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 2015  febbraio 14 Sabato calendario

ARTICOLI SULLA MORTE DI LIVIO GARZANTI DAI GIORNALI DEL 14/2/2015


MARIO BAUDINO, LA STAMPA -
I suoi giudizi sul mondo culturale e sugli scrittori, anche quelli che amava, sono diventati una leggenda editoriale, così come le invettive, le improvvise furie, i sorrisi timidi che alla fine placavano le situazioni più compromesse. Livio Garzanti è stato un grande editore, simbolo di un’epoca in cui i libri si sceglievano e si stampavano con piglio decisionista e artigianale insieme, un padre padrone amato e odiato, e soprattutto un uomo di genio. È mancato l’altra notte in un clinica milanese dove era ricoverato da alcuni giorni.
Aveva 93 anni, ma la sua avventura editoriale, per quanto lo riguardava, era stata chiusa negli Anni Novanta, quando cedette la casa editrice in un momento difficile anche se forse non disperato, e cominciò sempre più spesso a sostituire la vecchia Porsche azzurra con un bicicletta nera. «L’azienda poteva anche andare avanti così. Ma forse io ero stufo di far l’editore», confessò allegramente a chi scrive. Era un’allegria spesso amara. Livio Garzanti ha inventato un mondo di libri e di scienza (le sue enciclopedie, soprattutto le «piccole», le Garzantine, sono in ogni casa, i suoi autori sono i grandi del secondo dopoguerra, da Pasolini a Fenoglio, da Gadda a Volponi, a Parise, a Magris) eppure sembrava non riconoscersi mai del tutto nella nostra società intellettuale o imprenditoriale.
È stato editore e persino narratore in proprio; si è unito in seconde nozze con una scrittrice come Gina Lagorio, (scomparsa dieci anni fa) la cui influenza fu determinante, spesso pacificante. Ma gli piaceva decidere da solo, e conquistare indifferentemente Truman Capote o i coniugi Golon, con le loro popolarissime avventure di Angelica, la marchesa degli angeli; Elias Canetti o poeti come Bertolucci, Luzi, Caproni; George Steiner o Michael Crichton. Qualche volta ricevette doni dalla fortuna, come quando Eric Linder, unico e potentissimo agente letterario italiano, gli fece pubblicare Love Story (un successo epocale) più che altro per far dispetto, disse poi, a un «colosso» dell’editoria. Spesso, seppe costringerla ai suoi voleri, come quando mise Gadda nel mirino a non lo mollò più fino a che non ebbe il pur incompiuto Pasticciaccio.
Garzanti era un giovanotto, Gadda un signore in giacca e cravatta terrorizzato dalle sue attenzioni e lo riteneva «un uomo pericoloso»: ma al fondo, dovette esserne anche lusingato, e Pasticciaccio fu. Una determinazione simile, forse anche maggiore, segnò il progetto della Enciclopedia Europea, opera monumentale che alla fine gravò sui bilanci della casa editrice, ma è sempre stato il suo vero orgoglio.
Proprio per questo non mancava di scherzarci su, alla faccia di tutti quelli che prima o dopo di lui si sarebbero fatti belli con i laureati di Stoccolma. Aveva infatti coinvolto tra i collaboratori undici premi Nobel, ma, diceva con un ghigno beffardo, «a dir la verità li usavo per vendere l’opera ai gonzi». Non che fosse vero, ma il personaggio era così. Il conformismo non faceva per lui. Diceva cose terribili sul grande rivale Giulio Einaudi («Non l’ho mai conosciuto, ma era un presuntuoso senza cultura propria») e si commuoveva al ricordo di Beppe Fenoglio, al Partigiano Johnny cui rinunciò per «lealtà verso un amico»: dopo gli esordi einaudiani gli aveva infatti pubblicato Primavera di bellezza e dopo un lungo contenzioso con lo Struzzo anche Un giorno di fuoco con Una questione privata, ritrovata da Lorenzo Mondo, ma aveva preso con lui, già malato, l’impegno di non stampare opere postume. Così ci disse più volte, e così certamente pensava.
