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 2015  febbraio 16 Lunedì calendario

ARTICOLI SULLA SERIE A DAI GIORNALI DEL 16/2/2015


MARIO SCONCERTI, CORRIERE DELLA SERA -
L’Inter sta diventando squadra, cosa che non era quasi mai capitata in stagione. Mancini ha cambiato molto, ora ha trovato soprattutto la continuità di Guarin. Credo gli sia venuto naturale, Mancini aiuta molto i giocatori che hanno qualità ma non riescono a pensare da grandi. È la sua prima missione nelle grandi squadre. All’Inter lo sta aiutando molto Brozovic, il cui ordine ha marginalizzato Medel restituendogli la felicità muscolare del mediano. La crescita di Icardi come gol e quella di Shaqiri come personalità, sta ora facendo pensare come una grande squadra. Per questo Mancini insiste a dire che cerca il terzo posto, perché l’unico modo per tenere insieme una squadra che sta studiando è dargli un grande traguardo. Anche se quasi impossibile. Si allontana il Milan ma non era questa la giornata per giudicare. L’Empoli è una delle squadre più organizzate, il Milan è pieno di solisti, era chiaro che avrebbe sofferto molto, soprattutto giocando in casa. Destro comunque di gol ne segnerà tanti. La Juve conferma la sua fase confusa, è spesso messa sotto da un Cesena che corre molto e ha giovani attaccanti di avvenire. Ma è la Juve che manca come personalità. Cambia poco per la storia dello scudetto, ma i bianconeri sono stanchi quasi quanto la Roma. Ci stava vincere male una partita, non farsi riprendere e sbagliare il rigore (netto) decisivo. Manca Pirlo, manca Vidal, spesso è lezioso Pogba, resiste solo Marchisio, sbanda tutta la difesa a quattro. Una Juve anonima senza il suo uomo più importante, Tevez. Ma anche la Roma sembra esaurita e soprattutto incompleta. Garcia non ha mai avuto veri attaccanti. Ha avuto giocolieri magri e veloci, nessun centravanti. Questo alla fine sta facendo la differenza. Forse la Roma sta pagando a Totti un prezzo molto alto per la sua fedeltà. O forse è solo Totti che è arrivato sfinito a un passo dal traguardo. Ma sono mancati i suoi dieci gol per essere competitivi. La Fiorentina è quarta ma ha molti avversari, prima di tutto la Lazio. La Samp paga il suo spettacolo.

