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 2015  febbraio 15 Domenica calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - CHE FARE CON LA LIBIA REPUBBLICA.IT ROMA - I jihadisti dello Stato islamico avanzano alla conquista di Sirte, a sole "200-300 miglia marine da noi", e a bordo di una nave - salpata stamani da Tripoli e diretta in Sicilia - un centinaio di italiani presenti in Libia fugge dinanzi alla frantumazione di un Paese dentro al quale i terroristi dell’Is portano avanti, giorno dopo giorno, il proprio progetto di espansione

APPUNTI PER GAZZETTA - CHE FARE CON LA LIBIA REPUBBLICA.IT ROMA - I jihadisti dello Stato islamico avanzano alla conquista di Sirte, a sole "200-300 miglia marine da noi", e a bordo di una nave - salpata stamani da Tripoli e diretta in Sicilia - un centinaio di italiani presenti in Libia fugge dinanzi alla frantumazione di un Paese dentro al quale i terroristi dell’Is portano avanti, giorno dopo giorno, il proprio progetto di espansione. La mossa arriva all’indomani delle minacce lanciate dall’autoproclamato Califfato nei confronti del titolare degli Esteri Paolo Gentiloni, definito "ministro crociato". La Farnesina precisa però che "non si tratta di un’evacuazione" dal Paese che affaccia sul Mediterraneo - già teatro delle avventure imperiali fasciste - ma che "è in corso una delle preannunciate operazioni di alleggerimento dei connazionali presenti nel Paese". Una imbarcazione della Marina militare fa da scorta al rimpatrio mentre un Predator dell’Aeronautica (privo di pilota) monitora la situazione dall’alto. La nave con gli italiani farà sosta attorno alle 19 a Malta (per rifornirsi di carburante), quindi proseguirà alla volta di Augusta che sarà il porto italiano di destinazione. Secondo il Times of Malta, il ritorno a casa avviene a bordo di un catamarano Virtu Ferries - il San Gwann - affittato dal governo di Roma. Libia, l’assalto al campo petrolifero di Mabruk / mappa Navigazione per la galleria fotografica Contestualmente, l’ambasciata d’Italia a Tripoli ha sospeso oggi le sue attività. Il personale è stato temporaneamente rimpatriato via mare. I servizi essenziali saranno comunque assicurati. A tal proposito, Gentiloni annuncia: "Il peggioramento della situazione richiede ora un impegno straordinario e una maggiore assunzione di responsabilità, secondo linee che il governo discuterà in parlamento a partire dal prossimo giovedì 19 febbraio. L’Italia promuove questo impegno politico straordinario ed è pronta a fare la sua parte in Libia nel quadro delle decisioni dell’Onu". È dal primo febbraio scorso che, con un warning particolare pubblicato sul sito www.viaggiaresicuri, la Farnesina ha "ribadito il pressante invito ai connazionali a non recarsi in Libia e a quelli tuttora presenti a lasciare temporaneamente il Paese", a fronte del "progressivo deterioramento della situazione di sicurezza". Nell’avviso - tuttora valido - pubblicato a seguito dell’attacco terrorista del 27 gennaio scorso all’Hotel Corinthia con numerose vittime, tra cui sei cittadini stranieri, la Farnesina evidenzia, tra l’altro, come "in tutta la Cirenaica la situazione di sicurezza è progressivamente deteriorata ed è pertanto assolutamente sconsigliata la presenza di connazionali dovunque e con particolare riguardo alla città di Derna". Tripoli, attacco dell’Is all’hotel dei diplomatici A rischio, si sottolinea, anche le situazioni a Bengasi e nell’area urbana di Tripoli, le due principali città del Paese, dove la Farnesina ricorda "un sensibile innalzamento della tensione anche all’interno dei centri urbani", che può coinvolgere quindi anche i cittadini stranieri. In generale, si rileva che il quadro generale è "minato da fattori di diversa matrice". Dalla caduta di Gheddafi, la Libia è in preda a fazioni e milizie