie beveva invariabilmente whisky con acqua, quando veniva per bere qualcosa; voleva esattamente due whisky abbastanza forti ogni sera, e mi pregò di non offrirgliene di più; infatti, disse, trovava che due whisky gli davano l’optimum in fatto di desiderio e capacità di parlare. Avevamo sempre eccellente whisky irlandese in abbondanza, anche in quei tempi di restrizioni, perché una distilleria irlandese mandava ogni mese una cassa di bottiglie al «Conte Russell», con i suoi rispettosi omaggi. Bertie non guardò mai in bocca al caval donato; temeva infatti che il dono potesse essere destinato in realtà a suo fratello.

In genere, quando Russell aveva terminato uno o due capitoli della Conoscenza umana, arrivava in autobus dalla casa di Ffestiniog e noi andavamo a prenderlo in macchina sulla strada maestra (esisteva ancora il razionamento della benzina), dopodiché seguiva una seduta di due o tre ore. Io leggevo a voce alta il dattiloscritto a Bertie e a Elizabeth, ed era inteso che chiunque avrebbe potuto interrompere la lettura per fare commenti. […] I modi di Bertie erano sempre perfetti. E così, potei cogliere il solo indizio del fatto che qualcosa non andava bene in una certa tensione e brevità dei commenti di lui su quello che dicevo… una tensione che si dileguava quando avevamo letto una mezza dozzina circa di pagine. Ad essa si accompagnava a volte un silenzioso tamburellare delle dita sul ginocchio.

La risata di Bertie, quando lui si lasciava andare sul serio, era molto caratteristica e assai difficile da descrivere. Si toglieva la pipa di bocca… come per prepararsi, in un certo qual modo, ad aprire i polmoni. Poi ridacchiava davvero molto forte per molto tempo… si interrompeva… sospirava e diceva : «Oh povero me! Oh povero me!».

Come lui stesso ammise, tutti gli scrittori sono più vanitosi dei comuni mortali. Andò in estasi per una frase attribuita a Logan Pearsall Smith: «Ogni autore, per quanto modesto, tiene un’oltraggiosa vanità incatenata come un pazzo furioso nella cella imbottita del suo petto».

Tanto la vanità quanto l’incertezza si manifestavano mediante un apparente desiderio di essere lodato. La gamma emotiva, nonché quella intellettuale, di tutti gli attributi di Bertie, era quella di un genio. È un cliché l’idea che a formare un uomo le cui conquiste sono fuori del comune sia spesso una serie di impulsi disordinati. Gli impulsi di Bertie erano tremendi; lui era senz’altro spronato da un formidabile e tormentoso desiderio di persuadere gli altri della fondatezza delle sue opinioni, e lo animava un desiderio altrettanto possente di comunicare agli altri le sue emozioni.
Quasi tutti coloro che si credono inadeguati sono ansiosi di sentirsi assicurare che c’è in loro un minimo di valore umano. Ma questo non era vero per Bertie. sperava semplicemente di essere forse uno dei due o tre più grandi e più influenti intelletti del nostro secolo.

Bertie, nonostante un matrimonio fallito e altri dispiaceri, non sembrava avere mai «giornate nere», come accade alle altre persone. Anche quando stava parlando delle sue afflizioni, conservava il senso delle proporzioni, l’autocontrollo, il desiderio, qualora la situazione lo giustificasse, di essere arguto o di divertirsi nelle parentesi, per cui era sempre un compagno piacevole.

Sono poche le persone che si lasciano convertire da «qualsiasi» ragionamento, una volta raggiunta la maggiore età.

Nel 1948 Russell per poco non morì. Il 2 ottobre partì da Oslo con un idroplano, il tempo era tempestoso e, proprio mentre l’idrovolante sfiorava l’acqua, una raffica lo fece inclinare facendogli imbarcare acqua. A un giornalista, quando tutto finì, disse «Avevo sempre creduto che un idrovolante galleggiasse. Non mi ero reso conto del pericolo imminente, e mi preoccupai soprattutto di salvare la borsa di cuoio…».

Nel ’47 mentre si crucciava domandandosi quale influenza esercitasse sul mondo, Bertie tenne una trasmissione nella serie What I Believe. Mandò al suo amico Rupert l’ottantina di lettere che i radioascoltatori gli inviarono, dicendo che avrebbero potuto interessarlo, davano «un ‘idea dell’opinione media in questo momento in Inghilterra», e aggiunse: «A farmi più piacere è stata quella in cui viene detto che l’ispiratore della mia conversazione è Satana».

