Alberto Mattioli, La Stampa 15/2/2015, 15 febbraio 2015
CATERINA CASELLI SEMPRE PRIMA “DA ARTIGIANA, CERCO SINCERITÀ”
[Intervista] –
Non ne sbaglia una, anzi uno. «Ma no. Come diceva mio suocero, grande discografico: sbagliamo tutti, vince chi sbaglia di meno». Diciamo allora che Caterina Caselli le sue scelte le azzecca quasi tutte.
Per il grande pubblico, è ancora e sempre Casco d’oro; per gli addetti ai lavori, è madama Sugar, nostra signora dei successi, la pigmaliona che ha scoperto Bocelli, Elisa, Gualazzi, i Negramaro, Malika Ayane (premio della critica quest’anno con Adesso e qui) e chi più ne ha più ne venda. Adesso tocca a Giovanni Caccamo, trionfatore nella gara dei giovani e vincitore morale dell’intero Festival, l’unica rivelazione di questo Sanremone ricco di ascolti e povero di personalità.
Signora Caselli, Caccamo è solo bello o è anche bravo?
«Caccamo è bravo e poi anche bello, il che non guasta. Ma soprattutto è una persona sincera».
Con la sincerità non si vendono i dischi.
«Si sbaglia. In questo momento l’Italia ha bisogno di persone profonde, che abbiano dei valori e che sappiano esprimerli».
Ma perché quelli che piacciono a lei poi piacciono a tutti?
«Forse perché noi lavoriamo ancora in maniera artigianale. E sulla lunga durata».
Che vuol dire?
«Che per crescere davvero gli artisti hanno bisogno soprattutto di una cosa: il tempo. Non voglio che i miei ragazzi abbiano un successo. Voglio che abbiano una carriera».
Perché non pesca nei talent?
«Perché io cerco soprattutto l’unicità. Per avere successo nei talent devi fare ascoltare al pubblico quello che il pubblico, più o meno, conosce già. Io invece cerco artisti che facciano venire voglia alla gente di mettersi in gioco e scoprire qualcosa di nuovo».
Com’è questo Sanremo?
«Conti ha un merito: ha messo i giovani all’inizio invece che parcheggiarli a mezzanotte».
Resta il fatto che da Ventimiglia in poi Sanremo non se lo fila nessuno. Perché?
«Per due ragioni. Prima, perché il suo valore è la sua storia. Ed è troppo italiana per essere esportata».
E l’altra?
«Perché è diventato soprattutto uno show televisivo. Quando ci arrivai io, invece, contavano le canzoni, e basta. Nel 1966 mi presentai con un brano scritto da Adriano Celentano che poi lui decise di scartare perché nel frattempo ne aveva scritto uno migliore».
E quali erano?
«Il mio, Nessuno mi può giudicare. Il suo, Il ragazzo della via Gluck. Scusi se è poco».
In questo Sanremo serpeggia una certa nostalgia per l’opera. Vedi Il Volo o il chitarrista-tenore Federico Paciotti di cui è colpevole lei.
«Credo che il melodramma sia il nostro grande successo internazionale. E che abbia bisogno di trovare nuovo pubblico. Non mi sembra sbagliato evocarlo. È la nostra storia, siamo noi. Poi sono generi diversi che devono restare diversi».
Non ha nostalgia del canto?
«No. Anche perché ho sempre amato scoprire talenti. Ricordo che nel 1978 conducevo una trasmissione con Gaber, Diamoci del tu. E gli dissi: conosco un tale straordinario, ospitiamolo. Si chiamava Francesco Guccini e nessuno lo voleva perché aveva la erre moscia. Gaber rispose trovando Franco Battiato».
Qual è la voce più impressionante che abbia mai sentito?
«Me ne conceda almeno due: Ray Charles e Frank Sinatra».
E il musicista?
«Raphael Gualazzi, e non perché lavora con me».
Per i suoi ragazzi è più una mamma o una professoressa?
«So cosa si prova a salire su un palco. Quindi cerco di fare per loro quel che avrei voluto che gli altri avessero fatto per me».
Alberto Mattioli, La Stampa 15/2/2015