Antonio Gnoli, la Repubblica 15/2/2015, 15 febbraio 2015
GIANFRANCO BARUCHELLO “QUANDO WARHOL SPARLAVA DI TUTTI E DUCHAMP MI CHIESE: CHI È QUELLO?”
[Intervista] –
Non conoscevo Gianfranco Baruchello. La sua ironia. La gradevole disponibilità a parlare di tutto. L’eccitazione dei suoi occhi quando evoca il passato. Il naso, lievemente grifagno, che sembra fendere come una pinna inquietante il piccolo mare di ricordi. E sono ricordi circolari che volteggiano minacciosi e infantili. Penso sia lì l’origine del suo spazio mentale. Mi fa vedere — nella grande casa di campagna dove ha creato la sua Fondazione — un armadio colmo di giocattoli. Gli stessi verrebbe da dire che Walter Benjamin adorava. E poi le collezioni. Lo seguo come un cane seguirebbe il padrone. Mi indica le cineprese con cui ha lavorato per il cinema. I collage, gli assemblaggi, i montaggi. È un uomo della tecnica che non ha dimenticato la malleabilità delle favole. E il vizio dei sogni. «Ho sempre sognato. Dovrei impedirmi di sognare. Soprattutto di raccontarli. Un tempo mi svegliavo di soprassalto e cominciavo a trascrivere. Il mondo onirico era il paradiso. Un tempo mi piaceva. Ora i sogni sono come carta vetrata nella testa».
Cosa le provocano?
«Una sensazione di rumore e di smarrimento. La stessa, mi viene da pensare, della cacciata dell’eden».
Quando ha sentito la prima volta questa sensazione?
«Avevo quattro anni. I miei si separarono. Due metà che diedero vita a due mondi paralleli e incomunicabili. Mio padre era un uomo dell’ancien régime, legato ai poteri economici. Mia madre una donna semplice. Papà continuò a vivere nella sua villa sulla Cassia, con la cuoca e l’autista. La mamma andò ad abitare a San Lorenzo. Mi divisi, con mio fratello, tra queste due realtà. Tra lo sfrenato nazionalismo di lui e la precarietà di lei. Fu nel 1943 che decisi di andare in Russia».
Come militare?
«No, come civile. Raggiunsi a Odessa un parente che era console. Avevo sentito parlare della città raccontata magistralmente da Puskin e Babel e sul cui splendore si era posata, come un gioiello, la scena della carrozzella che scendeva dalla scalinata nella Corazzata Potemkin . Mi accorsi che il celebre leone, simbolo della ribellione delle masse, in realtà era un’invenzione di Eisenstein. Non si era mai alzato, non aveva mai ruggito. Non c’era. Ero andato per ripercorrere le tracce di una rivoluzione. Vidi solo paura, miseria e morte».
Quanto tempo vi è restato?
«Otto mesi. Odessa, un tempo crocevia di oriente e occidente, porto ricchissimo di traffici, era stata occupata e distrutta dai romeni. Fu lì che iniziai seriamente a disegnare e fotografare. Tornai in Italia. Con un aereo militare scesi a Venezia. Sentivo fortissimo l’odore degli oleandri. Portavo nella valigia le opere di Puskin e quelle di Lenin. Allora non sapevo che quei libri li avrei usati nella mia arte. Poi accadde qualcosa dopo l’8 settembre del 1943 di cui in seguito mi sarei vergognato per anni».
Cosa?
«Scelsi la parte sbagliata. Andai con i “repubblichini”. Divenni pilota d’assalto nell’Mtm, ossia nei mezzi marini di superficie. Non ricordo con piacere questo periodo. Le esercitazioni sul lago di Como. Con me c’era un giovane Marco Ferreri. Anche lui avrebbe fatto di tutto per cancellare quella parte della sua vita».
C’è la giustificazione della gioventù e dell’inesperienza.
«Lo so, lo so. Ma per quanti motivi potevo addurre, per le persone che sarebbero diventate importanti, come Dario Fo, mi restava un senso di orrore e di sgomento. La guerra noi la combattevamo non per liberare ma per tiranneggiare. Basta la giustificazione: non lo sapevamo? No, non può bastare. È questo che sono trascinato a lungo. Anche negli anni del dopoguerra. Poi venne la laurea in giurisprudenza. Mio padre che da fascista era stato epurato mi chiese una mano. Lo aiutai a mettere su un’azienda. A ricominciare».
E l’arte?
