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 2015  febbraio 14 Sabato calendario

TUTTI I RISCHI DELLA STRATEGIA DEL PLEBISCITO

Riformare la Costituzione come se si trattasse di convertire un decreto legge entro 60 giorni. Si può fare, non è illegittimo: ma le conseguenze politiche rischiano di essere pesanti. Si può anche sostenere che alla seduta fiume non c’era alternativa e che l’ostruzionismo non mira a correggere in qualche punto la riforma, ma solo a insabbiarla. C’è del vero anche in questo argomento, ma non si sfugge alla sensazione che a Montecitorio sia mancata una regìa lungimirante. Forse la regìa è mancata del tutto. Qualcuno ha sottovalutato il carico di tensioni che la vicenda del Quirinale aveva accumulato nelle aule parlamentari. Misconoscere il peso della psicologia nei comportamenti politici non è mai una scelta felice. Il partito berlusconiano, come è noto, si è sentito raggirato e ha imboccato la strada della vendetta, contraddicendo se stesso e tutte le sue opzioni precedenti. Forse occorreva da parte del governo renziano una maggiore capacità di smussare gli angoli, prendendo atto della realtà. In fondo il patto del Nazareno, al di là della fantapolitica, ha rappresentato una tregua politica durata circa un anno; una tregua da cui il presidente del Consiglio ha tratto significativi benefici.
Certo, nel momento in cui il castello di carte crolla, il danno peggiore è per Berlusconi, trascinato dalla corrente su posizioni poco condivise in passato, mentre il palcoscenico è occupato dalla strana alleanza fra l’intransigente Brunetta, il leghista Salvini e persino il Sel vendoliano. Tuttavia sulla carta c’è un danno anche per Renzi. L’aver ridotto la riforma della Costituzione a una questione meramente numerica, gli darà la vittoria alla Camera e forse anche al Senato, nonostante i seggi più esigui. Eppure un Parlamento lacerato e in qualche misura mortificato rappresenta un segnale non positivo per un governo che si propone, almeno a parole, un orizzonte di legislatura. La minoranza del Pd, salvo le solite eccezioni, si adegua per mancanza di alternative, ma è destinata a diventare sempre più un corpo estraneo carico di risentimento.
Di questo il premier Renzi è consapevole e tuttavia non sembra curarsene. La sua filosofia è tutta in quella frase: «non mi sono fatto ricattare da Berlusconi sul Quirinale e non mi faccio ricattare da altri sulla riforma». Gli altri sono soprattutto i Cinque Stelle, è ovvio, ma il sottinteso riguarda senza dubbio la minoranza del suo stesso partito. Alla quale non ha motivo di fare concessioni, se proprio non vi è costretto. In fondo il renzismo è come un’auto che possiede soltanto la quarta marcia con freni poco efficienti: può solo correre. E un Parlamento frantumato fa meno paura, se si ritiene di avere dietro un ampio segmento di opinione pubblica.
C’è un’altra frase chiave del premier che spiega bene le sue intenzioni: «alla fine la riforma sarà sottoposta a referendum e lì si vedrà». Ecco il punto: nella strategia renziana il referendum confermativo previsto dalla Costituzione si trasforma in un’arma da usare sul piano politico. Le risse in Parlamento verranno cancellate dal ricorso al popolo. E sarà lui, il presidente del Consiglio in questo caso discepolo di De Gaulle, che ne ricaverà il dividendo. Nessuno crede infatti che la riforma del Senato o del Titolo V possano essere bocciate. Saranno approvate con una soglia per forza di cose superiore al 50 per cento dei votanti.
Dal 40,8 delle regionali al 55-60 prevedibile del referendum... È un’operazione plebiscitaria che può essere interrotta dalle elezioni anticipate. Difficile che Renzi gradisca sul serio — al di là delle minacce — un’ipotesi che al momento obbligherebbe a votare con la legge proporzionale scritta dalla Consulta. Ma all’occorrenza saprebbe gestire la campagna con la stessa foga di chi cerca comunque un referendum su se stesso. In altri tempi queste spinte al plebiscito fuori del Parlamento avrebbero incontrato la feroce opposizione della sinistra cattolica e degli ex comunisti all’interno del Pd. Ma i tempi sono cambiati e molti pensano a recuperare un posto in lista per tornare in Parlamento.