varie 14/2/2015, 14 febbraio 2015
ARTICOLI SULLA LIBIA DAI GIORNALI DI SABATO 14/2/2015 - ALESSANDRA ARACHI, CORRIERE DELLA SERA - Sta precipitando la situazione in Libia
ARTICOLI SULLA LIBIA DAI GIORNALI DI SABATO 14/2/2015 - ALESSANDRA ARACHI, CORRIERE DELLA SERA - Sta precipitando la situazione in Libia. Nella notte miliziani libici legati all’Isis sono entrati a Sirte, 450 chilometri da Tripoli, la seconda città del Paese, e hanno stabilito il loro quartier generale nel centro della città. I miliziani hanno letteralmente preso possesso della città di Sirte, occupando Radio Syrte e Mekmedas: entrambe le radio adesso stanno trasmettendo canti jihadisti, versetti del Corano ma anche discorsi di Abu Muhammad Al Adnani, il portavoce dell’Isis. Il timore è che i miliziani possano proclamare l’emirato islamico di Sirte così come hanno già fatto nella città di Derna. I miliziani dell’Isis hanno occupato pure la tv locale, ma hanno anche attaccato due pozzi petroliferi e dato fuoco ad una raffineria. Un attacco è stato inviato pure all’Italia, via Twitter. Qalum ur, un sostenitore dell’autoproclamato Califfato, ha postato sul suo account una minaccia senza usare mezzi termini: «La distanza tra Roma e Sirte è di 1.250 chilometri, un missile Scud può arrivare fino in Italia». La situazione sta precipitando e il nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni non ha esitato ieri sera: «Se non si trova una mediazione in Libia bisogna pensare, con le Nazioni Unite, di fare qualcosa. In un quadro di legalità internazionale, l’Italia è pronta a combattere». Già il nostro presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva voluto sottolineare la gravità della tragedia della Libia, sostenendo, deciso: «L’impegno di Bernardino León dell’Onu purtroppo non è stato sufficiente, l’Italia è pronta a fare la propria parte». Sono ore di paura e la nostra ambasciata a Tripoli è stata molto chiara con gli italiani che vivono lì: «Lasciate la Libia» e non è molto tranquillizzante l’avverbio usato subito dopo, ovvero: «temporaneamente». Nemmeno a Tripoli si possono dormire più sonni tranquilli, dopo che gli islamisti hanno rivendicato l’attacco kamikaze all’hotel Corinthia del 27 gennaio scorso. L’invito della Farnesina era già stato pubblico sul sito del ministero degli Esteri «Viaggiare sicuri», ma ieri è stato reiterato vista la crescente preoccupazione. Non solo. I miliziani dell’Isis hanno fatto uso di Twitter anche per annunciare una tragedia che fotografa la situazione di paura. È infatti su questo social network che gli islamisti hanno voluto annunciare l’uccisione di ventuno copti egiziani rapiti a Sirte tra la fine di dicembre e l’inizio del mese di gennaio. La notizia non è stata ancora confermata, ma le fotografie dei ventuno egiziani rapiti sono state pubblicate anche sul magazine dell’Isis «Dabiq». E tutto questo deve essere stato più che sufficiente al governo del Cairo per mettere a punto un piano di evacuazione dei cittadini egiziani dalla Libia. Il presidente egiziano Abdul Fattah al-Sisi ha annunciato personalmente che i suoi connazionali potranno lasciare il Paese attraverso un ponte aereo. Alessandra Arachi **** PAOLO VALENTINO, CORRIERE DELLA SERA – «L’Unione Europea ha già preparato e individuato misure, che possano eventualmente accompagnare e proteggere il processo di formazione di un embrione di governo di unità nazionale in Libia». Lo dice al Corriere l’Alto Rappresentante per la politica Estera e di Sicurezza, Federica Mogherini, rientrata ieri sera da Tunisi, dove proprio la crisi libica e le sue possibili ripercussioni regionali sono state al centro dei colloqui con i dirigenti nordafricani. Fra le misure allo studio, di cui si è parlato all’ultimo Consiglio dei ministri degli Esteri a Bruxelles, è l’introduzione di misure restrittive contro chiunque ostacoli il dialogo e minacci pace e sicurezza. Mogherini è attenta a sottolineare che ogni iniziativa europea dovrà necessariamente essere subordinata a un minimo di intesa tra le fazioni in guerra, quella