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GIANNI MURA, LA REPUBBLICA -
Giornata strana ma piuttosto istruttiva: la seconda in classifica riceve l’ultima, la prima va sul campo della penultima. Ne escono due pareggi, due partite non banali, a riprova che pure le squadre non metropolitane hanno il diritto di cittadinanza. Tanto Lotito e tutti i presidenti che la pensano come lui non cambieranno idea sui piani futuri. Contro, solo la Juve, e ieri Marotta ha detto la sua, la Roma e forse la Fiorentina. Ma questo è un altro discorso.
Il Cesena ha dimostrato che, aggredita in velocità, la Juve patisce parecchio. Non per colpa del campo sintetico ma sua, del suo atteggiamento da gita-premio, con marcature approssimative e molti palloni persi in disimpegno. Sembra che Bonucci e compagni abbiano bevuto un sonnifero, e tutto il Cesena la pozione dei druidi. A capire il rischio e a strillare forte sono Allegri e Buffon, che para due tiri a Defrel, uno a Ze Eduardo e al quarto Djuric, servito dal solito Defrel, lo infila. Il Cesena scotta la Juve ma non può tenere quei ritmi e arrostirla: li abbassa e la Juve colpisce, non una ma due volte. Poi commette il secondo errore: s’illude di poter gestire il gol di vantaggio. Ma non è serata, chi ha più esperienza doveva annusare l’aria. Il terzo errore genera il quarto. Allegri toglie Pogba e non Vidal (uno dei migliori, ma del Cesena). Vidal resta in campo e tira il rigore che s’è guadagnato Llorente. E lo tira fuori. Così la Juve butta via l’occasione di sospingere la Roma a -9, ma il pari è giusto. Il Cesena ha giocato con grande coraggio, Djuric pareva il fratello di Ibrahimovic, Defrel una freccia, ma troppi della Juve erano sbiadite controfigure, nella concentrazione e nella rapidità di movimenti.
La Roma ringrazia con un fil di voce e resta aggrappata all’ultimo vagone dell’ultimo treno su cui era balzata a Cagliari. All’Olimpico non fa che pareggiare, nemmeno il Parma è riuscito a battere. La verità l’ha detta Florenzi: prima facevamo paura, eravamo più convinti. Già, prima.
Delle più vicine per ora all’Europa League le più in salute sono Fiorentina e Lazio. Non era automatico, per Montella, dopo la cessione di Cuadrado. In aggiunta alla lunga assenza di Rossi, alla lunga latitanza di Gomez, in fase di riemersione, a una stagione normale ma non eccezionale di Borja Valero. Conta sempre di più Babacar (due gol e un assist di tacco) e Salah sembra un buon acquisto. Va dato atto alla Fiorentina di aver sempre provato a giocare il suo calcio anche nei momenti meno felici. Discorso valido pure per la Lazio, che a Udine esce da un rischioso avvitamento. Fischiata a furor di popolo furlano, anche se non era il caso. Sono le conseguenze della telefonata Lotito-Iodice ma, prima che i fischi diventino una moda domenicale, vorrei dire che un conto è una squadra di calcio, un conto il suo presidente. Vale per la Lazio e per tutte le altre. Ultimo esempio: il Parma. Non è da applaudire chi l’ha ridotto così, ma una squadra che non vede un euro da parecchi mesi e non rinuncia alla sua dignità, quella sì, con Donadoni, merita un applauso.
Altri applausi al Palermo e in particolare all’azione del terzo gol, uno dei più belli fin qui. La prima punta, Dybala, fa il lancio lungo. La seconda punta, Vazquez, rifinisce di testa. Il centrocampista di fatica, Rigoni, mette dentro al volo. La naturalezza del calcio di Dybala , l’apparente facilità con cui fa le cose più difficili mi porta a dire che già adesso è meglio di Cavani. Poi, può anche sbagliare un gol fatto, come con l’Inter. Come ieri Pinilla. Mancini non s’offenda, ma un pizzico di fortuna serve. Con Mazzarri in panca, mi sa che Dybala e Pinilla avrebbero segnato. Il resto è merito di Mancini. La costruzione non è ultimata, ma il Guarin di Bergamo (rigore procurato, due gol, un assist) è un altro giocatore. Da paracarro a colonna portante. Da limare qualche distrazione difensiva, l’Atalanta è rimasta in partita fino all’espulsione di Benalouane.
Se l’Inter comincia ad assomigliare a una squadra e non a un insieme di giocatori, il Milan no. Rimane una non squadra, un bizzarro assemblaggio, un progetto mai decollato. Sembra che la panchina di Inzaghi abbia i giorni contati. Non è tutta colpa sua, ripetiamolo pure, ma chi gli ha consegnato i rinforzi invernali(Paletta, Antonelli, Cerci, Destro) s’aspettava ben altro che vedere l’Empoli fare la voce grossa a San Siro e dire, alla fine, che il pari gli sta stretto. Nel doppio confronto con Verona e alle porte del derby genovese, Gasperini (5-2 al Verona) raggiunge a quota 35 Mihajlovic. E il Chievo (2-1) alla Samp raggiunge a quota 24 il Verona.