Se era feroce, la sua era un ferocia tutta letteraria. Voleva essere filosofo (in coerenza con gli studi e la laurea), si ritrovò editore nell’azienda che il padre Aldo aveva rilevato dai Treves dopo le leggi razziali. In via della Spiga, nel palazzo ideato da Giò Ponti, fece ben presto vedere di che pasta era fatto. Per certi versi era un monaco dei libri: grafiche dimesse, simpatia per il grigio, nessuna concessione alle mode. Per altri, ebbe intuizioni estetiche geniali, come quella di far affrescare da Tullio Pericoli, correvano gli Anni 80, una saletta al pian terreno, la «Sistina Garzanti». Ora è cambiato tutto, dall’ indirizzo, al gruppo editoriale. Ma non il nome. Né, forse, il segno.

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ERNESTO FERRERO, LA STAMPA -
Ricordare un sovrano d’Antico Regime come Livio Garzanti è un po’ tornare al Grand Siècle dell’editoria, quello di Arnoldo Mondadori, Valentino Bompiani, Giulio Einaudi, Giangiacomo Feltrinelli, un’età di impareggiabili e inimitabili padri padroni. Il dottor Livio, come lo chiamavano in casa editrice, incarna il paradosso di uno che avrebbe voluto fare tutt’altro, il filosofo e il narratore, si sentiva costretto a un mestiere che sembrava riuscirgli odioso e tuttavia lo svolgeva con un talento che aveva del geniale.
Tutto nasceva dal conflitto con il padre Aldo, che all’indomani delle leggi razziali aveva rilevato la primaria casa dei Fratelli Treves. Un romagnolo sanguigno, «un’edizione aristocratica di Mussolini», di cui era peraltro amico, dirà il figlio, che invece assomigliava intellettualmente alla madre, Sofia. «Guarda che tuo figlio non è affatto stupido come credi», disse un giorno Buzzati ad Aldo. Ma Aldo non lo pensava affatto dell’Edipo che gli cresceva in casa: semplicemente era in corso era un’aspra lotta per il potere famigliare, di timbro shakespeariano.
Diseredato dal genitore, Livio fu reintegrato in extremis nei suoi diritti per un provvidenziale intervento della madre. Di che cosa fosse capace fare il trentenne neoeditore si vide subito (siamo nel 1952): Pasolini, Parise, Volponi e il Pasticciaccio di Gadda, costretto a consegnare il suo capolavoro con un misto di sapienti blandizie e minacce quasi teppistiche. Senza quell’insistenza persecutoria a fin di bene l’ingegnere («falso e cerimonioso», lo definì, ma era solo sulla difensiva) non avrebbe mai capitolato. E poi gli svelti manualetti del «Saper tutto» che curava Citati, le Garzantine, i dizionari, l’Enciclopedia Europea. Monumenti d’una editoria di servizio d’esemplare qualità. Il mancato filosofo si faceva un puntiglio di gareggiare con i suoi redattori per asciugare ogni voce enciclopedica di tutto il superfluo, sino a farne un oggetto perfettamente funzionale come una chiave inglese.
Non aveva cariche ufficiali, non leggeva i bilanci, s’era ricavato uno studiolo in una stanzetta occupata quasi per intero da un tavolino del ‘600, per lo più sgombro di carte. Il gran palazzo di Gio Ponti che sta tra Via Senato e via della Spiga sembrava dipinto da Sironi: pareti grigie, luci fioche, vecchi sofà démodés (l’ultimo piano era stato anche la residenza privata della famiglia). Chi ci lavorava dentro gli restava praticamente invisibile. Ha sempre avuto dirigenti e collaboratori d’alto valore, da Attilio Bertolucci a Giorgio Cusatelli, da Giovanni Raboni a Paolo Debenedetti, Lucio Felici, poi Piero Gelli e Gianandrea Piccioli, ma era già tanto se non li aggrediva con qualcuno dei suoi imprevedibili schizzi d’acido muriatico. Della casa (e delle officine che stampavano i libri) parlava come di un’entità sostanzialmente ostile, ingovernabile, inconoscibile, in cui si consumavano oscuri traffici familistici.