di Tobruk e quella islamista, che controlla Misurata e Tripoli. L’offensiva del Califfato aggiunge però caos al caos e rende più difficile il dialogo fra le parti, ponendo un’ulteriore sfida alla comunità internazionale. E la preoccupazione delle autorità italiane è fin troppo evidente nelle parole del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che ha invitato «le Nazioni Unite a fare qualcosa di più», segnalando una chiara insoddisfazione del nostro governo nei confronti del mediatore nominato la scorsa estate dal Palazzo di Vetro, il diplomatico spagnolo Bernardino Leon. Lo stesso premier Matteo Renzi ha definito l’azione di Leon «non più sufficiente». L’Italia, ha detto Gentiloni, «è pronta a combattere in un quadro di legalità internazionale» se non si trova una mediazione. Il che significa che il governo Renzi è disponibile a fornire un contingente italiano a un’eventuale forza multinazionale di Caschi Blu, autorizzata dal Consiglio di Sicurezza Onu . Il punto da chiarire è cosa cambi sul piano politico con l’escalation dell’Isis. Se cioè un intervento internazionale debba come si è sempre detto seguire un’intesa politica o comunque un dialogo intensificato tra le fazioni, ovvero se l’emergenza imposta dal Califfato e il pericolo che la situazione degeneri irreparabilmente non consigli invece di accelerarlo, anche per farne uno strumento di spinta all’accordo politico. Nel secondo caso, i rischi di una missione di pace sarebbero infinitamente più alti. Un altro scenario allo studio sarebbe quello di un intervento affidato a forze regionali, composto cioè da soldati di Paesi confinanti, ma sempre sotto l’egida delle Nazioni Unite. **** FRANCESCO BATTISTINI, CORRIERE DELLA SERA - «Stanno crescendo, sono dappertutto». L’ultimo a dirlo è stato tre giorni fa Ali Zeidan, l’ex premier che ha provato il doppio brivido d’essere prima rapito a Tripoli e poi esiliato a Londra: «Se lasciamo la situazione così, entro due mesi l’Isis sarà sulle coste del mar Mediterraneo». Ci vuole anche meno: la conquista di Sirte è la peggiore delle notizie possibili. In due settimane i miliziani del Califfato, presi il pozzo d’oro nero di Mabruk e il villaggio di An Nawfaliyah, hanno marciato 60 km senza praticamente incontrare resistenza. Si sono impadroniti di radio e tv, spinti verso la Tunisia. Già lanciano volantini alle folle perché prevengano il vizio e ultimatum ai Fratelli musulmani di Alba libica, che governano Tripoli, perché si ritirino senza sparare. Ma è possibile che bastino trentacinque blindati e un centinaio d’armati, per arrivare a uno degli scali petroliferi più importanti del Nord Africa? «Molta gente non sa quanto l’Isis sia infiltrato — dice Aref Ali Nayod, ambasciatore negli Emirati dell’altro governo, quello rifugiato a Tobruk —. Lo Stato Islamico sta trasformando la Libia nel suo bancomat, nel suo distributore di benzina, nell’aeroporto da cui è in grado d’attaccare qualsiasi bersaglio in Europa». A cominciare dall’Italia. Un semplice Scud e colpiamo Roma, fanno gli sbruffoni su twitter: l’arsenale del vicecaliffo di Derna non ha ancora questa potenza, Ragusa è pur sempre a oltre 400 km ma le minacce non sono solo simboliche. Ad allarmare è stato il sequestro il 6 gennaio del medico siciliano Scaravilli — l’ha ricordato Mattarella il giorno dell’insediamento —, ma soprattutto l’assalto all’hotel Corinthia di Tripoli, lo stesso dove fu preso Ali Zeidan e dove alloggiano gli stranieri: nella capitale esplodono autobombe e Alba libica con le milizie di Misurata, questo il messaggio raccolto dalla Farnesina, non sembra più garantire la sicurezza d’un solo angolo di Tripolitania. Diversa ma non tanto la situazione a Tobruk, l’Est dove governano gli antislamisti, gli ex gheddafiani, i miliziani di Zintan, dove si muove il generale Khalifa Haftar: proprio lì però, poco lontano dal parlamento, riuscì ai tagliagole di Derna il colpaccio di sequestrare il tecnico veneziano Salviato. Smammare, non basta. Era dai tempi dei Balcani che l’Italia non affrontava una crisi