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 2015  febbraio 15 Domenica calendario

SANREMO, IO NON C’ERO

Mettiamo che siate tra i pochissimi a non avere visto Sanremo. Forse perché non vi piace e forse perché avevate di meglio da fare (di peggio è difficile). Stasera, però, vi toccherà probabilmente una cena in cui prima o poi l’argomento salterà fuori. A quel punto dovrete essere pronti. Serve un bignami. Tipo questo.
Il Gran Maestro Normalizzato-re. Il grande vincitore è stato Carlo Conti (voto 8). Sin dai tempi di Aria fresca, in mezzo ai Panariello e Ceccherini, era l’unico che l’urticanza non la inseguiva mai. Un po’ Baudo e un po’ Bongiorno, Conti è il presentatore perfetto per sancire il ritorno della Dc. Il cavalcatore garbato dell’anacronismo. C’è Mattarella al Quirinale, c’è la Carrà in tivù, c’è Renzi al Governo. Ci sono Al Bano e Romina all’Ariston, magari tornerà pure il ministero del Mezzogiorno. Più che il 2015, pare il 1965. Conti è il Gran Maestro Normalizzatore, il cerimoniere della tradizione che parla alle famiglie. Tivù evanescente e inconsistente, dunque restauratrice e rassicurante. Ha trasformato Sanremo in un Tale e Quale Show, ha goduto di una inesistente controprogrammazione (a parte La7), ha sfruttato il patto Raiset. Mai sorprendente, Conti sarebbe stato perfetto per la tivù di cinquant’anni fa. Cioè questa.
Femminilità, questa sconosciuta. Così come gli adepti del sadomaso hanno rivalutato la castità dopo aver visto 50 sfumature di grigio, così milioni di feticisti si sono iscritti al “Fan Club Infradito” dopo aver visto Emma Marrone (3) sui tacchi. Più la vestivano con classe, più sembrava uscita dalla Sagra della Caciotta. Non si vivevano simili parossismi di classe dai tempi di Floriana del Grande Fratello. (Arisa 5. Meglio, molto meglio quando canta).
Canzoni. Teoricamente la cosa più importante, ma essendo Sanremo in realtà non fregavano nulla a nessuno: per fortuna, perché il livello era raggelante. Tra i pochi a salvarsi Nek (7), che continua ad avere un’apertura mentale degna di Mario Adinolfi ma che ha stupito in positivo (anche nella cover). E poi Irene Grandi (6.5). Malika (5) fa lo stesso pezzo da cinque anni, ma vince il premio della critica, Nina Zilli (4.5) gioca sempre alla Amy Winehouse analcolica. Moreno (1-) ha la piacevolezza di Brunetta e il talento di Blissett. Biggio e Mandelli (5-) hanno giocato ai Cochi e Renato 2.0 e sono stati bravissimi a farli rimpiangere. Inquietante Il volo (0), trio di droidi giovanili programmati per ricordare Claudio Villa. Bianca Atzei (4) vince il premio “Chi cazz’è?”. Masini (6) ha paraculeggiato nel testo, ma ha scritto e cantato di peggio. Il brano (1) di Chiara (6) ricordava “Forse sì forse no” di Pupo, a conferma che questo Sanremo era moderno come un editoriale di Scalfari. Altri voti alla rinfusa. Fragola 4.5, Grignani 5+. Menzione di merito per Lara Fabian: il brano era bruttino (5), ma il titolo era sublime: “Sto male”. Anche noi.
Ospiti. Charlize Theron (9) ha una bellezza che acceca, ma “l’intervista” di Conti aveva il cipiglio dei bradipi morti. Dopo avere riascoltato gli Spandau Ballet, tutti sono diventati fans dei Duran Duran. Massimo Ferrero (6) è sempre fuorigiri, ma se non altro ha un po’ scalfito la monoespressività del conduttore. Antonio Conte (3.5) ha citato “Uomini soli” e cantato “Si può fare di più”, dimostrando di essere più simpatico che intonato.
Giovani. Finora Caccamo (3+) era un personaggio di Teocoli (8) a Mai dire gol (9). Da questa settimana è la prova ulteriore che, se il futuro della canzone italiana fossero davvero i “giovani” a Sanremo, tanto varrebbe invadersi da soli. Per fortuna, nella cosiddetta scena alternativa, esiste altro. Tutta gente che, ovviamente, Conti ha reputato troppo poco irregimentata per poter suonare all’Ariston.
Ho perso le parole. L’autore più gettonato di questa edizione è stato Kekko (2) dei Modà (1), che è un po’ come se il centrodestra si affidasse a Giovanardi per uscire dalla crisi. Siamo tornati ai bei tempi del “cuore/amore/cielo/stelle”, con il “vento” come picco di creatività. Decenni di cantautorato, spesso ostinato e contrario, buttati nel cesso. Se Luigi Tenco ha visto da qualche parte Sanremo, non ha trovato motivo di cambiare opinione rispetto al ’67.
L’apologo degli Anania. Allegra famigliola con l’unico merito (?) di avere avuto 16 figli. Famiglia Cristiana l’ha difesa dagli attacchi del web. Il padre, nei suoi interventi imprescindibili, ha regalato pensieri così teo-con che in confronto Magdi Allam è Giordano Bruno. Uno dei momenti televisivi più imbarazzanti degli ultimi decenni, e sì che la concorrenza era davvero agguerrita.
Non ci resta che piangere. Siani (0.5) deve ringraziare il martirio indicibile di Pintus (0) e le polemiche inutili per la battuta(ccia) sul bambino sovrappeso: hanno fatto quasi passare in secondo piano la pochezza siderale del suo monologo. Il grado zero della comicità. Ed essendo il grado zero, Cirilli (1+) ci stava benissimo.
Qualcosa da salvare. Tutto da battere, dunque? No. I vincitori qualitativi sono stati Rocco Tanica (8), Luca e Paolo (7-) e Virginia Raffaele (7.5). Quest’ultima, imitando la Vanoni, ha chiesto: “È Sanremo o Cocoon?”. Gioco, partita e incontro.
Rincoglioniamoci. È stato il Sanremo della retorica dell’italianità più rassicurante e qualunquista, con tanto di spazio per il “diverso” (Conchita Wurst). Una grande, enorme, immensa melassa. Grazie a Conti, tanti italiani si sono riscoperti maggioranza silenziosa. Coccolati da mamma Rai, si sono potuti addormentare tranquilli sul divano. Magari in posizione fetale. Concedendo al cervello il meritato riposo.
Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 15/2/2015