«Dipingevo, sperimentavo. Ma non ero soddisfatto. L’arte è un padrone esigente. Esige sacrificio. La mia astuzia di tenere i piedi in due staffe si stava trasformando in disperazione. Che cosa ero? Non lo capivo. Mi sembrava di essere finito in un vicolo cieco. Per fortuna, era la fine degli anni Cinquanta, incontrai la persona che avrebbe cambiato il mio destino: Marcel Duchamp».
Come fu possibile che un artista quasi irraggiungibile si interessasse a lei?
«È la misura dei grandi. Duchamp aveva lavorato per il surrealismo, era stato legato a Picabia e a Brancusi; la sua amicizia con Man Ray fu un esempio straordinario di collaborazione artistica. Come fu possibile, lei mi chiede, che trovasse qualcosa di me che lo incuriosisse? Ero assetato di arte e di verità. Più avanti mi avrebbe detto che è ingannevole la verità. Allora percepì il mio ardore e insieme il fragile equilibrio».
Come avvenne il primo incontro?
«Mi telefonarono dicendomi che Duchamp avrebbe pranzato in un certo ristorante milanese. Era l’11 settembre del 1962. Mi presentai con una bella faccia tosta. C’erano alcuni pittori sudamericani e Arturo Schwarz. A un certo punto Duchamp espresse il desiderio di visitare il lago di Como. Mi offrii di accompagnarlo. Con me vennero Enrico Baj e Schwarz. Con Marcel c’era la moglie Alexina Suttler Matisse».
Era la seconda moglie.
«Era stato sposato in prime nozze con Lydie Sarazin-Levassor. Fu un matrimonio breve. Era di un’ignoranza abissale. Inadatta ad affrontare la complessità di Duchamp».
Dalle memorie di Lydie, che si firmerà “Lydiote”, Duchamp e i suoi amici non uscirono benissimo.
«La poveretta fu asfaltata dalla personalità di Marcel. Che la sposò quasi per gusto della provocazione».
Lei lo definì un cacciatore di dote.
«Era la reazione di una donna che non aveva mai capito il mondo di Duchamp. La sua rivoluzione del Novecento. Erano agli antipodi. Lei credeva nella reincarnazione. Lui l’unica cosa in cui si sarebbe reincarnato era una scacchiera».
Che impressione le fece in quella gita a Como?
«Era sacerdotale e ironico. Ma sotto sotto tutt’altro che distante dalle cose della vita. Mi parlò delle donne; del suo rapporto con il cinema. Gli dissi che stavo organizzando la mia prima mostra a Roma. Si mostrò incuriosito. E disse solo: potrebbe essere un’occasione per rivedere la città dei papi».
E alla fine venne?
«Sì, non osavo sperarlo. Ma venne. Mi mandò la conferma e lo dissi agli organizzatori. I quali risero. Pensavano che me lo fossi inventato. Plinio De Martiis, il proprietario della Tartaruga, era abbastanza scettico. E venne il giorno. Duchamp si presentò nell’incredulità generale insieme alla moglie. Fu una serata strana».
Perché?
«Non capivo se le mie cose erano accettate o no. Ricordo Tristan Tzara malato che si aggirava con l’immancabile monocolo. C’era Argan con Palma Bucarelli, c’erano Perilli e D’Orazio, Alain Jouffroy che aveva scritto l’introduzione al catalogo. Arrivò anche Carla Accardi. La sentii commentare: l’abbondanza c’è, ma la qualità non so. Ci rimasi male. Ma pensai anche che era il prezzo da pagare».
Duchamp cosa disse?
«Non disse nulla. Del resto aveva abbandonato da molto tempo la pittura. E credo che alla fine giudicò l’uomo più che l’opera».
E la giudicò come?
«Con grande generosità. Ancora una volta sarebbe stato prezioso per il mio sbarco a New York».
Com’era la città negli anni Sessanta?
«Piena di opportunità. A un certo punto volle conoscermi Leo Castelli. Gli portai un mio oggetto che apprezzò. Poi aggiunse: sia più ambiguo».
Le propose di esporre?
«No, del resto non potevo aspettarmelo. Castelli aveva nomi di assoluta grandezza. Chi ero io? Una pulce rispetto a Rauschenberg e Rothko. Però lo avevo incuriosito. Qualche tempo dopo mi chiamò la moglie, Ileana Sonnabend, che aveva aperto una galleria. Mi disse che era interessata ai miei lavori e che stava preparando una grande mostra sui New Realists. Amava gli artisti italiani. C’erano, oltre me, Mario Schifano, Tano Festa ed Enrico Baj. Tra gli americani il meglio o quello che sarebbe diventato il meglio dell’arte contemporanea. C’era anche uno spocchiosissimo Andy Warhol».
Spocchioso?
