Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 15/2/2015, 15 febbraio 2015
IL QE SCATENA L’EFFETTO CONTAGIO TRA LE BANCHE CENTRALI
C’è un rischio contagio in Europa, anzi più che un rischio sembra quasi una certezza. Non è però quello connesso alla crisi greca, almeno non per il momento, si tratta invece dell’effetto a catena che la Banca centrale europea (Bce) ha già causato e continuerà a scatenare con il suo quantitative easing nei Paesi che le stanno attorno.
Per la verità il piano di acquisti di titoli dell’Eurotower non è ancora iniziato, ma il solo annuncio ha già prodotto un fenomeno a cascata sulle banche centrali vicine.
A pensarci bene l’effetto domino è addirittura scattato in anticipo, quando il 15 gennaio scorso la Banca nazionale svizzera ha deciso di abbandonare l’aggancio con l’euro, provocando così un mezzo terremoto con l’immediato apprezzamento del franco. Si è trattato di una mossa a sorpresa, che tutti hanno più o meno legato alle crescenti difficoltà di mantenere il livello di 1,20 difeso strenuamente e con gran dispendio di energie per più di tre anni: è proprio in quel momento che anche i più scettici si sono convinti che di lì a una settimana Mario Draghi avrebbe premuto l’acceleratore e deciso finalmente di stampare moneta.
Lungimiranti i banchieri svizzeri, così come sono stati piuttosto rapidi anche altri loro colleghi: la Riksbank, la Banca centrale svedese, è infatti l’ultima in ordine di tempo ad aver abbassato questa settimana i tassi di interesse (portandoli addirittura in territorio negativo a -0,1%) e ad avviare il «qe». Prima di Stoccolma ci aveva pensato Copenaghen a dare una sforbiciata (anzi ben tre nel giro di poche settimane) ai tassi sui depositi danesi, che adesso sono ridotti addirittura a -0,75% nel tentativo anche in questo caso di difendere il cambio della corona con l’euro in picchiata. La Norvegia si era invece mossa già a dicembre.
Fuori dall’Europa hanno già allentato la politica monetaria nel 2015 quasi 20 banche centrali, incluse quelle di Canada, Australia, Singapore e perfino la Cina, che per la prima volta negli ultimi due anni ha ridotto l’ammontare delle riserve bancarie per scongiurare il rallentamento dell’economia e allontanare lo spettro della deflazione.
È ovvio che non tutte avranno necessariamente agito di riflesso alla Bce, ma è altrettanto evidente che la mossa di Francoforte ha rappresentato una sorta di svolta, quantomeno per chi gravita attorno all’Eurozona dove il suo peso si fa sentire. Romania e Albania sono infatti dovute correre ai ripari tagliando i tassi, la prima vorrebbe adottare l’euro entro il 2020, l’altra si candida per l’ingresso nell’Unione europea: non saranno sicuramente le ultime a muoversi perché c’è già chi punta il dito su Repubblica Ceca e su Polonia, che devono proteggersi contro un eccessivo apprezzamento del cambio che lascerebbe senza respiro le aziende del Paese. Perché in fondo è proprio la svalutazione dell’euro (che paradossalmente non è l’obiettivo ufficiale della Bce) il fattore che spinge gli altri a reagire: per mesi, se non anni, si è detto che l’Eurozona era la vera vittima nella «guerra delle valute», oggi il tema appare rovesciato e sono gli altri a doversi difendere.
Alcuni analisti pensano che anche la Banca d’Inghilterra, la cui retorica si è fatta proprio questa settimana decisamente più prudente, possa essere affetta dal «contagio» e rimandare quindi l’atteso aumento dei tassi, ma non tutti sono d’accordo. «La Gran Bretagna è meno vulnerabile a un apprezzamento del cambio della sterlina e le decisioni di Londra sono più legate al prezzo del petrolio e a come si muove piuttosto la Federal Reserve: se questa alzerà il costo del denaro la BoE non potrà tirarsi indietro», sostiene Antonio Cesarano di Mps capital Services. Washington conta pur sempre di più, ma qualcuno a Francoforte ha finalmente tirato fuori gli artigli.
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Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 15/2/2015