Gabriele Romagnoli, la Repubblica 15/2/2015, 15 febbraio 2015
L’ALTRA PARIGI SCOPERTA CON GLI OCCHI DELLO ZIO HECTOR
Je suis Hector. Molto prima di Charlie la libertà aveva altri nomi, ma lo stesso indirizzo: Parigi. Per me era Hector. All’anagrafe Ettore, modificato dalle circostanze. Si trattava di un prozio ingigantito dall’infantile mitologia per due motivi: sapeva ipnotizzare e se n’era andato a vivere a Parigi. Lo aveva fatto negli Anni Trenta, per sfuggire alla sorte che avrebbe ucciso o menomato i suoi fratelli tra lager austriaci e carceri italiane. In una neppure troppo arbitraria associazione avevo concluso: se vuoi essere libero, è là che devi andare.
La prima volta fu nell’infinita estate della maturità. Dissi che partivo per visitare la Francia. In realtà volevo conoscere Hector. In Italia, lui non tornava mai. Sosteneva: «Prima o poi vi consegnate a un altro Mussolini ». Era imparentato con un’astrologa, di nome Stella. Portava il cappello e camminava appoggiandosi a un bastone, ma senza fatica. Volle condurmi personalmente a vedere quel che della città gli sembrava rilevante. Non furono cattedrali, ma piccole chiese. Non cimiteri, ma lapidi nel terzo arrondissement. Da casa sua a lì era un viaggio. Stava a Fort d’Aubervilliers e all’epoca bisognava prendere un autobus fino a Port de la Villette, per arrivare al metrò. Raccontava delle persone che l’avevano accolto, della donna che lo aveva amato e che ancora viveva con lui in un appartamento di tre stanze inanellate una nell’altra. Del lavoro che aveva trovato: muratore. Non aveva alcuna esperienza nell’edilizia, ma aveva imparato in fretta. Diceva, vedendo sfilare i palazzi in costruzione: «Le case sono uguali dappertutto: un mattone, poi l’altro. Cambia la gente che le costruisce».
Credo volesse dirmi di non preoccuparmi mai del risultato, né del procedimento, ma soltanto delle motivazioni.
Scendevamo dall’Hotel de Ville lungo rue du Temple. Strada facendo, salutava fantasmi. Svoltavamo in rue de Bretagne. C’è un piccolo mercato, invisibile dietro un cancello di ferro: il Marché des enfants rouges. Chi sono questi bambini rossi? «Orfani». Il re Luigi XIII fece costruire il mercato nel 1615. Vicino sorgeva un orfanotrofio e chi lo dirigeva ebbe la bella pensata di far vestire i piccoli che vi venivano accolti con «il colore dell’amore». Pare di vederli ancora aggirarsi in gruppetti o in fila per due, individuabili a distanza, bersaglio della pietà dei grandi e dello scherno dei coetanei.
Hector se n’è andato da tempo. La metropolitana ora arriva fino quello che fu il suo quartiere. Lo abitano prevalentemente immigrati. Nel notarlo, perfino io mi dimentico che anche lui, italiano, lo era. La storia è un retrovisore in cui tutto perde familiarità, ogni tanto devi aggiustarne la posizione, guardare avanti, ragionare e confrontare. Il mercato dei bambini rossi è diventato molto più vivo di allora. Volevano chiuderlo, ma i residenti, in un sussulto di “combat”, hanno lottato per la sua sopravvivenza. Oltre ai banchi che vendono alimenti sono stati aperti punti ristoro per ogni genere di cucina: marocchina, giapponese, scandinava, nordamericana. Si mischiano parole e odori. In posti e momenti così Parigi ridiventa il centro del mondo. L’avevamo perduto, quel centro. Noi che siamo cresciuti scambiando Platinì con Guattarì, abbiamo dimenticato Parigi, o cara. Come tante bellezze si è addormentata sotto l’anestesia cominciata alla fine degli Anni Settanta. Mentre alla luce di un abbaino Jean-François Lyotard scriveva La condizione postmoderna , al sole della California Steve Jobs creava il marchio Apple. Non c’era più partita. L’idea di libertà collassava consegnandosi a un “dominio” all’interno della rete. Prima di Charlie la sua ultima evocazione pubblica a Parigi erano state i Velib, le biciclette libere, pubbliche, noleggiabili con carta di credito.
Mangiando al mercato mi capita di pensare ai “bambini rossi” come agli orfani di una stagione passata. Li vedo ancora aggirarsi indicati a distanza, sperduti in questa postmodernità che ha azzerato il conflitto. Uno dei più vitali tra loro, Franco “Bifo Berardi”, ha appena pubblicato in inglese un curioso libro dal titolo Heroes dove, alla domanda «Che fare quando niente più si può fare?», risponde: «Dedicarsi all’autonomia ironica: il contrario della partecipazione, della responsabilità, della fede. Non entrare in gioco, non aspettarsi soluzioni dalla politica, non affezionarsi alle cose, non sperare ». Fin qui, viene facile. Ma dentro questo cortile dove risuonano voci in ogni lingua aggiungerei la necessità di “fare mondo”: tenere qualche legame, ma nessuna radice; confondersi in tutto anziché identificarsi in qualcosa; reinventare la propria storia e, anche, la geografia; essere consapevoli che l’esperienza individuale e collettiva non sarà mai unica, eppur Parigi sarà sempre Parigi. Sintetizzando: essere Hector.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 15/2/2015