«Durante l’inaugurazione non fece che sparlare degli artisti italiani. Ricordo che Duchamp mi chiese ma chi è quel signore con la parrucca bionda?» Warhol avrebbe realizzato un film su Duchamp. In fondo il grande vecchio fu all’inizio di una rivoluzione e Warhol la chiuse. La convince?
«Lo si è detto spesso. Ma è vero? Il ready-made fu un modo geniale di trasformare qualunque oggetto in un’opera d’arte. L’ironia di Duchamp era nella capacità di lavorare sui processi di democratizzazione. La provocazione era questa. Warhol commercializzò questa intuizione. Ai suoi occhi contava solo il dominio invasivo della pubblicità».
Capì il lato nichilistico dell’arte.
«Ma sì, non fece che ripetere quello che Duchamp aveva teorizzato: l’arte può fare a meno dell’etica, della metafisica e dell’estetica. Ad ogni modo quando esposi i miei lavori ebbi la fortuna di essere notato da Dore Ashton, allora la più potente critica in circolazione. Scriveva per il New York Times. Fu lei a inserirmi nel grande giro».
Dopo l’avventura americana lei è noto per aver realizzato un progetto singolare sul rapporto fra la terra e l’arte.
«Non ne potevo più di tutte le cazzate che si dicevano sulla land art. Avevo una tenuta a nord di Roma e cominciai a chiedermi cosa può insegnare l’arte alla terra e questa all’altra».
Cosa ne concluse?
«Immaginai quanto fosse difficile il rapporto. Siamo stati condizionati dall’idea che il paesaggio sia qualcosa di sublime. Abbiamo accolto gli effetti della civilizzazione. L’urbanizzazione della natura come fosse un fatto scontato. La verità è che nella terra non c’è solo la poesia ma anche i veleni; non c’è solo la bellezza ma anche la durezza e il sacrificio. Un giorno scavai una buca di quattro metri e profonda altrettanto. Dissi ai miei amici. Scendiamo dentro. Come se fosse un luogo normale».
Cosa accadde?
«Era una situazione insolita. C’era anche Toni Negri. Il quale a un certo punto esclamò: ma cos’è questa puzza di merda. È l’odore vero della terra che tu non conosci, gli replicai. Fu interessante notare le reazioni. Il disorientamento. Per sette anni ho portato avanti l’“agricola” immaginando che l’arte non dovesse nobilitare la realtà ma coglierne le asperità, le durezze. La terra non giustifica nulla. Molti se ne sono andati. Sono scappati dalla terra. Perché non c’è niente di peggio che stare lì in mezzo al sole o al freddo, alla pioggia o al gelo. È questa tragedia che l’arte deve raccontare».
C’è riuscito?
«Non lo so. A volte penso che la sola utopia possibile sia scoprire il tragico nel reale. Per quanto il mare sia bello non puoi bere la sua acqua. Mi pare che Ernst Bloch abbia detto che tra il possibile e l’impossibile esiste una terza via: la tendenza, la propensione. Qualcosa di misterioso, fatto di linee di forza che non capiamo immediatamente. È lì che la mia vita si è sempre collocata».
Con quali effetti?
«Bizzarri. Sono figlio di una madre cattolicissima che mi ha fatto passare la voglia della religione. E molto tempo fa ho cominciato a consultare i Ching, quanto di più pagano in materia di oracoli. È un libro che ha messo in crisi il pensiero occidentale. La sua forza è anche nella sua ironia beffarda ed enigmatica. Jung cercò una spiegazione dei Ching poi, avendola trovata, chiese al Libro cosa pensasse di quella spiegazione. Sono tutte cazzate rispose il Libro. Ecco, amo questo senso di sdrammatizzazione».
I Ching sono una risposta ai dubbi?
«Sono una risposta alle domande che ti fai più che ai dubbi. E al dubbio che lascia incerti preferisco l’errore. Non ho fatto altro che vedere errori. Viverli. Subirli. Oggi che ho superato i 90 anni rivedo mio padre coperto di medaglie e di retorica nazionalista. E penso che per me fu drammatico affrontare i suoi errori. Avrei desiderato fare altro. E invece commisi gli stessi errori. Forse per amore filiale. Non lo so».
Cosa resta dei suoi desideri?
«Desiderare prescinde da quello che sono, dalla vecchiaia che incalza. Alla mia età non penso più a coloro che non ci sono più. Sono andati. Alla mia età la sola cosa che conta è non aver paura del filo esile al quale sono legato. La notte prima di coricarmi recito un mantra vedico. Non penso a nulla. Quel mantra non mi chiede niente. Compio il rito come fosse un gioco. Sono un caso tra miliardi di casi. Così le notti volano».
Antonio Gnoli, la Repubblica 15/2/2015