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GIGI GARANZINI, LA STAMPA -
Quasi come appagata dal flop pomeridiano della Roma, una Juve distratta e stranita ha giocato a Cesena la peggior partita del suo campionato prima andando sotto e poi, quel che è peggio, facendosi riprendere dopo la rimonta. Ha sprecato, è vero, il rigore della vittoria calciato addirittura fuori da Vidal. Ma non l’avrebbe meritata, avendo rischiato più di perdere che di vincere una partita che, pur in una serata palesemente storta, dopo il raddoppio di Marchisio aveva tutta l’aria della formalità.
D’altra parte la Roma, che già sapeva in cuor suo di dover difendere il secondo posto dal Napoli anziché pensare a rincorrere la Juve, si era arresa nel pomeriggio non riuscendo a battere nemmeno l’ultima della classe, già retrocessa e praticamente fallita. Ha avuto i suoi bravi guai, a cominciare dalla ricaduta di Strootman: ma non pochi altri se li è andati a cercare. Non contenta di aver investito (?) 15 milioni per Ibarbo, subito schierato e subito stirato in coppa Italia, ieri ha presentato al centro dell’attacco l’impresentabile Doumbia. Quando aveva in casa a costo zero sia il vice-Iturbe, che si chiama Verde, sia un centravanti vagamente più credibile di Doumbia, che si chiamava Destro. Pur giocando poco e male contro un dignitosissimo Parma, Florenzi e Ljajic qualche buon pallone dentro l’hanno messo: Destro almeno un paio li avrebbe certamente trasformati in gol, come ha fatto a San Siro con la maglia del Milan nell’unica occasione avuta.
Già, il Milan. I fischi finali di San Siro non sono stati meno sentiti di quelli dell’Olimpico. Come già all’andata a Empoli è finita in parità, in capo a un’altra lezione di calcio impartita da Sarri a Inzaghi. Con questa differenza. Che alla quarta giornata d’andata può capitare di dover soffrire sul campo di una provinciale che gioca a calcio: alla quarta di ritorno, sul proprio campo, no. E se questo da un lato certifica il secondo fallimento consecutivo di un progetto tecnico rossonero, tra l’altro assai più fragoroso di quello di Seedorf, dall’altro ribadisce che la linfa vitale del nostro calcio continua a scorrere in provincia, alla faccia dei Lotito e di chi si ostina a difenderli. A cominciare dall’incomprensibile Campedelli, che sta in serie A da 15 anni con una squadra non di provincia, ma di quartiere. Eppure anziché con il Carpi, o con l’Empoli, sta coi poteri forti, perché evidentemente non si sa mai.

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LAURA BANDINELLI, LA STAMPA -
Alessio Cerci si guarda intorno stranito perché non sa da che parte indirizzare un calcio di punizione, Paletta è circondato da fisioterapisti che vogliono fasciargli la gamba ma lui non ci pensa nemmeno a rientrare («Mister non me la sento»), per non parlare di Diego Lopez, già abbondantemente negli spogliatoi dopo il cartellino rosso ricevuto per aver toccato con la mano la palla fuori area. Il finale di Milan-Empoli fotografa alla perfezione il momento dei rossoneri: squadra costretta a giocare in otto tra infortunati ed espulsi (anche Bonaventura ha iniziato a toccarsi la spalla), indignazione sugli spalti (più di uno urla: «Inzaghi dimettiti») e grande confusione in campo. L’1-1 finale (prima Destro e poi Maccarone) viene quasi accolto con sollievo. Il motivo non riguarda tanto il risultato ma il fatto che cali il sipario su uno spettacolo deprimente.
In società la rassegnazione è dilagante. «Gira così» è il commento più gettonato, come a dire questo è il Milan, prendere o lasciare. Silvio Berlusconi a dire il vero sull’argomento è combattuto, il discorso verrà ripreso ancora una volta oggi ad Arcore nel pranzo con i figli, quello che invece vorrebbe la tifoseria eventualmente è rimandato a fine stagione. Malgrado sia il tecnico con la peggiore media punti nell’era Berlusconi (1,3 a partita contro l’1,36 di Tabarez), Inzaghi resta al proprio posto. Maurizio Sarri da ieri ha dei nuovi estimatori, non avrà quel physique du rôle che piace a Berlusconi, ma in questo momento possiede delle doti molto più importanti: sa far giocare bene la sua squadra, valorizza i giovani e soprattutto è riuscito nel ribaltamento dei ruoli, a San Siro di provinciale c’era solo il Milan.
Alibi insostenibili
Ecco perché suonano piuttosto imbarazzanti le scuse del tecnico rossonero che ha descritto gli avversari come un organico in procinto di vincere la Champions League: «Abbiamo cercato di pressarli alti ma palleggiano meglio della Juve». E ancora: «Una squadra che perde due partite nelle ultime quindici non puoi pensare di dominarla a San Siro». Il Milan, infatti, non ci ha provato nemmeno. Possesso palla inesistente, trame di gioco arrangiate, baricentro abbassato (De Jong quasi sulla linea dei difensori). L’unico raggio di sole è arrivato quando Mattia Destro ha illuso tutti segnando la rete dell’1-0. Ma predicare nel deserto diventa difficile anche per chi sembra avere le capacità di essere più incisivo degli altri. Evidentemente serve del tempo anche per capire come deve essere servito un vero attaccante.
Alex, frattura al naso
Inzaghi continua a cambiare formazione ma non sostituisce quasi mai Menez («Ho tanti infortunati e in queste condizioni è difficile far assorbire il nuovo sistema di gioco, e poi c’è un problema anche mentale»). La società si aspetta di vedere dei risultati dopo l’abbondante mercato invernale. Ma la fortuna continua a girare dalla parte sbagliata, Alex dopo soli 8 minuti si è fratturato il naso (oggi verrà operato), domenica contro il Cesena la difesa sarà ancora in emergenza perché Diego Lopez, Paletta e Mexes dovranno scontare la squalifica. E mentre Niang segna con la maglia del Genoa, Inzaghi per farsi coraggio continuava a vedere il bicchiere mezzo pieno: «Non ricordo grandi parate di Diego Lopez». Si salvi chi può.