armate che si fronteggiano rendendo la situazione ingovernabile. Il caos diventa terreno fertile per le azioni "terroristiche" che fanno leva "sulla perdurante impossibilità per le forze dell’ordine di garantire un effettivo controllo del territorio". Libia, Renzi: "Serve leadership Onu per azione più forte" Condividi Circolano con insistenza sui media libici, ad esempio, informazioni secondo le quali il presidente del parlamento libico, quello riconosciuto dalla comunità internazionale a Tobruk, abbia nominato ’comandante generale delle Forze armate libiche e ministro della Difesa’ l’ex generale di Gheddafi Khalifa Haftar oggi fedele al governo ’ufficiale’. Ma il vicepresidente della commissione Difesa e sicurezza nazionale del parlamento, Mosab Al-Abed, ha smentito l’informazione. Ve detto, però, che ci sarebbe anche chi, pur di far fronte comune contro la crescente minaccia dell’Is, è disposto a mettere da parte le divisioni con gli islamisti e quindi a trattare con il ’diavolo’. E’ Omar al-Zanki, ministro dell’Interno - ufficialmente sospeso dal premier Abdullah al Thinni perché ha criticato Haftar - ma che continua a comandare le forze di polizia del governo internazionalmente riconosciuto di Beida, legato al parlamento di Tobruk. Per Zanki i due governi e parlamenti rivali potrebbero unire il Paese nella lotta comune contro Is. "Abbiamo avuto contatti con (esponenti) della regione occidentale (la Tripolitania controllata dagli islamisti, ndr) e in particolare con (le brigate di) Misurata, sulla grande minaccia dello Stato Islamico", ha detto Zanki, riferendosi alle forze che insieme alla cosiddetta coalizione dell’Alba Libica (Fajir), controllano la Capitale e tutta la regione. Zanki, secondo il quale gli uomini che hanno giurato fedeltà al ’califfo’ Abu Bakr al Baghdadi sarebbero almeno 1.000 a Sirte, ritiene che anche a Tripoli si sta arrivando a capire che non è possibile ignorare oltre la minaccia. Ora è sulle intenzioni del governo italiano che ruotano il dibattito e le preoccupazioni politiche. Intervistata dal Messaggero, il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha fatto sapere: "L’Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord, per fermare l’avanzata del Califfato che è arrivato a 350 chilometri dalle nostre coste. Se in Afghanistan abbiamo mandato fino a 5mila uomini, in un paese come la Libia che ci riguarda molto più da vicino e in cui il rischio di deterioramento è molto più preoccupante per l’Italia, la nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente", ha detto. "Ne discutiamo da mesi, ma ora l’intervento è diventato urgente" precisando che "ogni decisione e passaggio verrà fatto in parlamento. Giovedì il ministro Gentiloni fornirà informazioni e valutazioni". Poi su Twitter la Pinotti esterna i propri timori. Ma sulle affermazioni del titolare della Farnesina si concentra il commento polemico di Renato Brunetta, capogruppo dei deputati di Forza Italia: "Il nostro ministro degli Esteri venga in parlamento anziché rilasciare dichiarazioni alla stampa - ha affermato all’Intervista di Maria Latella su Sky Tg 24 -. Sono degli irresponsabili. Renzi, il ministro degli Esteri e il ministro della Difesa dicono che l’Italia farà un intervento di terra in Libia senza avere il mandato del parlamento, questi sono pazzi". Alcune ore dopo, però, è il leader di Fi, Silvio Berlusconi, a schierarsi con l’esecutivo e a dichiarare con tutt’altri toni: "Accogliamo con favore l’intento del governo di non abdicare alle responsabilità che ci derivano dal ruolo che il nostro Paese deve avere nel Mediterraneo. Un intervento di forze militari internazionali, sebbene ultima risorsa, deve essere oggi un’opzione da prendere in seria considerazione per ristabilire ordine e pace". Di contro, il M5s interviene per opporsi "a qualsiasi intervento militare in Libia. Ai ministri Pinotti e Gentiloni - dicono Alessandro Di Battista e Carlo Sibilia del direttorio -, che oggi hanno annunciato per mezzo stampa un intervento militare scavalcando nuovamente il parlamento, suggeriamo di venire a riferire in aula prima di assumere decisioni dal carattere unilaterale e in violazione dei principi costituzionali. Per il M5s la sicurezza dei cittadini italiani rappresenta un’assoluta priorità, ma credere di poter trovare una soluzione pacifica alla questione libica scandendo, come accaduto nel 2011, nuovi attacchi e mietendo migliaia di vittime innocenti, è una posizione che rasenta la follia". Intanto 10 barconi carichi di migranti , provenienti dalla Libia, sono stati segnalati a sud di Lampedusa. Su di essi stanno convergendo i soccorsi, coordinati dalla centrale operativa della Guardia costiera. Su Facebook è il segretario della Lega, Matteo Salvini, a scrivere: "Fosse per me li aiuterei, li curerei e darei loro cibo e bevande. Li soccorrerei ma li terrei al largo e non li farei sbarcare. Ne abbiamo abbastanza". REPUBBLICA.IT Sono undici, tra gommoni e barconi, le imbarcazioni con a bordo migranti di cui è in corso da questa mattina il salvataggio a oltre 100 miglia a sud di Lampedusa. I soccorsi vengono coordinati dal centro nazionale di soccorso della Guardia Costiera di Roma. E Salvini spara a zero: "Fosse per me li aiuterei, li curerei e darei loro cibo e bevande. Li soccorrerei ma li terrei al largo e non li farei sbarcare. Ne abbiamo abbastanza", dice il leader della Lega Nord su Facebook e su Twitter parlando di dodici barconi. Durante un’operazione di salvataggio alcuni uomini armati su un barchino hanno minacciato una motovedetta della Guardia costiera che stava soccorrendo un’imbarcazione con migranti a bordo, a circa 50 miglia da Tripoli. Gli uomini armati hanno intimato agli italiani di lasciare loro l’imbarcazione dopo il trasbordo dei migranti. E così è avvenuto. Il fatto sarebbe avvenuto tra le 15 e le 16 di questo pomeriggio. La motovedetta della Guardia costiera, una volta terminato il soccorso dei migranti, ha lasciato in mare l’imbarcazione usata dagli scafisti, che è finita quindi nelle mani degli uomini armati a bordo del barchino. Probabilmente, verrà usata per nuovi viaggi verso l’Italia. Il personale della Guardia Costiera a bordo delle motovedette che fanno operazioni di ricerca e soccorso nel canale di Sicilia non è armato. Continuano dunque le partenze dei barconi carichi di migranti dalla Libia. In mattinata si è concluso il soccorso di un altro gommone, dopo i sei di ieri, a qualche decina di miglia dalle coste del Paese nordafricano. I migranti sono stati presi a bordo da un rimorchiatore che era stato dirottato nella zona. Alcune operazioni di oggi si sono già concluse e in particolare 43 migranti su un gommone sono stati soccorsi dall’Asso30, 95 persone su un gommone e altre 94 su un altro gommone sono state soccorse dal mercantile Sestri Star. Infine 96 migranti, che erano a bordo di un quarto gommone, sono state soccorse da un pattugliatore della Guardia di Finanza. A bordo delle imbarcazioni si stima ci siano in totale oltre mille migranti. Per i soccorsi vengono impiegati un velivolo Atr42, tre motovedette e la nave Fiorillo della Guardia Costiera, alcuni mercantili dirottati dalla centrale operativa, tra cui il Sestri Star, il Gaz Concord, il Bee, il Super Lady e due rimorchiatori l’Asso 30 e l’Amal, due pattugliatori della Gdf, un pattugliatore maltese e la nave Orione della Marina Militare. A Pozzallo, nel Ragusano, sono sbarcati 280 migranti soccorsi ieri nel Canale di Sicilia. Tra loro un giovane centroafricano che ha sul corpo i segni di una ferita di arma da fuoco. La polizia lo ha subito interrogato. Secondo una prima