Mattia Feltri, La Stampa 15/2/2015, 15 febbraio 2015
Il dubbio che si trattasse di parlamentarismo discinto era venuto qualche mese fa al Senato, al lampeggiare di sguardi fra Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, relatori della legge di riforma costituzionale
Il dubbio che si trattasse di parlamentarismo discinto era venuto qualche mese fa al Senato, al lampeggiare di sguardi fra Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, relatori della legge di riforma costituzionale. In verità seguivano i percorsi armonici di un affetto sorprendente per loro stessi, lei siciliana lui bergamasco, lei ex comunista lui leghista, lei rigorosa di linguaggio lui sboccato e provocatorio. «Donna capace e dolcissima», ha detto lui di lei in giorni di intese morbide e silenziose mentre tutto attorno era Sodoma. Si ricorderanno quelle settimane di mezzi aventini e veri canguri e ostruzionismi, così simili ai cataclismi di oggi, quando i cinque stelle battevano le mani sui banchi per sostenere il ribellismo di Augusto Minzolini, non più direttorissimo berlusconiano del Tg1 - cioè la statua equestre della casta - ma l’alleato più inatteso. E si andò avanti per giorni, a registrare unioni contro natura consumate nei corridoi, i postcomunisti di Sel ad affinare strategie coi berlusconiani dissidenti di rito fittiano, i cinque stelle a studiare trabocchetti coi leghisti, la minoranza del Pd che si concedeva qua e là, e il sommo sacerdote era il senatore Vincenzo D’Anna, casertano, ex della Dc, poi con Forza Italia, infine oppositore del patto del Nazareno per mezzo di funambolica oratoria, che i grillini applaudivano sulla fiducia, e che scatenava entusiasmi senza logica geometrica: gruppetti a destra, drappelli a sinistra, manipoli al centro. Niente più torna. Le ovvietà della prima e seconda Repubblica - il pentapartito, i fascisti all’opposizione, i comunisti quasi, e poi le coalizioni stabilite prima del voto, destra e sinistra, anche se regolarmente tradite per mezzo di un solo, piccolo e decisivo ribaltone - sono sfumate in pochi mesi e senza preavviso. Due settimane fa eravamo arrivati a tre maggioranze da scegliere alla carta, quella di governo (Pd più centristi), quella delle riforme (Pd più centristi più Forza Italia) e infine quella del Quirinale (Pd più centristi più Sel), che già danno l’idea dello scambismo che regola i rapporti politici. E la maggioranza che aveva condotto all’elezione di Sergio Mattarella s’è sciolta com’era venuta, di punto in bianco, e a schiaffi e pugni come fra amanti fedifraghi. Forza Italia aveva già lasciato la maggioranza delle riforme, e si era separata la coppia più scandalosa dopo un anno di amore combinato. Per cui, stando alle ultime dichiarazioni sul tema, il capogruppo forzista al Senato, Paolo Romani, sarebbe ancora alleato con Matteo Renzi mentre il capogruppo forzista alla Camera, Renato Brunetta, è ufficialmente alleato con Pippo Civati, anche se gli eventi porteranno Romani ad allearsi con Grillo, che suo malgrado è già alleato con Brunetta. Per molto meno, le Olgettine si erano guadagnate titoli irrimediabili. Ma sarà la foto di una conferenza stampa di venerdì a Montecitorio - Brunetta insieme col capogruppo di Sel, Arturo Scotto, quello della Lega, Massimiliano Fedriga, quello di F.lli d’Italia, Fabio Rampelli, più Barbara Saltamartini in rappresentanza della minoranza del misto (perdonate l’orrore dell’espressione, non è colpa nostra) - che rischierà di diventare il manifesto della legislatura più orgiastica della storia. Al sestetto, infatti, vanno aggiunti gli ex grillini che hanno messo in piedi Alternativa Libera, e anche i cinque stelle d’osservanza, che non si fanno vedere per conservare una rispettabilità; l’alleanza dell’Aventino vede ora assieme la destra più destra e la sinistra più sinistra, la politica più politica e l’antipolitica più antipolitica, il centralismo più centralista e il localismo più localista, tutti uno sopra l’altro, avvinghiati per una notte o forse due.