A giorni alterni, per un anno e mezzo mi ha confidato il suo sogno più caro: l’incendio della casa editrice: «Se trovo qualcuno che le dà fuoco, gli do dieci milioni». Naturalmente sarebbe poi corso a spegnere le fiamme. Si vantava di non avere amici (se uno è un vero amico non c’è nemmeno bisogno di dirselo). Consumi di sobrietà monacale (solo Gina Lagorio l’aveva convertito ai Baci di Cherasco e al vino Pelaverga che si produce a Verduno). Viveva isolato nel centro di Milano, scrupolosamente lontano da ogni mondanità e pubblica apparizione (salvo l’inaugurazione della cosiddetta Sistina Garzanti che aveva fatto affrescare a Tullio Pericoli). I suoi giudizi taglienti erano un modo per dire l’insofferenza ai modelli correnti, ai rituali vacui, ai luoghi comuni, anche specie se radical chic. Di Einaudi (di cui pativa il glamour): «Un comunista megalomane, un presuntuoso senza cultura propria». Di Truman Capote: «Una bella donnina». Di Paolo Volponi: «Un matto nobilissimo». Di se stesso: «Della cattiveria ho fatto una civetteria, dell’antipatia quasi un mestiere».
Quando voleva conquistarti l’antipatico era di un seduttività irresistibile, il più amabile, gentile, sensibile dei Casanova. Quando tre mesi dopo aveva deciso che non corrispondevi alle sue speranze, ti faceva liquidare sbrigativamente da uno dei suoi, e riprendeva a masticare la sua cosmica infelicità. L’aneddotica su di lui è sterminata, per anni gli addetti al lavori se la sono scambiata con complice delizia revanscistica. Ma deve avere sofferto parecchio per il ritratto crudele che di lui aveva tracciato Goffredo Parise, arrivato poco più che ragazzo in Via della Spiga, ne Il padrone, che trasforma in favola swiftiana tutti i tic e i tormenti del personaggio che voleva ridurre i dipendenti a docili oggetti.
In uno dei suoi momenti di furore e dispetto, vent’anni fa, aveva ceduto la casa editrice, salvo pentirsi, credo, un minuto dopo. Il triste spettacolo della contemporaneità temo gli abbia avvelenato gli ultimi anni, che non hanno prodotto nemmeno oggetti degni dei suoi sarcasmi. Chissà se li avrà affidati a un suo zibaldone. Un dottor Livio postumo accrescerebbe la gratitudine per il molto che dobbiamo a questo grande editore suo malgrado. Come dicono a Milano: inscì avèghen, avercene, di tipi così.

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MAURIZIO BONO, LA REPUBBLICA –
Che un grande editore si ricordi come tale pur essendosi ritirato da vent’anni, è la prova di quanto la sua lezione resti importante. Anche se naturalmente Livio Garzanti — morto a 93 anni in una clinica del capoluogo lombardo nella notte tra giovedì e venerdì — non sarebbe stato d’accordo. Non lo era quasi mai, lui. Quasi con nessuno. E così ha lastricato mezzo secolo (entrò nel palazzo milanesissimo di via della Spiga 30, succedendo al padre Aldo alla proprietà e alla direzione della Garzanti, nel 1953) di urticanti giudizi su di sé e sugli altri.
Achiederglid el suo mestiere, gelava gli intervistatori: «Non me ne frega niente di essere stato un editore. Ho fatto questo lavoro come avrei potuto fare il barbiere. Mica sono un eroe della patria. Sono un merlo, un figlio di papà». Un “merlo” che ha pubblicato Gadda, Pasolini, Capote, Jorge Amado, Parise, Volponi, Soldati, un’infinità di Garzantine, le poesie di Luzi, Bertolucci, Caproni, Penna, la Storia del pensiero scientifico e filosofico di Geymonat.