ricostruzione, contro di lui sono stati sparati colpi dai trafficanti che volevano costringerlo a salire sul gommone in partenza dalle coste della Libia. Tra i migranti sbarcati, tutti subsahariani, c’è un altro ferito: ha una frattura di due falangi di un dito della mano. I due feriti sono stati ricoverati in ospedale a Modica. Le loro condizioni sono stabili e non destano preoccupazioni. REPUBBLICA.IT La Corte di Assise di Agrigento ha condannato a 30 anni il trafficante somalo accusato di essere tra gli organizzatori della traversata di immigrati finita nel tragico naufragio dell’ottobre 2013 davanti alle coste di Lampedusa e nella morte di 366 persone. Una tragedia dell’immigrazione che si legherebbe secondo gli investigatori a quella avvenuta pochi giorni fa, che ha coinvolto tre (forse quattro) gommoni sui quali sarebbero state imbarcate 460 persone, delle quali se ne sono salvate appena 85. Su questo ultimo episodio la Dda di Palermo ha aperto un’inchiesta per scoprire se la banda che ha gestito la tratta dei migranti partiti dalla Libia e giunti l’altro giorno a Lampedusa è la stessa che mise in mare i profughi naufragati a Lampedusa a ottobre 2013. Durante l’ultimo viaggio su cui indagano i pm, sarebbero morte 330 persone - 29 per assideramento e più di 300, tra cui molti bambini, nel corso della traversata resa proibitiva dal mare forza 8. Solo 85 dei migranti salpati si sono salvati. FABRIZIO CACCIA SUL CORRIERE DI STAMATTINA ROMA Quattro mesi fa, sulla rivista online del Califfato, «Dabiq», apparve in copertina il fotomontaggio con la bandiera nera dell’Isis che sventolava su Piazza San Pietro. L’immagine destò scalpore. Ieri, però, la minaccia jihadista contro l’Italia si è fatta assai più concreta. La radio ufficiale dello Stato Islamico, «al Bayan», che trasmette dalla roccaforte Mosul, nel nord dell’Iraq, ha citato infatti per la prima volta direttamente il nostro Paese, riportando le dichiarazioni del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sulla Libia e definendolo «il ministro degli Esteri dell’Italia crociata». In un’intervista a SkyTg24, il ministro Gentiloni due giorni fa aveva annunciato che l’Italia è pronta a «combattere in Libia in un quadro di legalità internazionale» dopo che anche Sirte è caduta sotto l’avanzata dell’Isis. «Non possiamo accettare l’idea che a poche miglia di navigazione ci sia una minaccia terroristica», aveva detto Gentiloni. L’Italia, dunque, da ieri è entrata ufficialmente nella lista nera dei nemici dello Stato Islamico ed è per questo che subito, intorno a Gentiloni, il governo italiano ha fatto quadrato. «Noi abbiamo detto all’Europa e alla comunità internazionale che è ora di farla finita di dormire — ha chiarito il premier Matteo Renzi al Tg1 — . Non è che siccome siamo i più vicini alla Libia, tutti i problemi possono essere lasciati a noi. Ci vuole una missione Onu. E l’Italia è pronta, dentro una missione Onu, a fare la sua parte. Noi non partiamo da soli». Anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti — via Twitter — ha manifestato a Gentiloni «vicinanza e sostegno». «Il pensiero che lui ha espresso è quello di tutto il Governo», ha voluto puntualizzare la Pinotti. E lo stesso ha fatto Angelino Alfano, il ministro dell’Interno, parlando con RaiNews24: «Gentiloni ha riaffermato le nostre intenzioni sul tema della Libia» che resta «la nostra priorità» ed è necessario per questo che «la comunità internazionale spenga l’incendio». Intanto, però, la minaccia di ieri ha fatto salire il livello d’attenzione: «Abbiamo un monitoraggio costante di tutti i possibili rischi. L’allerta rimane elevatissima — ha concluso Alfano — Abbiamo riunioni continue tra i nostri migliori uomini dell’intelligence e delle forze dell’ordine per arrivare a fare previsioni il più possibile affidabili. Ma