Una sera qualcuno bussò alla porta, era un contadino disceso dalle colline, «Sono venuto, Lord Russell», disse, «a chiederle di spiegarmi la teoria della relatività con una frase».

L’amore di Bertie per la musica era sincero, ma non impellente. Non credo che lui avesse mai sentito una necessità attiva della musica, tranne quando si trovava in compagnia di qualche donna che ne era appassionata e che lui amava… o sperava di amare.

Bertie, leccandosi le labbra, leggeva il giornale, erano molti gli articoli che parlavano di lui, e quando una sera entrarono gli ospiti invitati per la serata disse: «Sono spiacentissimo; non posso dar retta a nessuno. Sto leggendo di me stesso».

La Metalogical Society era stata fondata da Freddie Ayer nel ’49, con lo scopo di far incontrare filosofi e scienziati e di discutere problemi che, a loro parere, si ripercuotessero, o fossero pertinenti, o anche che trovassero soluzioni, nei rispettivi campi di attività. Riunioni una volta al mese per quattro anni. I filosofi erano indifferenti ai problemi degli scienziati, gli scienziati dal canto loro tendevano a non riconoscere come propri gli scopi e i metodi che i filosofi gli attribuivano. Russell dal canto suo animava enormemente le discussioni, interpretava male, quasi deliberatamente, il loro lavoro per poterlo ignorare.

Bertie è, con ogni probabilità, il solo ateo vivente che sappia così bene di che cosa parla [la Bibbia, n.d.r].

«Dovrei divertirmi, ma mi preoccupo per la Corea. Sono appena tornato da una cena con il ministro degli esteri australiano, Spender, il quale non crede che le complicazioni in Corea porteranno a una guerra mondiale», Russell scrive così ai suoi amici, Rupert ed Elizabeth, e continua «Penso che probabilmente ha ragione, ma non ne sono tanto sicuro. Credo che i cinesi possano intervenire, e in tal caso interverranno tutti. Mi spiace di essere così lontano dall’Inghilterra in momenti come questi». [Sydney, 1950]

«La gente qui mi tratta bene ma sto avendo una diatriba con i cattolici perché ho detto che gli asiatici dovrebbero adottare il controllo delle nascite. I cattolici dicono invece che sperano di insegnare a vivere nella castità del matrimonio!». [Melbourne, 1950]

«Carissima Elizabeth, ti accludo due fotografie che richiedono qualche chiarimento. Un quotidiano, qui, ha scritto che sembravo un “koala sofisticato”. Non ho mai sentito parlare di koala…».

«Carissima Elizabeth, quanto ti accludo potrà divertire te e Rupert… Mannix è l’Arcivescovo di Melbourne. Gli ho telegrafato pretendendo delle scuse. Spero in un litigio con i fiocchi». Oggetto del futuro, agognato, litigio questa frase: «Gli Stati Uniti hanno rifiutato il visto a Lord Russell, e mi dispiace che lui sia stato trattato diversamente in Australia» [Perth. W.A., 1950]

«Sul momento quasi tutto sembra noioso. Ma il denaro era piacevole… È bello essere trattato come un albero di Natale!». [Richmond, Surrey, 1950]

«Cari Rupert ed Elizabeth, […] Ho terminato un libro del quale le mie conversazioni alla radio sono un estratto. Ho detto all’America quello che penso di MacArthur, e all’“Evening Standard” quello che penso del sesso in America, e a John quello che penso del sesso in Queen’s Road, 41. Tutto ciò, insieme a molte radiotrasmissioni, ha tenuto disoccupato Satana. Per il resto del tempo mi sono goduto la vita». [Richmond, 1951]

«Carissima Elizabeth […] mi piace la tua ricetta di unire gli opposti. Ricordi come spiega Tennyson in qual modo Lancillotto non si staccasse mai da Ginevra?
Il suo onore era radicato nel disonore,
e una fede infida lo teneva falsamente fedele.
Molto profondo. Sto mandando a Rupert la disamina scritta da un fisico della questione: “Ha un significato l’interrogativo ‘esiste realmente il neutrino’?». [Richmond, 1952]

Russell diventò sordo poco a poco. Nel corso delle discussioni questo significò porre limiti a ciò che poteva essere detto rapidamente, ragionare sui punti controversi. Esiste sempre un processo sottile, nella discussione, grazie al quale la misura del disaccordo viene mitigata verbalmente dalle proteste di amicizia. Se questo ammorbidimento deve essere efficace, è «necessario» che le parole grazie al quale lo si ottiene vengano udite con chiarezza la prima volta che le si pronuncia.

