Francesca Paci, La Stampa 15/2/2015, 15 febbraio 2015
L’ISIS AVANZA VERSO TRIPOLI MINACCE A GENTILONI, “IL CROCIATO”
Se i raid alleati hanno un po’ rallentato l’avanzata dello Stato Islamico in Siria, la Libia si sta sgretolando sotto la pressione dei luogotenenti diretti o indiretti di Al Baghdadi che ieri hanno preso il controllo di gran parte di Sirte, località strategica sulla via per Tripoli nonché patria dell’ex dittatore Gheddafi. L’offensiva a ovest lanciata dalla Cirenaica, dove da mesi legifera il Califfato di Derna, pare inarrestabile: dopo aver occupato la tv e la radio di Sirte sostituendo la musica con il Corano, gli jihadisti si sono installati negli edifici governativi, hanno bloccato la polizia e sono scesi in strada a annunciare la prossima tappa, Misurata, la terza città del Paese distante appena 250 km. Gli uomini neri che servendosi dell’iconografia dei tagliagola di Raqqa hanno offerto all’Is l’esecuzione di 21 copti egiziani, sono da settimane in azione anche al confine tunisino.
La comunità internazionale è in fibrillazione. L’ipotesi dell’intervento studiata da mesi al Cairo (e ad Algeri) si va materializzando alla luce dell’incapacità reattiva della Libia spaccata tra il governo filo Fratelli Musulmani di Tripoli e quello in esilio di Tobruk. Sullo sfondo le nubi di una grave crisi alimentare con le riserve di grano sufficienti per altri 3 tre mesi e l’export di petrolio calato a 200 mila barili al giorno, un quinto del 2013 (ieri tra l’altro è stato attaccato l’oleodotto di al-Sarir, nel sud, e si è interrotto il flusso di greggio verso Tobruk).
Affiliazioni in massa
«L’Italia è in prima linea nella lotta al terrorismo, una battaglia che va fatta anche in Libia dove, in una cornice Onu, non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità» ribadisce il ministro degli esteri Paolo Gentiloni, dopo che la radio dello Stato Islamico al Bayan l’ha messo nel mirino definendolo «ministro dell’Italia crociata» per le sue dichiarazioni in favore di un’azione internazionale in Libia. Il problema è che l’intervento, per quanto percepito globalmente come necessario è un’incognita incandescente.
Dalla fine di Gheddafi il Paese sconta l’eredità del Colonnello annaspando tra le spinte contrastanti delle milizie che rifiutano il disarmo, le potenti tribù locali, i partiti islamici (raccolti intorno ai Fratelli Musulmani locali) e le forze più liberal (oggi schierate con il generale Haftar). Nel caos anarchico si sono fatti facilmente spazio gruppi fondamentalisti come Ansar al Sharia, nato sulla scia della rivoluzione del 2011, responsabile dell’assalto al consolato Usa di Bengasi nel 2012 e di quello del 27 gennaio scorso all’hotel Corinthia di Tripoli e oggi affiliato allo Stato Islamico.
«Armate il nostro esercito»
«Nel 2011 applaudimmo l’intervento Nato perché sentivamo che Gheddafi avrebbe disintegrato il Paese ma oggi nessuno vuole i raid sul modello siriano, vorremmo piuttosto che l’occidente armasse il nostro esercito per metterlo in condizione di combattere i terroristi» dice da Bengasi l’architetto e blogger Mutaz Gedalla. La Libia brucia ma il fuoco non si spegne nel Mediterraneo. Anzi.
Francesca Paci, La Stampa 15/2/2015