Marc Bassets, la Repubblica 15/2/2015, 15 febbraio 2015
A CASA DI CLINT
CARMEL BY THE SEA (CALIFORNIA)
L’ispettore Callaghan ha bisogno di riposo. Solo una pausa, quanto basta per rimettersi in sesto e tornare al suo lavoro: girare film. «Ho fatto due progetti di fila quest’anno e ho detto ai miei figli che mi prenderò sei mesi per riposare e migliorare in altri ambiti», mi dice. Quali ambiti? In realtà Clint Eastwood ha smesso da decenni di essere l’ispettore Callaghan. Oggi è uno dei cronisti più accurati dell’America contemporanea, anche se conserva ancora qualcosa dell’uomo senza nome degli spaghetti western di Sergio Leone a cui è attribuita la celebre definizione: “Eastwood ha solo due espressioni: col cappello e senza”. Quando gli chiedo cos’ha in mente di fare, mette le mani come se stringesse una mazza da golf e colpisce l’aria. «Non mi dica», sorride l’addetta stampa. Un viaggio alla ricerca dell’America di Eastwood non può non partire da Carmel. A cinquecento chilometri da Los Angeles, sulla costa del Pacifico, questo paesino di quattromila abitanti è il suo paradiso privato da quando, negli anni Cinquanta, ai tempi della Guerra di Corea, svolse qui il suo servizio di leva nella vicina base di Fort Ord e scoprì questa bolla di lusso e sofisticatezza. Qui ha cresciuto i suoi figli, qui ha vissuto con le sue donne, qui si rifugia dallo strepito della vita mondana. E qui gioca a golf. Non è l’America dei suoi film: le strade malfamate, le città degradate, le brulle praterie del Far West. A Carmel, che prende il nome dalla chiesa di San Carlo Borromeo del Carmelo, fondata nel 1771 dal frate maiorchino Junipero Serra, Eastwood possiede un pub, un villaggio turistico, un circolo di golf. Malpaso Road, la strada che dà il nome alla sua società di produzione, sta ad alcuni chilometri di distanza in direzione di Big Sur, la zona di boschi e scogliere santuario dei beatnik e degli hippy negli anni Cinquanta e Sessanta. “Clint”, lo chiamano tutti. E gli aneddoti si sprecano. Raccontano che una volta aiutò una divorziata che non riusciva a pagare la rata del mutuo. O che cederà dei terreni al Comune per garantire il rifornimento idrico nei periodi di siccità. Carmel diventò improvvisamente nota quando Clint fu eletto sindaco, alla fine degli anni Ottanta. Amministrava il paesino ed era come se girasse il film dei suoi abitanti: Clint cittadino, Clint cineasta. Lontano dai riflettori di Hollywood, questa è Clint City. «C’è come un alone di magia con Eastwood qui», dice Nico Groslambert, un barcellonese che frequenta da anni la regione e vive nella vicina Monterrey. «È un po’ come un giustiziere, un Robin Hood». Le strade di Carmel risplendono incontaminate: prima che Eastwood diventasse sindaco era addirittura proibito mangiare gelati in giro. Oggi il centro della cittadina è pieno di ristoranti, negozi di lusso, gallerie d’arte. Qui la cosa peggiore che può succedere è che uno squalo azzanni un surfista giù alla spiaggia. «Difficile rimpiazzarlo», dice il sindaco attuale, Jason Burnett. Carmel è un paesino colto ed elegante. Sugli scaffali di uno dei caffè di Ocean Avenue ci sono libri in francese e in giapponese. Sul tavolo vicino gli avventori parlano dell’attentato contro Charlie Hebdo . Il primo cittadino è in bermuda. «Come ex sindaco è straordinario. È sempre pronto a darmi consigli quando glieli chiedo. Se si intromette è solo per dare una mano. Lo apprezzo. E parlo spesso con lui». Gli telefona? «Sì. E mi risponde sempre molto in fretta, se si pensa a tutti gli impegni che ha».