Vi furono addirittura giorni in cui la sua sordità era imbarazzante, ci si trovava faccia a faccia e nulla c’era nulla da dire che potesse essere udito. Un giorno disse: «Be’, oggi è una di quelle giornate in cui devo limitarmi a un monologo».

«[…] È molto difficile rassegnarsi all’idea che la propria opera più importante, e le proprie conclusioni ultime, possano essere superate».

Come un avvocato è attratto da una sentenza sorprendente e anche paradossale (un «interessante» problema giuridico), così Russell era attratto da sfere di ricerca che gli offrissero buone probabilità di dimostrare come la verità fosse sorprendentemente diversa da quanto tutti avevano dato per dimostrato. Lui ha espresso chiaramente questa sua ambizione da élite. Nella Filosofia dell’atomismo logico, scrisse: «Io desidero e mi auguro che ciò cui mi accingo appaia così ovvio da indurre il lettore a domandarsi perché impieghi il mio tempo dicendolo. Questo è proprio ciò cui miro, perché il compito della filosofia è quello di cominciare con qualcosa di così semplice da far pensare che non valga la pena di esporlo, e di finire con qualcosa di tanto paradossale che nessuno riuscirà mai a credervi».

Russell dimostrò che il principio della verifica, ovvero una proposizione è priva di significato a meno che non sia verificabile, può essere ridotto all’assurdità. E, siccome la preposizione non può essere verificata, nel senso di dimostrare la verità mediante l’osservazione diretta, lui sostenne che il positivista logico avrebbe dovuto negare alla preposizione stessa qualsiasi significato. E a volte si avvalse dello stesso ragionamento per sostenere che, secondo il positivismo logico, tutte le asserzioni su quanto accadrà in un remoto futuro, quando non esisteranno più esseri umani, sono anch’esse prive di significato.

Sebbene Russell avesse voluto inizialmente dimostrare che la matematica era, in ultima analisi, un’elaborazione della logica formale, in ultimo riconobbe che quanto aveva fatto era consistito nel dimostrare che la logica formale era priva di importanza se non in quanto inclusa nella matematica.

Quesito: «Quali persone non sono i discendenti di coloro che non sono i miei antenati?». [Augustus de Morgan]

Russell, chiarisce nell’Autobiografia, aveva cominciato da bambino con un desiderio appassionato di trovare una certezza oggettiva (e logica) nella nostra conoscenza del mondo empirico, ma a poco a poco era stato costretto a rendersi conto che questa certezza era inconseguibile. Essendo stato così deluso, volle accertarsi che nessun altro venisse turlupinato dalle idee tradizionali, come era accaduto a lui, presumendo che la conoscenza fosse sicura mentre non lo era affatto.

«Sappiamo certamente», scrive Russell in Significato e verità, «sebbene sia difficile dire come lo sappiamo, che due colori diversi non possono coesistere nello stesso punto in un campo visivo». E mentre passeggiava disse «Vedo una volpe laggiù e in un certo punto della pelle della volpe vedo un colore rossiccio. Ecco, io so che in quel punto non vedo del verde… e invero che “non posso” vedere del verde. Eppure non so come lo so».

Sebbene Russell sostenesse molti punti di vista contrari all’establishment, ciò, nel suo caso, era dovuto, molto più del consueto in un riformatore, alla chiarezza del suo pensiero; di solito si ribellava di più perché si rendeva conto che lo status quo era indifendibile che semplicemente perché si sentisse un ribelle. Non era, di conseguenza, il tipo dei riformatori (come D. H. Lawrence e qualche educatore) che hanno ragione per i motivi sbagliati: perché lo status quo è così orribile che qualunque cosa diversa non potrebbe essere che un miglioramento. Questo significa che Russell era in grado di essere anti-establishment e anti-élite pur restando, nello stesso tempo, un componente dell’élite fino al proprio midollo intellettuale (ed emotivo).

All’asserzione «Il sole sorgerà domani» Russell, sicuro di sé e più che mai autorevole, rispose «Ma non avete assolutamente alcuna valida ragione per pensare che quanto è accaduto in passato debba continuare ad accadere in futuro».