Livio Garzanti aveva fatto irruzione nell’editoria italiana in un momento delicato. Mondadori e Rizzoli avevano attraversato fascismo, occupazione tedesca e resistenza senza avvicendamenti generazionali riusciti. Poi c’era Giangiacomo Feltrinelli, cinque anni più giovane di lui e altrettanto ereditiere, ma più ribelle. E Giulio Einaudi, dieci anni più vecchio: «Non l’ho mai conosciuto ma era un presuntuoso, un comunista megalomane…». Con tutti loro, per decenni, Garzanti ha incrociato la spada sul terreno della concorrenza, della caccia al genio. Capitò con Carlo Emilio Gadda: l’ingegnere arrivò alla Garzanti grazie ad Attilio Bertolucci e la pubblicazione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana ( 1957), che l’avrebbe consacrato, fu un estenuante braccio di ferro mentale (vinto dall’autore) sul finale incompiuto.
Con Pasolini si diedero sempre del lei. Anche se fu proprio Garzanti — ed è uno dei meriti per cui sarà sempre ricordato — a lanciarlo alla grande sulla scena editoriale, pubblicando nel 1955 Ragazzi di vita . Del grande poeta e scrittore friuliano una volta disse: «È stato un vero amico. Quando abbiamo pubblicato quel romanzo era un momento molto pericoloso per la censura. Gli ho chiesto di rivedere alcune parti troppo forti, ma fu processato ugualmente. Un processo ridicolo. Pasolini era il contrario del sessantottismo. Mi lasciò per andare da Einaudi perché avevo pubblicato un autore da lui detestato, che poi vinse lo Strega. Mi colpì profondamente la nostra ultima passeggiata notturna, le confidenze che mi fece: possedeva il dono, il sentore, la grazia della raffinatezza letteraria».
Con Volponi litigarono furiosamente. Di Soldati fuggiva (letteralmente) l’esuberanza affabulatrice. Nel settore dei libri da consultazione, invece, Livio Garzanti gli autori era riuscito ad abolirli: una innovazione che avrebbe lasciato il segno. Per i dizionari, l’Enciclopedia Europea, le Garzantine, è stato il primo a mettere insieme una catena di montaggio fatta di redattori eccellenti.
Livio Garzanti, che nel 1994 ha venduto a Messaggerie e Utet la casa editrice gravata di 10 miliardi lire di perdite ma con un catalogo imponente (oggi il marchio è proprietà del gruppo Gems) lascia la moglie Louise Michail, esperta d’arte orientale. In prime nozze si era unito con Orietta Sala, poi nel ‘73 aveva sposato la scrittrice e parlamentare (sinistra indipendente) Gina Lagorio, scomparsa nel 2005. I pochi frammenti di vita privata dell’editore in circolazione sono legati a lei: cene con selezionati amici, fine settimana nelle sue Langhe, sodalizio umano e professionale (Lagorio ha lavorato a lungo in casa editrice). Leggenda vuole che quando nel ‘77 la Garzanti candidò con gran convinzione Lagorio al premio Campiello col romanzo La spiaggia del lupo , e per soli tre voti vinse Saverio Strati, edito da Mondadori, lui la prese malissimo. Con la stessa schiva sobrietà, l’anno successivo alla morte di Lagorio, creò la Fondazione Lucia Ravasi Onlus (il nome è della madre), che si occupa di anziani poveri e malati d’Alzheimer. E dalla stessa riservatezza sono avvolti gli ultimi anni di vita tra i libri nella casa milanese: «Vedere i “letterati” di oggi mi fa senso, anzi mi sembra di essere caduto in una pozzanghera... Quando andavo alla Garzanti, nel mio ufficio incontravo Dino Buzzati, Pietro Bianchi, Orio Vergani, Attilio Bertolucci. Ludovico Geymonat veniva con il suo progetto di una storia del pensero filosofico e scientifico, Emilio Cecchi e Natalino Sapegno con quello dedicato alla letteratura...».
