Giampaolo Cadalanu, la Repubblica 15/2/2015, 15 febbraio 2015
“TORNEREMO NEL PAESE MA DOBBIAMO LAVORARE PER LA RICOSTRUZIONE” – [Intervista a Angelo Del Boca] – No, non è un addio
“TORNEREMO NEL PAESE MA DOBBIAMO LAVORARE PER LA RICOSTRUZIONE” – [Intervista a Angelo Del Boca] – No, non è un addio. Torneremo, prima o poi. Angelo Del Boca non è ottimista sul futuro della Libia, ma crede che la partenza degli italiani sia solo provvisoria. A meno di quattro mesi dal suo novantesimo compleanno, il massimo storico del colonialismo nostrano può vantare uno sguardo fra i più lucidi sulle regioni teatro delle avventure imperiali fasciste. Professore, con la partenza degli ultimi italiani dalla Libia, è la fine di una fase storica? «Ma no, è solo una misura di sicurezza obbligata. Credo che chiuderà anche l’ambasciata, non c’è più la garanzia di una protezione». Lei non vede un valore evocativo in questo esodo? «Guardi, in Libia gli italiani rimasti erano pochissimi. Non ci sono più i grandi lavori, le imprese hanno sgomberato da tempo». Che dice, torneremo? «È già successo, più di una volta». Ma torneremo con le uniformi militari? «Spero proprio di no, guai se fosse così». L’Italia può avere un ruolo reale nel cercare una soluzione? «Nei giorni scorsi ho firmato assieme ad Alex Zanotelli un appello perché l’impegno dell’Italia, come ex potenza coloniale, non sia quello di preparare un intervento militare — da quelle parti, fra l’altro, abbiamo sempre fatto una pessima figura — ma di portare i libici al tavolo di pace, con le altre nazioni europee, con l’Unione africana e con le Nazioni Unite. La popolazione ha già sofferto abbastanza per poter affrontare un’altra guerra». E questo obiettivo diplomatico è alla portata del nostro Paese? «Ci vorrebbe una classe politica con la capacità di vedere e capire gli ultimi anni della nostra Storia. Una classe politica all’altezza, diversa da quella che abbiamo». Finirà che rimpiangeremo i tempi di Gheddafi? «Qualcuno pensa di sì. S’intende che stiamo parlando del Gheddafi uomo politico che aveva tante qualità, non il dittatore che fino agli anni Settanta e Ottanta inseguiva i suoi avversari con gli squadroni della morte. Dopo il bombardamento di Tripoli aveva cambiato le sue strategie. Aveva fatto un lavoro intelligente, realizzando una specie di cintura di protezione attorno alla Libia e all’Africa settentrionale, proprio pensando all’integralismo islamico. Personalmente, non ho mai avuto stima di Berlusconi, ma credo che il famoso patto che lui firmò con Gheddafi fosse una buona idea. Era un accordo politico e militare che noi abbiamo bistrattato, anche grazie all’assenso del presidente Napolitano, che ha permesso la guerra ignorando la Costituzione. Probabilmente anche oggi avrebbe bloccato gli integralisti, e non sarebbe stata la prima volta. Ovviamente avrebbe riempito le carceri, avrebbe usato il pugno di ferro, come la volta che per domare la rivolta di Bengasi coinvolse Esercito, Marina e Aviazione. D’altronde in Occidente dava fastidio la sua idea di raccogliere diversi Stati africani in una federazione, perché potessero trattare alla pari con le potenze mondiali». Come vede la situazione libica in questi giorni? «È molto grave: ai due governi che si contendono il paese, quello di Tripoli e quello di Tobruk, adesso si è aggiunto il Califfato, che rende tutto più complicato. Non credo che nemmeno il generale Khalifa Haftar possa riuscire a mettere ordine». Lei conosce bene la cultura libica: crede che sia compatibile con il rigore e il fanatismo del Califfato di Al Baghdadi? «Non direi. I libici sono persone tranquille, Gheddafi gli dava tutto e gratis, vivevano bene. Ora quasi la metà della popolazione è scappata via, si parla di sei-settecentomila libici rifugiati in Tunisia, un milione in Egitto». Giampaolo Cadalanu, la Repubblica 15/2/2015