Come animali sociali siamo nati con il potente impulso a collaborare. Di solito accade che l’ascoltatore coglie, in modo più o meno preciso, il significato di quello che chi parla dice basandosi su vari indizi, comprese le deduzioni che trae implicitamente dalle definizioni date per dimostrate. Questo processo di scelta degli indizi riveste un’importanza essenziale ai fini della comunicazione. Mettiamo alla prova, più o meno inconsciamente, i vari possibili significati delle parole in causa, respingendo quelle che non si «adattano», e individuando infine i significati che corrispondono… che rendono sensate le affermazioni dell’interlocutore. Poiché siamo in vena di cooperazione, logicamente adottiamo tali significati come quelli corretti nel contesto. Non solo, ma se abbiamo anche una minima tendenza a credere nei significati appropriati, ci sorprendiamo tentati a pensare questi significati non soltanto appropriati a quel determinato contesto, ma anche i soli corretti in senso assoluto.

Quando fu chiesto a Russell come interpretare la seguente frase: «Tutti i corvi di qualsiasi specie sono neri», la risposta fu tagliente: «Significa», disse, «esattamente quello che dice. “Tutti i corvi sono neri” significa “tutti-i-corvi-sono-neri”»

Russell parla così della sua tesi «Mentre è vero che la scienza non può decidere questioni di valore, ciò accade perché intellettualmente esse non possono essere decise affatto, e rimangono al di fuori della sfera della verità e della falsità. Qualsiasi conoscenza sia conseguibile, può essere conseguita dal metodo scientifico; e ciò che la scienza non può scoprire, il genere umano non può sapere».
Russell fu operato nel 1954 e dovettero somministrargli l’M&B, un farmaco sperimentale che tendeva a deprimere. Confidò ai suoi amici che fu curioso provare una sensazione di tetraggine e infelicità, pur sapendo benissimo che non fosse giustificata da alcun motivo. Ciò gli consentì di capire più che mai quanto fosse facile credere alle cose soltanto perché le si sente intensamente.

«Carissima Elizabeth, […] c’è stato il mio compleanno, che ha tenuto occupatissima Edith, in quanto abbiamo offerto un rinfresco […]. Ci ha onorati un intruso che ha detto di essere amico di Freddie Ayer, ma Freddie non lo aveva mai visto. […] Non scoprimmo che non era amico di Freddie finché non se ne fu andato. Allora contammo i cucchiaini, ma siccome non ne mancava nessuno la ragione della sua presenza è rimasta misteriosa». [Richmmond, 1954]

«Tu e John Stracey… appartenete al circolo degli assassini», disse Bertie battendo il bugno sul bracciolo della poltrona circa la questione della bomba H. «Il circolo degli assassini», aggiunse «Garantiscono la loro salvezza, costruendo rifugi privati contro le bome atomiche…» non si curano di quanto accade alle masse, sentono che riusciranno a sopravvivere nei privilegi e grazie ai privilegi. Il problema era troppo importante avere opinioni neutrali.

«La prossima volta che vedrai il tuo amico John Strachey», disse Bertrand rivolgendosi a Rupert, «digli che non riesco a capire perché voglia far avere la bomba H a Nasser». Poi i due si avvicinarono alla libreria, e Bertie porse un suo articolo all’amico, L’importanza esercitata su di me da Voltaire. Un paragrafo terminava con «In effetti nessuna opinione dovrebbe essere sostenuta con fervore. Nessuno sostiene con fervore che sette per otto fa cinquantasei, perché può essere dimostrato che è così. Il fervore è necessario soltanto quando si loda un’opinione che è dubbia o dimostrabilmente falsa».

La tendenza a considerare malvagi gli altri, in Bertie, si acuì con gli anni e l’aforisma «La condanna dei giovani è una parte necessaria dell’igiene degli anziani e aiuta di molto la loro circolazione del sangue», gli calzava a pennello, per di più non esisteva alcuna necessità di limitare le condanne ai giovani.

Bertie ed Edith andarono in carcere nel 1961. Dal carcere scrissero questa lettera: «Kennedy e Chruščëv, Adenauer e de Gaulle, Macmillan e Gaitskell, stanno perseguendo uno scopo comune: porre termine alla vita umana. […] Per far piacere a questi uomini, tutti gli affetti privati, tutte le pubbliche speranze […] e tutto ciò che potrà essere conseguito d’ora in avanti, deve essere cancellato per sempre». Utilizzò un linguaggio emotivo per «far sì che gli altri condividessero la sua furia».