è chiaro che nessuno Stato, nessun Paese è a rischio zero...». Solidarietà al ministro degli Esteri è arrivata pure dall’opposizione. L’altoatesino Alessandro Bertoldi, consigliere nazionale di Forza Italia, ha deciso di lanciare sui social network perfino l’hashtag #JesuisGentiloni in segno di appoggio. La portavoce dei deputati azzurri, Mara Carfagna, invoca invece sul suo blog un intervento dello stesso Renzi in Parlamento «per spiegare cosa sta succedendo alle porte di casa nostra e qual è la strada che s’intende adottare». Il presidente della commissione Difesa della Camera, Elio Vito, dà appuntamento infine al 19 febbraio: «Gentiloni va a dire in tv ciò che avrebbe dovuto dire prima in Parlamento. Comunque sia, giovedì a Montecitorio, c’è un dibattito sulla politica estera che avevamo chiesto da tempo. Ascolteremo il ministro che illustrerà la linea del governo e poi faremo le valutazioni di merito». Fabrizio Caccia GUIDO OLIMPIO SUL CORRIERE DI STAMATTINA WASHINGTON Minacce e fatti. Il movimento che agita la bandiera nera ci punta: «Paolo Gentiloni è il ministro dell’Italia crociata», ammonisce al Bayan, radio di Mosul, la capitale irachena dell’Isis. Il messaggio tornerà ancora in quanto rientra nel manifesto scritto dal Califfo e seguito da militanti libici. In questi mesi hanno ucciso centinaia di persone, vittime passate quasi sotto silenzio, ma sanno bene che la loro popolarità dipende molto dai nemici che si scelgono. Per questo evocano la «conquista di Roma», usano simboli come il Vaticano e la Torre Eiffel. Strategia di comunicazione combinata ad azioni violente, raffiche di mitragliatrice per ribadire il segnale di guerra. Ecco allora la propaganda intensa, i toni forti nella ricerca di nuovi avversari, le teste da far rotolare. Tutto con i tempi veloci e i metodi brutali dell’Isis. I jihadisti, sotto varie etichette, sono attivi in Libia da tempo. C’è chi ha raccolto l’eredità del vecchio «Gruppo islamico combattente libico», chi riconosce ancora il valore della Fratellanza (con i suoi sponsor esterni, dal Qatar alla Turchia) e chi ha preferito scavalcarlo creando fazioni nuove, come Ansar al Sharia. Poi i nuovi capi, come Abu Sufian bin Qumu, ex prigioniero di Guantanamo e oggi esponente radicale a Derna. O gli «anziani»: i liberati dalle prigioni di Gheddafi, i guerriglieri del conflitto iracheno. In coda gli indecisi, pronti a saltare sul carro vincente. Il vuoto caotico della rivolta anti-Gheddafi, il moltiplicarsi delle milizie arroccate attorno alle loro città, ha lasciato grande spazio e le correnti estreme hanno preso il sopravvento, ampliando la propria presenza nell’Est. A ottobre il Consiglio islamico giovanile di Derna ha dichiarato la propria fedeltà al Califfo, ovvero il leader Isis al Baghdadi, e lui ha risposto riconoscendo la nuova «provincia» — Wilayat —, includendo nei confini Cirenaica, Fezzan e Tripolitania. Un passo importante quanto formale. Un annuncio che ha aperto nuovi orizzonti: anche chi non è parte, ora può essere tentato ad unirsi alla fazione. L’opportunismo del momento unito all’attrazione rappresentata dall’Isis rischiano di coinvolgere nuovi gruppi. Si levano il «cappello» e indossano la maschera nera. L’eliminazione di un emiro può indurre i mujaheddin a cercare nuovi punti di riferimento. Per molti il Wilayat è diventata la terza branca nord africana del movimento siro-iracheno insieme al nucleo algerino Jund al Khalifa — responsabile della morte di un ostaggio francese — e agli egiziani di Beit al Makdes, ormai feroci tagliagole. Applicando quanto spiegato dagli ideologi Isis sul web e nella documentazione interna, gli islamisti hanno cercato di «consolidare» il territorio per poi conquistarne altro. Si parte dal basso, come è avvenuto a Raqqa e Mosul. I filo-Isis hanno introdotto