L’unico vero ritratto privato, invece, Garzanti ha finito per scriverserlo da sé. Dopo aver proclamato per anni che «un editore è quasi sempre un voyeur, ama la letteratura ma soffre di impotenza », ha fatto eccezione con un libro di racconti e due romanzi: Una città come Bisanzio, L’amore freddo e La fiera navigante ( e sette anni fa il saggio Amare Platone , ovviamente tutti per Garzanti). Il critico più acuto di quegli anni, Grazia Cherchi, ha notato, di Una città come Bisanzio: «Un passeggiatore solitario che tiene un suo risentito diario… “Grandezza è ciò che voi non siete”, pare ribadire l’autore osservando i suoi simili con uno sguardo da entomologo sconfortato ma anche, suo malgrado, compartecipe ». E lo stesso Livio Garzanti, parlando del titolo a cui teneva di più: «Sono un uomo dai sentimenti gelidi. Ho scritto un libro che si chiama L’amore freddo : questo può far capire tante cose». E un po’ anche la sua grandezza singolare. Celebrata ieri anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «Ne ricordo il ruolo di rilievo nell’editoria italiana, fondato su una spiccata sensibilità letteraria. Sono vicino ai familiari, a tutti coloro che gli hanno voluto bene e al mondo della cultura che ne subiscono la perdita».

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NATALIA ASPESI, LA REPUBBLICA -
Scompare uno degli ultimi grandi nomi dell’editoria italiana, Livio Garzanti, ma la Garzanti, che lui aveva venduto vent’anni fa, c’è ancora, come l’Einaudi, la Bompiani, la Rizzoli, la Mondadori, che hanno mantenuto il nome del loro fondatore, pur essendo ormai accatastate in mano ai manager, per i quali il libro è solo un prodotto da vendere, ed è forse anche per questo che l’editoria è in crisi, e l’ultimo acquisto annunciato è quello della Rizzoli da parte della Mondadori. Quando Livio Garzanti era ancora gelidamente seduto alla sua scrivania, dando sempre del lei a tutti, il mestiere di editore voleva dire avere un’ideologia, un progetto culturale anche popolare, e Milano era il suo centro appassionato e vincente.
Garzanti, dice oggi chi l’ha conosciuto, nel suo mestiere era certamente il più colto, anche di Einaudi, anche di Bompiani, ma era anche molto bravo negli affari. Con l’editoria popolare dei gialli di Spillane, di Love Story di Segal e delle Garzantine, ma anche dei libri per le scuole non affidati ai professori, poteva permettersi di pubblicare le poesie di Caproni e di Penna, i romanzi di Pasolini e Volponi.
È anche vero che in quegli anni esisteva il cosiddetto lettore medio e colto, oggi quasi scomparso, che acquistava almeno una decina di libri al mese, e in libreria si affidava soprattutto al marchio editoriale. «Erano gli anni ‘60, e io mi fidavo solo di Einaudi, di Garzanti, di Feltrinelli, che mi permettevano scoperte», dice Piero Gelli, che poi per vent’anni divenne direttore editoriale della Garzanti, portando da Alberoni alla Montalcini, da Rushdie ai Gadda postumi, perché la sua governante ed erede lo aveva in simpatia. «Avevo con Livio un rapporto come quello con mio padre: paritario, anche se poi si fidava poco e mi tormentava, chiamandomi cardellino, “perché se lo accechi canta meglio”». Gli era molto difficile avere rapporti sociali, e a Milano, anche dopo aver sposato Gina Lagorio, la seconda moglie, continuò a vivere solo. Una volta espresse a Rosellina Archinto il desiderio di conoscere Leopoldo Pirelli, e dice lei «si piacquero, ma fu un disastro, perché tutti e due erano taciturni e portati al pessimismo, e non riuscirono a parlarsi».