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MASSIMO CAPUTI, IL MESSAGGERO -
Il calcio giocato e l’emotività dei risultati non possono e non debbono far dimenticare neanche per un istante la gravità della vicenda Lotito. Peccato sarebbe decisamente meglio discutere della crisi della Roma, delle prestazioni di Parma e Cesena, della reazione della Lazio o della risalita dell’Inter. In Italia accade spesso che, dopo lo scalpore e l’indignazione, tutto passi poi in cavalleria, con il pallone poi è un classico. Questa volta no, almeno dobbiamo augurarcelo. Il calcio è un patrimonio significativo di questo paese, in senso economico oltre che di sentimenti. Tutti dobbiamo sentirci coinvolti e parte in causa. Anche chi governa il paese, non può sottrarsi dal compito. Il rinnovamento e il cambiamento della nostra Italia passa anche da qui.
È bene mettere in chiaro che sarebbe un grave errore ritenere il presidente della Lazio l’unico male o il problema del calcio italiano. Il ruolo di Lotito è figlio di un sistema che non funziona. Il silenzio dei presidenti venerdì scorso e le dichiarazioni di Beretta, sono la prova che il male si annida nella Lega. Se Lotito ha ottenuto potere, se gli si permette di agire e pensare come il deus ex machina del calcio italiano, lo dobbiamo proprio ai suoi cari colleghi presidenti. Questi hanno solo badato, e continuano a farlo, ai propri interessi. Uniti in piccole o grandi coalizioni a secondo del proprio tornaconto, mai per il bene comune. Non deve quindi meravigliare che questo tipo di potere e il modo di esercitarlo si estendano dalla Lega anche in Federazione. Chi dissente e vuole sottrarsi dalla morsa di tutto questo deve uscire allo scoperto. Il silenzio è conferma di colpevolezza. Al momento si registrano le prese di posizione della Roma con Baldissoni, della Juventus con Marotta e della Fiorentina con Andrea Della Valle. Oggi la tanta attesa riunione di Lega Pro e a giorni l’indagine della procura Federale ci daranno le prime indicazioni sull’aria che tira. Il vento deve cambiare.

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GIUSEPPE DE BELLIS, IL GIORNALE -
Lotito ha perso. È successo ieri, mentre la Lazio vinceva a Udine. Controintuizione solo per chi non vuole capire: ha perso la sua teoria, quella espressa al telefono e intercettata, quella che ha fatto scoppiare un altro caos nel mondo del pallone, quella che dice che «con Carpi e Frosinone in A, il calcio chiude». Ha perso per colpa della Roma, del Milan e pure della Juve, ma dovrebbe accusare anche l’Inter, il Napoli e le altre presunte grandi. Se la Roma seconda in classifica pareggia in casa contro il Parma ultimo, penalizzato, tecnicamente fallito e praticamente retrocesso; se il Milan pareggia 1-1 contro l’Empoli che è esattamente come Carpi e Frosinone; se la Juve pareggia a Cesena; se l’Inter perde (come ha fatto tre settimane fa) col Sassuolo; se il Napoli con il Sassuolo pareggia in casa (è accaduto all’andata); se i punti di differenza tra i due mondi sono pochi. Se avviene tutto questo vuol dire che le piccole hanno diritto di stare dove sono.
Il problema sono le grandi, ricche e non provinciali che sono diventate mediocri. È di questo che si dovrebbe occupare il pallone italiano, del perché i modelli sostenibili da noi si possono fare solo in provincia spendendo poco e guadagnando poco. All’estero li fanno spendendo molto e guadagnando molto. Poi in campo però le grandi fanno le grandi: vincono. Se pareggiano o perdono diventano un caso. In Italia no. La Roma dice: «Non facciamo più paura». È la verità, ed è un problema per tutti.