Sergio Soave, La Stampa 15/2/2015, 15 febbraio 2015
CON LA FABBRICA STRAPPÒ LE SUE LANGHE ALLA MISERIA
Non si parla d’altro, in queste ore, ad Alba e nella Langa, da Santo Stefano a Cortemilia e fino alle soglie dei Roeri e del monregalese, passando per quella miriade di paesi citati nei romanzi di Pavese e Fenoglio e letti sulle etichette di vini prestigiosi, fatti da una generazione di uomini che ha portato quelle terre all’onore del mondo.
Ma il più grande di quella generazione, il capitano, quello che aveva dato il «là» e suonato la carica era lui, Michele Ferrero.
Non sono frasi di circostanza. Basta fare due conti.
Basta pensare a che cosa era l’albese, settant’anni fa, quando Fenoglio lo raccontava nei suoi romanzi. Miseria diffusa, una fatica disumana per trarre da quelle colline impervie il minimo necessario per vivere o sopravvivere, coi figli aggiustati qua e là, da garzoni, e le donne sfiancate sotto il peso della vita. E non erano frutto della fantasia le storie di chi si impiccava alla trave del fienile o dava fuoco alla casa o si gettava nel pozzo, per farla finita, mentre i più scappavano in Sudamerica a cercare la fortuna.
E, se si vuole una prova più scientifica, si vadano a controllare gli indici di spopolamento. Da Diano a Barbaresco, da Treiso a Monticello, da Benevello a Castagnito a Grinzane a Guarene a Neive a Mango e Canale e tutt’intorno, era un falcidie. Paesi che si dissanguavano, che non ce la facevano più, perchè per ognuno che partiva si abbandonava un po’ di vigneto e il gerbido si rimangiava secoli di tradizione e di storia.
Poi era arrivato lui, Michele Ferrero. Per la verità, già i suoi si erano fatti conoscere, per via di quei camion della ditta che giravano le contrade e lasciavano alle drogherie dei paesi panetti marron striati di bianco: erano artigiani di genio che stavano facendo il salto verso l’industria con i piedi di piombo e tanti sogni.
Ma con Michele, la musica era cambiata. Il salto verso la grande industria si sarebbe fatto davvero e i sogni sarebbero andati oltre l’immaginabile.
E questa volta la fortuna della famiglia avrebbe contribuito, come un terremoto benefico, alla fortuna di tutto un territorio.
Certo la Nutella ci mise del suo. Michele aveva assaggiato mille varianti di quella crema e alla fine aveva scelto quella giusta.
La fabbrica aveva raddoppiato, poi triplicato e poi non bastava più. La chiedevano da tutte le parti, da tutto il mondo, la Nutella e si trascinava dietro gli altri prodotti, mon cherì, pocket coffe, tic tac e ferrero rochet, tutti frutti del genio di Michele che decideva personalmente che cosa produrre e che cosa scartare.
Michele governò l’improvvisa fortuna e fece fabbriche nei quattro continenti, ma un pensiero speciale lo ebbe sempre per il posto dove era nato. Conosceva le facce, le fatiche, i dolori della sua gente. Sapeva anche che, per un contadino che aveva fatto sempre il contadino, andare in fabbrica per bisogno era una resa.
E allora, senza fare teorie sul rapporto industria-territorio, senza impancarsi a costruttore di nuovi modelli sociali, semplicemente capì che bisognava andargli incontro e lasciarli stare dov’erano, nei loro paesi. Lui li avrebbe mandati a prendere ogni giorno con la corriera, all’orario dei turni e li avrebbe riportati a casa. Non venissero ad Alba a mangiarsi lo stipendio. Stessero là. Dopo le otto ore potevano fare un po’ di campagna e se la vite dava troppo lavoro, potevano piantare nocciole. A ritirarle ci avrebbe pensato lui per i suoi prodotti. Così ci avrebbero guadagnato in due. E se i figli facevano la comunione c’era il regalo e così per i battesimi, la cresima e le altre cose della vita per costruire la “grande famiglia”, frase che ripeteva con un candore quasi inconsapevole delle critiche corrosive che poteva attirarsi, ma che per lui valeva davvero
Tanto che alle sue maestranze avrebbe pensato anche per il tempo della pensione, inventando ed affidando poi alla signora Maria Franca i lineamenti di una “Fondazione” che è modello insuperato del rapporto tra azienda e lavoratori e, di nuovo, tra azienda e il territorio vasto della sua influenza.
Del territorio che gli deve tanto, della sua gente minuta, aveva del resto interiorizzato i caratteri. Lavoro, lavoro e ancora lavoro; attenzione al dettaglio, alla cosa ben fatta. Pochi discorsi, poche parole, il privato difeso strenuamente, una tenace religiosità interiore, fastidio istintivo per il rumore della notorietà. E quella gente minuta con cui ha vissuto in una sorta di distaccata, ma partecipe simbiosi, salterà giù dalle colline e invaderà Alba al funerale, come già accaduto per la tragica morte del figlio. Con quella muta, ma imponente presenza, riconoscerà una storia e renderà l’onore che merita al proprio grande capitano.
Quello a cui tutti devono qualcosa. Quello che a tutti ha cambiato, per quanto umanamente possibile, la vita.
Sergio Soave, La Stampa 15/2/2015