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PAOLO DI STEFANO, CORRIERE DELLA SERA -
Era l’ultimo padre-padrone dell’editoria italiana. La sua generazione ha sfornato grandi patriarchi del libro, tutti (o quasi) pieni di genio. Giulio Einaudi era del 1912, Alberto Mondadori del 1914, Giangiacomo Feltrinelli e Vito Laterza erano del 1926. Livio Garzanti era del 1921, come Paolo Boringhieri. In poco più di un decennio sono venuti al mondo i pilastri della cultura del dopoguerra: all’estero quei signori erano invidiati e ammirati.
Garzanti è stato l’ultimo e uno dei maggiori, ma sempre un po’ in disparte, per civetteria amava dirsi «anomalo», con il suo carattere impossibile, poca mondanità, nessun giro politico e molto lavoro dietro le quinte. Non ha fondato la casa editrice, ma è come se l’avesse fatto. Nel 1936, suo padre Aldo, professore forlivese di lettere, aveva acquisito la Treves, trasferendosi a Milano. Il giovane Livio, laureato con una tesi su Kant, avrebbe voluto insegnare filosofia, e invece prima si occupa dell’«Illustrazione italiana» poi, nel 1952, si ritrova tra le mani il giocattolo intero, perché suo padre molla tutto per ritornare a Forlì. Nel giro di qualche anno, la Garzanti diventa una delle maggiori casa editrici italiane: «Sono arrivato in editoria — raccontava il vecchio Livio — da figlio di papà, ero un agnellino, non un enfant prodige , sono stato favorito dalla sorte…».
Nel 1955, su consiglio del grand gourmand della letteratura italiana, Attilio Bertolucci, suo mentore e consulente principe, Garzanti pubblica Ragazzi di vita di Pasolini. In realtà, quando gli capitano sotto gli occhi le bozze del romanzo, l’editore si rende conto dei rischi che correrebbe pubblicandolo tale e quale, dunque impone all’autore una pesante «autocensura»: gli consiglia di sfoltire le parolacce e di attenuare gli episodi più spinti. Pasolini gli obbedisce, accusando in privato l’editore «vergognosamente ingeneroso», in un mese perde 5 chili e invia a Garzanti il dattiloscritto «ripulito». Il che però non eviterà a entrambi un processo, contro il «carattere pornografico» dell’opera, promosso niente meno che dal governo di Antonio Segni.
Era l’anti-Einaudi, Livio Garzanti. Detestava sia l’eccessiva collegialità sia la militanza politica. Non amava i rapporti amichevoli sul lavoro, mai dare del tu a un autore, era troppo timido e troppo arrogante, un seduttore e un tiranno, capriccioso e pronto a scaricarti alla prima occasione, a sbeffeggiarti, a mandarti al diavolo senza ragione. Non per niente Goffredo Parise, che ne subì a lungo le nevrosi, gli fece un ritratto al vetriolo nel romanzo Il padrone , una sorta di favola kafkiana il cui protagonista è un despota che considera i dipendenti «suoi oggetti personali». Garzanti soffrì in silenzio: «Parise — ricordò — veniva spesso a pranzo da me per poi scrivere male di me…». Pasolini lo confortava, dicendo che Il padrone in realtà era una dichiarazione d’amore. Pierpaolo era amico di Garzanti, ma un amico «senza confidenze», anche con lui Livio non arrivò mai a darsi del tu. «Lei mi dà una merce e io la pago», gli diceva l’editore. Ruppero ogni rapporto perché Pasolini non approvò la pubblicazione di Alberto Bevilacqua, considerandolo uno scrittore di serie B. Cominciò così la corte a Pasolini da parte dell’Einaudi, e Garzanti avrebbe poi rifiutato fieramente di pubblicare l’«impubblicabile» postumo Petrolio .
Caratteraccio: parola che Garzanti considerava troppo gentile e per questo pensava di non meritarsela. Fatto sta che per tollerare le sue bizze bisognava avere l’equilibrio dei diplomatici, la pazienza di certi santi e una forte dose di ironia sdrammatizzante. Certamente ne sapeva qualcosa la scrittrice (e allora anche politica) Gina Lagorio, che Livio sposò nel 1973, dopo un primo matrimonio con Orietta Sala.
