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 2015  febbraio 16 Lunedì calendario

CINA, L’ASSEGNO IN GIALLO. DIECI MILIARDI SPESI PER CONTARE IN ITALIA

Negli ultimi cinque anni hanno investito in Italia oltre 10 miliardi. Hanno comprato aziende in vari settori, dalla meccanica alla moda, e sono diventati i nuovi signori del 2%, rastrellando partecipazioni in diverse società del Ftse-Mib, da Eni, Enel e Telecom a Mediobanca e Generali, attività di portafoglio nella quale ormai sono secondi solo dietro a BlackRock.
Solo pochi anni fa nessuno avrebbe immaginato un simile massiccio ingresso nel nostro paese dei capitali cinesi. E in effetti, secondo un’analisi realizzata da Kpmg, nel 2010 il paese asiatico ha realizzato in Italia 3 operazioni di acquisizione per un controvalore di 14 milioni; nel 2012 le operazioni sono state sempre 3 ma con un investimento di 210 milioni. Poi il boom: l’anno successivo gli interventi sono saliti a 5 ma la taglia è notevolmente cambiata perché l’investimento complessivo è salito a 3,2 miliardi. E nel 2014 il record: 13 operazioni per un controvalore di 4,9 miliardi.
Accelerazione
«Complessivamente l’anno scorso le acquisizioni cinesi hanno rappresentato il 27% dei controvalori dell’attività estero su Italia e il 12% dell’intero m&a nazionale», sottolinea Max Fiani, partner di Kpmg corporate finance e autore del report. «Fino a poco tempo fa l’interesse di Pechino era rivolto a piccole aziende industriali con tagli d’investimento difficilmente superiori ai 100 milioni. Negli ultimi anni hanno cominciato a muoversi operatori cinesi sempre più grandi, industriali e fondi sovrani, che hanno effettuato acquisti in precedenza “riservati” a mercati come Usa e Regno Unito».
Così per esempio risalgono al 2008 l’acquisizione del 70% di Idra Presse (8 milioni di valore) da parte di Lk technology holding, il 10% di Prima industrie (50 milioni) da parte di Han’s laser, il 100% di Cifa (511 milioni) operazione compiuta da Zoomlion. Dopo una breve parentesi, si ricomincia nel 2011, l’anno in cui Prada ha effettuato l’ipo da quasi 2 miliardi a Hong Kong e nel classico made in Italy Peter Woo (sempre di Hong Kong) rileva l’8% di Salvatore Ferragamo. L’anno dopo Shandong heavy industry compra il 75% di Ferretti per 178 milioni e la Car luxury entra nella De Tomaso. Il balzo ha luogo nel 2013 quando China national petroleum che rileva per 3,3 miliardi il 30% circa di Eni east Africa. Operazioni molte più piccole ma significative sono poi l’acquisto dell’1,8% di Brunello Cucinelli da parte della Sichuan Lessin department stores (9 milioni), e del 50% della Berloni da parte do HoCheng group per 10 milioni.
Si passa così all’anno scorso, che vede un salto di qualità nelle relazioni in politica e affari fra Italia e Cina con vertici, forum, accordi e investimenti. In luglio viene firmato a Palazzo Chigi il contratto con il quale la più grande utility elettrica del mondo, la State grid corporation of China, rileva per 2 miliardi il 35% di Cdp reti, che detiene il 30% di Snam e Terna. E in ottobre i premier italiano Matteo Renzi e cinese Li Kequiang sottoscrivono 20 accordi per 8 miliardi.
Industria e finanza
Così dall’estate China corporation dilaga. Shanghai electric versa 400 milioni per il 40% di Ansaldo energia al Fondo strategico italiano. Il gruppo Insigma in consorzio presenta offerte a Finmeccanica per Ansaldo Breda e Sts. Ma è in particolare la People’s bank of China, che ha in cassaforte 4 mila miliardi di dollari di riserve solo in valuta estera, che diventa il nuovo Mr 2% italiano, ruolo che nel passato ormai tramontato delle partecipazioni incrociate e dei patti di sindacato hanno ricoperto a vario titolo e in vario modo Mediobanca, Generali o Salvatore Ligresti. Bank of China rileva così circa il 2% di Eni, Enel, Fiat-Chrysler, Telecom Italia, Prysmian, Generali, Mediobanca e, nel gennaio 2015, di Saipem e Terna. Investe in tutto 3-4 miliardi. Che probabilmente rappresentano solo la quota «emersa» con le segnalazioni alla Consob. Zhou Xiaochuan, governatore della People’s Bank of China, ha detto di recente: «Continuiamo ad acquistare quote di imprese italiane, ma ora facciamo attenzione a restare sotto la soglia del 2%, così non siamo obbligati a renderlo noto», Inoltre, ha aggiunto, il portafoglio investimenti nel nostro Paese è costituito prevalentemente da titoli del debito pubblico. Si arriva così a un ammontare complessivo indicato vicino a 100 miliardi.
Un’attenzione crescente per l’Italia, dunque, testimoniata anche da scelte strategiche come quella compiuta dal gruppo di abbigliamento tecnico e professionale Jihua che, dopo aver acquistato piccole aziende decide di aprire il quartier generale internazionale nel nostro Paese. E da acquisizioni nel made in Italy come quelle realizzate da Shenzhen Marisfrolg fashion, che ha rilevato il 100% di Krizia fashion division, da Zhejiang precision machinery che si è aggiudicata l’80% della Machining centers manifacturing, e da Guandong Dongfang Pst che ha acquistato il 60% di Fosber.
Investimenti peraltro compiuti in un periodo meno favorevole per l’euro. E ora che la moneta unica si è svalutata nei confronti del dollaro è verosimile ritenere che l’interesse di Pechino possa crescere ulteriormente. «A maggior ragione dunque», dice Fiani, «è possibile che i capitali cinesi intendano cogliere la finestra di opportunità offerta dalle privatizzazioni».