regole di vita ferree a Barqa, hanno distrutto montagne di sigarette e alcolici, hanno amministrato la giustizia islamica con la consueta severità. Iniziative sempre rilanciate su Internet o altri canali per dimostrare di essere in pieno controllo. Nel contempo i militanti hanno intensificato le operazioni militari contro i soldati del generale Haftar e la forza Sawhat (Risveglio). Fonti americane hanno segnalato la presenza di campi d’addestramento nella parte orientale del paese. Covi sorvegliati dai droni Usa dove agirebbero dei veterani dei conflitti in Siria e nel Mali. Movimenti in parallelo a quelli nel Sud, lungo le piste desertiche che portano fino al Passo di Salvador, in Niger, attraversato dai nuovi carovanieri su pick up pieni di tutto, armi comprese, e qaedisti. È allora facile comprendere perché la propaganda del Califfo definisca la Libia come «la porta strategica» sul Mediterraneo. Dietro questo varco c’è l’Italia. ROBERTO COSTANTINI SUL CORRIERE DI STAMATTINA Misurata dista circa 250 chilometri da Sirte, andando lungo il golfo della Sirte verso Tripoli. Venerdì a Sirte sventolavano i vessilli nero cerchiati dell’Isis e i miei amici non si sono mossi da casa. A Misurata la gente approfittava della giornata festiva per affollare le moschee e i bar sul lungomare dove si fuma la shisha . Quindi la distanza reale sembra inadeguata, come se un continente intero separasse le due città. È stato così da sempre. Quasi un secolo fa i colonizzatori italiani conquistarono Misurata abbastanza facilmente. Ma per conquistare Sirte e la Cirenaica dovettero passare dalla semplice determinazione all’assoluta crudeltà. Mezzo secolo fa, con i miei amici, andavamo all’alba a Misurata per la mattanza nella tonnara. Ma la sera ci spostavamo a Sirte per mangiare carne alla brace nel deserto. Perché Misurata sin da allora era commercio, mare, vita. E Sirte era pastorizia, agricoltura, silenzio. E a metà della guerra civile del 2011 Misurata fu la città più ribelle e Sirte quella più leale a Gheddafi. I miei amici di Misurata dicono che i vessilli nero cerchiati dell’Isis non sventoleranno mai sui loro minareti e sul loro Municipio. Credo non lo dicano in virtù di una forza di resistenza militare troppo frammentata per essere reale ma per il convincimento fortissimo che l’Isis può arrivare ma non attecchire dove è forte lo spirito individuale, dal piccolo bottegaio all’imprenditore peschiero, il desiderio di viaggiare, l’accettazione della diversità multiculturale. In una parola sola, dove la libertà è un valore imprescindibile. Ecco, credo che qualunque cosa l’Occidente debba o voglia fare bisogna partire da quello spirito e da quella città. Intervenire prima che quello spirito possa essere sepolto per altri 40 anni come ha fatto il Colonnello. Perché tra l’altro Gheddafi era un dittatore che inizialmente aveva coltivato la fantasia di poter esportare il terrore trasformando i soldi del petrolio in bombe, ma non aveva seguaci pronti a seguirlo per un ideale, solo per danaro. Così si era reso conto che era meglio lasciar perdere e badare agli interessi della sua numerosa famiglia. Con l’Isis i seguaci già ci sono e i soldi del petrolio libico potrebbero solo moltiplicarne la potenzialità. Ho rifatto ai miei amici la vecchia domanda, quella che faccio loro ogni tanto da quando è caduto Gheddafi: meglio così? Rimpiangete il Colonnello? A Misurata, come sempre, nessuna esitazione, nessuno rimpiange Gheddafi. A Sirte mi sono sentito rispondere come allora: «Lui era diventato pazzo, ma altri pazzi arriveranno». Bene, ora è il momento. Ora o mai più. Termini aborriti dalla diplomazia. Eppure è così. Un secolo fa andammo per prenderci una terra che non era nostra. Quasi mezzo secolo fa abbiamo lasciato che un dittatore prendesse in mano la Libia e ci abbiamo