Non c’è dunque da meravigliarsi se in Garzanti i direttori di più lungo corso sono stati Piero Gelli e Gianandrea Piccioli. Il primo arrivò nell’inverno del ‘69 per studiare le carte di Gadda e fu assunto dall’editore nel giro di pochi giorni con il triplo dello stipendio che Gelli guadagnava come insegnante. Il secondo, Piccioli, sarebbe stato chiamato nel 1972 da Giovanni Raboni per scrivere le voci teatrali della Garzantina letteraria e poi entrare alla redazione di quell’impresa monumentale che fu l’ Enciclopedia . Perché non bisogna mai dimenticare che la più geniale innovazione di Livio Garzanti fu, dai primi anni Sessanta, il cantiere delle grandi opere: le Garzantine monotematiche, i dizionari, l’ Enciclopedia Europea , che richiesero una formidabile struttura redazionale interna. Dal ’73 la collana di tascabili Grandi libri comincerà a competere sul mercato con Oscar e Bur. Nei corridoi di via Senato in quegli anni circolavano — oltre a Bertolucci e Raboni — Del Buono, Manganelli, Arbasino, Soldati, Garboli, Tadini, Magris, Fofi, Bellocchio, Cherchi, Camon, il giovanissimo Cordelli.
E i poeti. Alla poesia Garzanti aveva aperto il suo catalogo con generosità. Mettendo su, complice Bertolucci ma anche Gina Lagorio, una doppia collana ambitissima, con i maggiori, da Mario Luzi a Giorgio Caproni, dallo stesso Pasolini a Vittorio Sereni, da Sandro Penna a Camillo Sbarbaro, da Giudici a Amelia Rosselli. Il meglio.
Certamente, Livio Garzanti era un uomo di gusti raffinati e di notevole cultura. Fu il primo editore del romanziere Paolo Volponi ( Memoriale è del 1962), con il quale vinse un premio Strega ( La macchina mondiale , 1965). Litigò con lui, fino a portarlo in tribunale, quando nel 1974 Volponi consegnò Corporale a Einaudi. Con l’Einaudi furono battaglie epiche: Livio cercò di soffiare allo Struzzo La storia della Morante, senza riuscirci. Il colpaccio avvenne nel 1984, quando strappò al nemico torinese, in crisi economica, niente meno che Italo Calvino. Fu Gelli a condurre la trattativa, ogni volta scontrandosi con i suoi umori variabili: «Non me ne frega niente di Calvino! — urlava — Non è neanche un mio autore, e poi non l’ho mai sentito al telefono!». Era irritato che Calvino non lo avesse mai chiamato, ma una cena al Toulà di Roma pose rimedio all’«offesa». Per non dire della battaglia per l’Ingegnere, Carlo Emilio Gadda, che distribuiva promesse editoriali a tutti, minacciando di tradirlo a ogni istante. E infatti lo tradì più volte. Ma il suo maggiore successo, il Pasticciaccio , del 1957, fu targato Garzanti. Anche per Beppe Fenoglio fu in perenne contesa con Einaudi. Erano guerre tra intenditori, evidentemente: oggi impensabili, visto che la qualità degli autori conta molto meno del loro valore di mercato. Bisognerebbe aggiungere gli stranieri, con scelte sussultorie e a volte contraddittorie, ma comunque spesso folgoranti e pionieristiche: due Faulkner, un Nabokov, un Canetti, Fleming, Capote, Mailer, Segal…
Ma qui si apre un altro capitolo conflittuale, quello tra Garzanti e il potente (anzi, unico) agente Eric Linder, che veniva accusato di boicottaggio e che lo accusava a sua volta di essere semplicemente un pazzo. Nel febbraio 1995, Livio Garzanti cedette la sua casa editrice alla Utet e si ritirò a leggere e a scrivere (aveva già scritto romanzi e racconti e poi avrebbe dato alle stampe un saggio su Platone). Pare che per molti anni il suo sogno ricorrente fosse l’incendio della casa editrice. E qualcuno ricorda che un giorno sì e l’altro no urlava: «Se trovassi qualcuno che desse fuoco alla Garzanti, gli darei un sacco di soldi!».


