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 2015  febbraio 14 Sabato calendario

QUEI CONTI DELL’ETRURIA

Non una storia di finanza spericolata, bensì la storia di una carente patrimonializzazione e di un cattivo credito alla base della debacle che ha portato al commissariamento della Popolare dell’Etruria.
Non è una storia di finanza allegra o di operazioni spericolate quella che ha portato al commissariamento della Banca d’Etruria, bensì più banalmente una storia di patrimonio ridotto all’osso e di cattivo credito. Un mix perverso che , con le difficoltà a rimpinguare il capitale e le rettifiche sollecitate dalle ispezioni di Bankitalia, ha finito per erodere i ratio al di sotto dei minimi regolamentari.
La debacle dell’Etruria si è consumata nell’arco dello scorso esercizio quando non è stato più possibile tamponare le perdite, ma la parabola discendente della banca ha inizio almeno dal 2012, quando sono iniziate le ispezioni di via Nazionale e si è cominciato a far pulizia nel portafoglio crediti. Si era tentata la strada del matrimonio riparatore, la fusione con un istituto dalle spalle più larghe. Con due advisor che si sono passati il testimone - dapprima Rothschild e poi Mediobanca - e che però non sono riusciti nell’impresa alla quale, ancora a gennaio, erano appese le residue speranze della banca aretina.
CATTIVO CREDITO
Il cuore del problema, dunque, la cattiva qualità degli impieghi. Le rettifiche su crediti sono infatti passate dal 23,5% del totale dei ricavi del 2011 (nella riclassificazione di R&S-Mediobanca che considera entrate straordinarie gli utili da cessione titoli) al 112,5% del 2012, quasi il triplo rispetto al sistema delle banche popolari, e responsabili principali delle perdite che quell’anno erano arrivate a sfiorare i 210 milioni. Nei primi nove mesi del 2014 - gli ultimi dati contabili approvati prima del commissariamento - il rapporto rettifiche/ricavi era addirittura salito a oltre il 134%. Vale a dire che le perdite riportate sui crediti, 208 milioni nei nove mesi, non solo sono state abbondantemente superiori ai ricavi “ordinari” (157,5 milioni rispetto ai 343,3 dell’intero 2013), ma sono quasi arrivate ad azzerare le entrate che, compresi i guadagni extra da cessione titoli, sono state pari nel periodo a 223 milioni. Se si considerano anche i costi operativi di 175 milioni, per natura sostanzialmente fissi, si arriva facilmente a giustificare la perdita novestrale di 126 milioni.
L’ABBUFFATA DI BTP
Nessun azzardo finanziario, dunque, con derivati e attività illiquide a livelli irrisori. Bensì investimenti tranquilli in titoli di Stato, che però hanno assunto proporzioni abnormi. Nella voce titoli e attività finanziarie diverse del 2013, quasi moltiplicatasi per sei dal 2010, c’erano infatti titoli di Stato italiani per 7 miliardi, vale a dire oltre il 42% del totale dell’attivo. Una percentuale abnorme anche se la si confronta con le punte più alte delle principali banche quotate (sempre a fine 2013): il 18,4% della Popolare di Sondrio, il 16,5% di Intesa o il 12,7% di Mps. Tanto abnorme da aver suscitato la richiesta di rientro da parte della Banca d’Italia per limitare il cosiddetto “market liquidity risk”. Il portafoglio delle attività diverse è stato infatti ridimensionato sotto i 5 miliardi nel primi nove mesi del 2014, con la sessantina di milioni di plusvalenze realizzate che hanno permesso di sostenere i ricavi, ma, appunto, non abbastanza da evitare di finire, ancora una volta, in profondo rosso. Poteva andare anche male, come quando lo spread era schizzato e il portafolgio aveva fatto segnare 54 milioni di minusvalenze.
Ma perché investire così massicciamente in titoli di Stato? Non necessariamente per amor di patria, ma per evitare di peggiorare ulteriormente i ratio, già ridotti all’osso (anzi scesi sotto i minimi regolamentari già a fine settembre), fornendo credito alla clientela. Aumentare i risk weighted assets avrebbe infatti richiesto di rafforzare il patrimonio.
IL NODO PATRIMONIALE
Aumentare il capitale, per sostenere l’attività creditizia e i ratio, non si è rivelata un’impresa semplice. Tant’è che le azioni di rafforzamento del capitale negli ultimi anni hanno lasciato spazio alla fantasia. Nel 2012 si era fatto ricorso alla conversione di bond che aveva portato quasi 110 milioni di capitale e altri 7 milioni erano stati recuperati pagando il dividendo “in natura”, cioè in azioni. Nel 2013 altri cento milioni (meno di 94 al netto delle spese sostenute per l’operazione) erano arrivati invece da un aumento di capitale secco. Troppo poco comunque per preservare il patrimonio netto, sceso dai 648 milioni del 2013 ai 533,9 milioni di settembre. La diga non ha tenuto di fronte al flusso delle rettifiche e i ratio sono scivolati sotto i minimi ,difesi fino ad allora comunque a fatica.
Antonella Olivieri, Il Sole 24 Ore 14/2/2015