Bertie: «Non scrivo libri a destra e a sinistra; li scrivo soltanto a sinistra».

Samuel Butler: «Una cosa è buona se dapprima arreca dolore e poi piacere; e viceversa».

L’unico grande vantaggio di Kant consisteva nel fatto che lui non dovette impiegare anni della propria vita per padroneggiare anzitutto le opere di Kant.

Quelli del film (la troupe che gira La locanda della sesta felicità) offrono un ricevimento a Portmeirion… Bella fotografia di Bertie e Ingrid Bergman che stanno conversando.

«Dobbiamo consentire ai nostri avversari di pensare, se possono», disse Bertie.

È stato affascinante sentir parlare Bertie del caso Dreyfus come di qualcosa che ancora ricordava. Bertie ci ha detto, tra l’altro, che il nome Disraeli si pronunciava «Dizriiili».

L’ordinata disposizione delle informazioni nel cervello di Bertie era fenomenale. Funzionava come un meccanismo per il recupero di dati fantasticamente efficiente, conservava con precisione le informazioni e le ordinava così bene da far sì che le cose pertinenti fossero sempre fulmineamente disponibili. Ciò era valido per la memoria a lungo termine. «Non riesco a ricordare», Bertie spesso la pronunciava negli ultimi anni. Era consapevole della massa di informazione che il suo cervello era stato in grado di accumulare un tempo e ciò che questo poteva fare adesso. Arrivò a dire «È assolutamente orribile essere così stupido».

«È una delle mie prove dell’irrazionalità dell’uomo», disse Bertie, «che noi tutti siamo estremamente inclini a vantarci anche quando sappiamo di essere giudicati male per questo».

Rupert decise di sottoporre Russell a uno dei suoi test, la dimostrazione euclidea sugli angoli alla base di un triangolo isoscele. Dimostrazione escogitata da un calcolatore. La prima reazione di Russell fu ritenere non valida la dimostrazione. Una volta ripetuta la dimostrazione Bertie riconobbe la validità della dimostrazione aggiungendo: «Be’, certo! Naturalmente un calcolatore deve cavarsela meglio di un matematico. I matematici sono soltanto degli stupidi; l’ho sempre pensato».

Bertie, saputo che un uomo politico conservatore in passato fu costretto a interrompere gli studi a causa di un episodio omosessuale disse: «È spaventosamente fastidioso quando i nostri nemici di macchiano di colpe che noi non disapproviamo».

Russell con il passare degli anni si mostrò sempre più estremista nelle sue idee. Dopo i novant’anni, l’elastico dal quale veniva tirato indietro dalle posizioni estremiste cominciò a logorarsi. Lo sforzo mentale necessario per esaminare attentamente la propria posizione, per essere del tutto razionale, era, troppo spossante. Risultato: una volta raggiunto un estremo ci rimaneva.

«Sono disposto a credere a qualsiasi cosa contro la polizia, con le prove o senza!», disse Bertie.

A un certo punto, durante i suoi novant’anni, Bertie ricevette da un suo ammiratore in Cina una magnifica vestaglia in seta rossa, lunga fino ai piedi. Da allora in poi, ad ogni Natale, indossò questa vestaglia, con un orologio d’oro che pendeva sul davanti, come decorazione. Aveva un aspetto splendido.

«Egregio signore…». Inizia così una lettera che Bertie ricevette da un suo ammiratore. Come è interessante il fatto che quello che in Italia è un complimento qui sia un insulto.

Secondo Bertie la pornografia dovrebbe essere liberamente disponibile. La sua prima esperienza al riguardo l’aveva fatta a Parigi. Aveva ventun anni e un cameriere gli aveva mostrato delle foto oscene, ne rimase scandalizzato ma incuriosito esaminò tutta la serie.

Una mattina il suo amico Rupert aveva battuto la fronte contro l’orlo del finestrino dell’automobile, lasciando che uno stretto e lungo taglio di un centimetro gli dominasse la fronte. All’appuntamento con Bertie quest’ultimo non poté che dire: «Non riesco proprio a concentrarmi su quello che stai dicendo. Sono interdetto; mi sto domandando perché tu ti sia rasato la fronte, stamane».

Fu Michael Burn a scrivere un commovente necrologio sul Times in memoria di Russell per ricordare i piaceri, la cordialità, l’allegria e gli stimoli della sua compagnia.