“Ma che americano è stato, Clint Eastwood! Forse non è mai esistito un altro americano come lui”, scrisse nel 1983 Norman Mailer, uno dei primi a scorgere in Eastwood qualcosa di più del tipo da western e film d’azione che tutti conoscevano. In un’epoca in cui critici e intellettuali lo disprezzavano, Mailer lo paragonava a Hemingway. “Quello che distingueva Eastwood da altre star”, ha scritto, “era che i suoi film (specie da quando ha cominciato a dirigerli) finivano per parlare, via via sempre di più, della sua visione della vita in America”. A ottantaquattro anni, un’età in cui la maggior parte delle persone si gode la pensione, Eastwood lavora senza posa. Alcuni dei suoi film migliori — Gli spietati, Million Dollar Baby, Mystic River, Flags of Our Fathers, Gran Torino — li ha girati dopo i sessanta. American Sniper, basato sulla storia vera di Chris Kyle, il cecchino più efficiente nella storia delle forze armate americane, è il suo trentottesimo film, quasi il doppio quelli a cui ha preso parte come attore. Non sa indicarne uno in particolare per il quale vorrebbe essere ricordato. «No», dice. «Uno no. Solo l’insieme della mia opera. Quello che la gente ricava dai miei film. Quando finisci un film, non è più tuo: spetta al pubblico interpretarlo o scartarlo».
Sei anni fa, durante un’intervista a New York, mi disse che era troppo presto per affrontare il tema delle guerre degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. Con American Sniper finalmente lo ha fatto. Il film, che ha avuto un grande successo nelle sale e ha scatenato polemiche fra chi lo giudica demagogico e razzista e chi ritiene invece che rispecchi efficacemente le conseguenze della guerra, ha ricevuto sei nomination agli Oscar: se vincerà qualche statuina, andranno ad aggiungersi alle cinque già esposte in bacheca. «Quello che ho cercato di far vedere è che Kyle amava quello che faceva. All’inizio deve aver sentito l’eccitazione di uccidere centosessanta persone, però arriva un momento in cui… Cerchiamo di far vedere che non erano solo centosessanta soldati, c’erano anche donne e bambini ». Così tanto dolore e così tante morti lasciano strascichi. «Puoi dire a uno psichiatra che alla fine andrai di fronte al tuo Creatore sapendo di aver fatto la cosa giusta. Ma lo pensi veramente? E quando lui dice questo allo psichiatra, si vede nello sguardo che la sua energia viene un po’ meno, come succede quando una persona cerca di mettersi in buona luce. A volte, quando cerchi di giustificarti con te stesso, finisci per tradirti».
Eastwood si muove sul filo dell’ambiguità. Non si lascia intrappolare in una definizione unica. Nel 2012 ha fatto campagna per Mitt Romney, il candidato repubblicano alla Casa Bianca, ma in politica estera le sue posizioni sono più vicine alla sinistra. Si è costruito una fama di uomo di destra con Callaghan, ma è più vicino a quello che negli Stati Uniti viene definito un libertarian, una persona che desidera che lo Stato si immischi il meno possibile nella sua vita. Potrebbe sembrare che American Sniper sia un’esaltazione spudorata dei guerrieri, e molte delle critiche sono incentrate proprio su questo punto. Ma lui mi dice che il film può essere interpretato come una dissertazione contro due guerre — Afghanistan e Iraq — anomale per gli Stati Uniti.
La promozione di un film è un’operazione complessa. Bisogna mobilitare addetti stampa e convocare a Los Angeles giornalisti da tutto il mondo. Include regole come astenersi dal chiedere autografi e fotografie all’intervistato, o consegnargli regali. Costringe ad aspettare quattro ore per poter parlare faccia a faccia con la star. L’incontro con Eastwood prosegue nell’atrio di un teatro all’interno degli studi della Warner Bros, tra strade finte usate per le riprese e capannoni immensi che ospitano i set. Durante una delle interviste si sente nella sala qualcuno che sta parlando al telefono. Eastwood fa un urlaccio: «Piantala di dare fastidio!». Le sue addette stampa ridono. Come a dire: è fatto così. Clint si avvicina al tavolo. Indossa un paio di Nike malconce e una giacca scura. Cammina dritto e sorridente. Mentre parliamo, sgranocchia arachidi e beve acqua. Si dilunga nelle risposte. Solo dopo, ascoltando quella voce logora nella registrazione, mi sono reso conto davvero della sua età. L’età altera lo sguardo. «Affronti temi nuovi e li guardi da un punto di vista diverso», dice. «Li guardi dall’alto di ottantaquattro anni di conoscenza, non quarantaquattro o qualsiasi altra età. Probabilmente tutto è diverso. Probabilmente avrei fatto cose diverse in passato se potessi tornare indietro ». Quali? «Vali soltanto quello che sai in quel dato momento. Sono sicuro che con le conoscenze che ho adesso, certi temi che ho affrontato in passato li tratterei in modo diverso. Ma forse non sarebbe un gran bene, perché con l’età magari perdi qualcosa, o trascuri certe cose. Chi può saperlo?».