fatto tanti begli affari, alcuni particolarmente vantaggiosi. Poi nel 2011 abbiamo esitato da bravi italiani, in attesa di capire se schierarci col Colonnello e coi ribelli, salvo poi bombardarlo dopo avergli baciato la mano pochi mesi prima. È ora per l’Italia di tornare dove forse non sarebbe mai voluta tornare. Questa volta non per prendersi qualcosa ma nello spirito della libertà di Misurata. Ed è il tempo di farlo non in coda agli altri, come nel 2011. Ma in prima fila, trainando anche gli indecisi, senza nascondersi dietro l’incertezza del dopo per procrastinare. Perché se lasceremo tempo all’Isis di colmare i 250 chilometri che separano Sirte da Misurata, poi tutto sarà terribilmente più difficile. FRANCESCA PACI SULLA STAMPA DI STAMATTINA Se i raid alleati hanno un po’ rallentato l’avanzata dello Stato Islamico in Siria, la Libia si sta sgretolando sotto la pressione dei luogotenenti diretti o indiretti di Al Baghdadi che ieri hanno preso il controllo di gran parte di Sirte, località strategica sulla via per Tripoli nonché patria dell’ex dittatore Gheddafi. L’offensiva a ovest lanciata dalla Cirenaica, dove da mesi legifera il Califfato di Derna, pare inarrestabile: dopo aver occupato la tv e la radio di Sirte sostituendo la musica con il Corano, gli jihadisti si sono installati negli edifici governativi, hanno bloccato la polizia e sono scesi in strada a annunciare la prossima tappa, Misurata, la terza città del Paese distante appena 250 km. Gli uomini neri che servendosi dell’iconografia dei tagliagola di Raqqa hanno offerto all’Is l’esecuzione di 21 copti egiziani, sono da settimane in azione anche al confine tunisino. La comunità internazionale è in fibrillazione. L’ipotesi dell’intervento studiata da mesi al Cairo (e ad Algeri) si va materializzando alla luce dell’incapacità reattiva della Libia spaccata tra il governo filo Fratelli Musulmani di Tripoli e quello in esilio di Tobruk. Sullo sfondo le nubi di una grave crisi alimentare con le riserve di grano sufficienti per altri 3 tre mesi e l’export di petrolio calato a 200 mila barili al giorno, un quinto del 2013 (ieri tra l’altro è stato attaccato l’oleodotto di al-Sarir, nel sud, e si è interrotto il flusso di greggio verso Tobruk). Affiliazioni in massa «L’Italia è in prima linea nella lotta al terrorismo, una battaglia che va fatta anche in Libia dove, in una cornice Onu, non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità» ribadisce il ministro degli esteri Paolo Gentiloni, dopo che la radio dello Stato Islamico al Bayan l’ha messo nel mirino definendolo «ministro dell’Italia crociata» per le sue dichiarazioni in favore di un’azione internazionale in Libia. Il problema è che l’intervento, per quanto percepito globalmente come necessario è un’incognita incandescente. Dalla fine di Gheddafi il Paese sconta l’eredità del Colonnello annaspando tra le spinte contrastanti delle milizie che rifiutano il disarmo, le potenti tribù locali, i partiti islamici (raccolti intorno ai Fratelli Musulmani locali) e le forze più liberal (oggi schierate con il generale Haftar). Nel caos anarchico si sono fatti facilmente spazio gruppi fondamentalisti come Ansar al Sharia, nato sulla scia della rivoluzione del 2011, responsabile dell’assalto al consolato Usa di Bengasi nel 2012 e di quello del 27 gennaio scorso all’hotel Corinthia di Tripoli e oggi affiliato allo Stato Islamico. «Armate il nostro esercito» «Nel 2011 applaudimmo l’intervento Nato perché sentivamo che Gheddafi avrebbe disintegrato il Paese ma oggi nessuno vuole i raid sul modello siriano, vorremmo piuttosto che l’occidente armasse il nostro esercito per metterlo in condizione di combattere i terroristi» dice da Bengasi l’architetto e blogger Mutaz Gedalla. La Libia brucia ma il fuoco non si spegne nel Mediterraneo. Anzi.