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CLAUDIO MAGRIS, CORRIERE DELLA SERA -
Un grande, grande protagonista di quell’editoria italiana ed europea che per decenni ha contribuito a creare una vera cultura, a ricostruire una civiltà sfasciata da guerre mondiali e immani distruzioni di uomini e dell’umano; una civiltà oggi nuovamente sconvolta, in un processo da cui può nascere tutto, nel bene e nel male. Livio Garzanti, l’editore di Gadda e di Pasolini e di tanti altri non meno grandi. L’editore di enciclopedie e di collane anche divulgative di alta qualità, ben consapevole — a differenza di altri — che la cultura di un Paese, di una società non è affidata solo a capolavori d’eccezione, ma anche e forse ancora di più a una buona qualità media, che contribuisce alla formazione di persone informate, consapevoli, responsabili, aliene da stupide pose aristocratiche e pronte all’autocritica. La sua Garzanti ha saputo unire la cultura alta a quella media.
Editore di capolavori e capitano pronto a ogni rischio. Assolutamente geniale e dubbioso del proprio genio, anche se caparbio nelle sue scelte, mai timoroso di ciò che esse potevano comportare. Il grande editore di un tempo, un uomo e non una società; autoritario nelle sue decisioni e pronto a gettarsi nell’avventura ma anche sensibile a suggerimenti e proposte indipendentemente da chi le facesse. Nevrotico, lunatico talora insopportabile nei suoi sfoghi e nelle sue sfuriate, ma incredibilmente capace di ritroso e timido affetto, di slanci umani. Potrei ricordare tanti momenti in cui mi è stato vicino con una comprensiva e discreta tenerezza che ho trovato assai raramente nel mondo del mio lavoro. Spesso ingiusto nelle sue ire e nei suoi scatti, ma — a differenza di molti potenti della terra e anche del libro, pronti a fare i gradassi e gli eccentrici con i deboli e accortamente diplomatici con i forti — egualmente affettuoso o aggressivamente iracondo con tutti, disposto a mandare a quel paese anche chi poteva nuocergli. Mi hanno raccontato che una volta, quando Gianni Agnelli visitando la casa editrice disse che gli piaceva e che forse magari l’avrebbe comprata, rispose che più facilmente avrebbe comprato lui la Fiat. Ha sbraitato anche con chi in quel momento non se lo meritava, peraltro rapido a ricredersi, ma non si è piegato né inchinato a nessuno. Rispettoso delle scelte dei suoi collaboratori anche quando non le condivideva; l’ho visto pubblicare lealmente libri di cui prevedeva l’insuccesso economico ma senza preoccuparsene. L’ho visto battersi per libri che sapeva non avrebbero avuto fortuna ma gli sembravano meritevoli. Incline a rischiare e mai a subire, neanche quando un suo grande autore se ne è andato perché contrario alla pubblicazione di un libro di un collega.
A Milano la Garzanti in via Senato era un centro di creatività, intelligenza, onestà, professionalità, dalle scelte editoriali alla mensa. Per quelle stanze è passata una grande cultura italiana ed europea, senza alcuna spocchia intellettualistica. È stato uno dei pochi a saper usare bene la fortuna economica della quale godeva, mentre altri ne sono stati travolti. C’era in lui un desiderio represso di affetto che talora, anche per colpa sua ma ingiustamente, non è stato ricambiato. Non credo sia stato felice, non credo abbia conosciuto quella felicità estiva di cui aveva scritto in un bellissimo libretto su Platone. Un grande. Si dice, in questi casi, che un pezzo di storia, un’epoca muore con lui. Non è vero, non credo che la morte — di persone, istituzioni, gusti, valori — abbia poi tanto potere.