In Clint Eastwood il passato è presente. Ogni sua storia è impregnata della sua biografia. Tutte le guerre sono la stessa guerra. Ricorda le strade di Oakland, una delle città della California in cui è cresciuto, alla fine della Seconda guerra mondiale. «Non ci sarà mai più nessun’altra guerra, questo è il finale, dicevano. Quattro o cinque anni dopo fui reclutato per la guerra di Corea, e alcuni anni dopo ci fu quella del Vietnam; e poi abbiamo continuato, siamo andati in Iraq per cercare di proteggere i vicini dell’Iraq, e ci siamo tornati dopo per acciuffare Saddam Hussein, e ci siamo tornati senza un piano. Mi accorgo che non c’è nessun piano nella vita e che molte cose dipendono dalle circostanze. Uno dei dilemmi dell’umanità è che è destinata a lottare».
Eastwood è figlio della Grande Depressione. I suoi genitori giravano la California facendo piccoli lavoretti per tirare avanti. «In quel momento non lo capivo, ma ora sì: li vedevo faticare per arrivare alla fine del mese. C’è stata un’epoca, negli anni Trenta, in cui la guerra consisteva nel sopravvivere in una situazione economica terribile, in un periodo in cui non esisteva lo Stato sociale, nessuno ti dava niente. Se andavi in rovina eri in rovina e basta. Invecchiando sei sempre più restio a tornare pessimista, ma bisogna capire quel vecchio detto: chi non fa caso alla storia è destinato a ripeterla. Ed è vero, perché la maggioranza delle persone non presta attenzione alla storia. Sicuramente noi americani non lo abbiamo fatto».
C’è qualcosa che non si incastra fra il mondo in cui è cresciuto Eastwood e quello di adesso. «Viviamo in una società molto paurosa, dove nessuno vuole essere offeso. Quando ero bambino, la gente scherzava sulle questioni razziali, ridevamo gli uni degli altri. Ora, negli Stati Uniti, sembra che bisogna dare un trofeo a tutti i bambini a scuola per evitare di offendere qualcuno».
Dagli anni Cinquanta in poi Clint vive dentro la bolla di Hollywood. Ma anche dentro la bolla di Carmel, dove secondo l’Ufficio del censimento non risiede nemmeno un afroamericano. Non si vedono nemmeno poveri per le strade immacolate di una delle capitali dell’un per cento più ricco, nel Paese delle disuguaglianze. Gli Stati Uniti di Clint non è a Carmel che bisogna cercarli. Il viaggio termina dopo venti chilometri lungo la strada che conduce verso l’interno, verso la valle agricola di Salinas, soprannominata l’insalatiera del mondo. “È una depressione lunga e stretta tra due catene montuose, e il fiume Salinas scorre e si insinua in mezzo alla valle fino a sfociare nella baia di Monterrey”: così la descrive il suo figlio più celebre, John Steinbeck, ne La valle dell’Eden . La città di Salinas, con 155.000 abitanti, è il capoluogo della contea di Monterrey. Ed era l’Eden di Steinbeck e del film omonimo, con James Dean come protagonista. Non lo è più. Salinas è una delle città con il più alto tasso di omicidi pro capite della California. Per anni è stata territorio delle gang, le bande criminali ispaniche come Los Norteños. I veterani di guerra addestravano i poliziotti di Salinas: i primi insegnavano ai secondi come applicare nella lotta alle gang i metodi antiguerriglia. «Fare il poliziotto è un lavoro duro. Non mi piacerebbe farlo, anche se ne ho imitato uno. Spesso hai la società contro, ma nonostante questo hai il dovere di proteggere le masse. Immagina come sarebbe il Paese senza gli agenti. Sarebbe come il Far West o qualcosa di simile», dice Eastwood e si sta riferendo a Ferguson. «La società ha bisogno dei poliziotti. Loro però devono prendere le decisioni giuste».
(Traduzione di Fabio Galimberti) © El Paìs Semanal
Marc Bassets, la Repubblica 15/2/2015