così vicina. Col carico aggiunto, stavolta, dei nostri interessi energetici. E di contratti da centinaia di milioni. E di barconi di migranti che al 90 per cento arrivano proprio dalle coste libiche. Con la differenza che nei Balcani non avevamo minacce dirette — a parte gli scafisti dall’Albania —, eppure in un ventennio hanno finito per occuparsene sette ambasciate, tre missioni militari, una guerra «umanitaria», un’enormità di prefetti, magistrati e consulenti civili, una presenza di supporto che dura ancora. A Tripoli, non passa mese senza che si sussurri la chiusura della nostra sede diplomatica: sono rimasti solo Giuseppe Buccino, l’ultimo degli ambasciatori occidentali, e una decina di funzionari. A Tobruk (dove resiste un presidio della Ravanelli, un’azienda friulana di costruzioni) nemmeno quelli. L’Italia ha saputo finora mantenere la giusta distanza fra le due Libie, i due governi e i due parlamenti che si combattono, gli stessi che il mediatore spagnolo Leon e l’Onu non sono riusciti nemmeno a far sedere al tavolo dei negoziati di Ginevra, prima, e nel deserto di Ghadames, ora. La situazione però s’è fatta disperata: l’aeroporto di Tripoli è ormai inagibile, a Bengasi si decapita casa per casa, il fronte di Zintan è irraggiungibile, tutte le milizie puntano al controllo dei pozzi (per finanziarsi poi sul mercato clandestino del petrolio) e della Banca centrale (un forziere da decine di miliardi, con investimenti in Europa), gli sfollati sono 400 mila e i morti accertati, senza contare quelli di Lampedusa, 3.095… Stanno finendo anche le scorte di grano e il prezzo del greggio, che finora aveva evitato una catastrofe anche economica, precipita assieme alle speranze d’evitare la crisi umanitaria. Se le date significano qualcosa, i libici sanno che martedì saranno quattro anni dalla rivoluzione contro Gheddafi. E che San Valentino, oggi, è la data dei disamorati: tanto temuto quanto amato, sotto sotto anche un po’ irriso, un anno fa esatto il generale Haftar prendeva in mano le forze armate regolari e dichiarava guerra ai fondamentalisti islamici di Ansar al Sharia e ai loro alleati d’Alba libica. Prometteva di riprendersi il Paese, che non sarebbero serviti aiuti esterni. Un anno dopo, fra i contendenti di Tobruk e di Tripoli, Haftar non ce l’ha ancora fatta. E pochi credono possa tutto da solo. È spuntato Al Baghdadi, con le sue bandiere nere. Sono sbucati l’Egitto e gli Emirati, coi loro bombardieri su Misurata. I turchi e i qatarini aspettano solo un cenno degl’islamisti. Gli ordini di evacuazione, i ponti aerei somigliano a un’ultima chiamata: fuori i secondi, adesso si mena. ***** ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE – La Libia da sola non ce la fa, sprofonda nell’anarchia e nella guerra civile, lo ammette anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni non escludendo un intervento armato sotto l’egida internazionale se fallisse la mediazione delle Nazioni Unite. Il 17 febbraio è l’anniversario della rivolta di Bengasi contro Gheddafi: ma ora, quattro anni dopo, esiste soltanto un’ex Libia e nel caos imperversano i jihadisti con il franchising del Califfato. A Tripoli l’ultima ambasciata occidentale aperta è quella italiana che invita i connazionali ad andarsene. Lo staff dorme nei locali della legazione, a poche centinaia di metri dove gli islamisti nella notte hanno distrutto le ultime due moschee sufi, mandando un altro messaggio di intollerenza ed estremismo. La corrente elettrica funziona poche ore al giorno, il telefono va a singhiozzo, manca la farina e il governo di Tripoli, contrapposto a quello di Tobruk, deve attingere alle riserve strategiche. Non si pagano le pensioni, non si fanno prelievi bancari, e le milizie islamiche devastano i negozi aperti durante la preghiera o incendiano i saloni di bellezza. Una sorta di polizia islamica contro il “vizio” ma che non porta nessuna virtù. Qual è il problema oggi? Non solo la Libia è spaccata in due, tra il governo di Tripoli in mano agli islamisti e quello di Tobruk in Cirenaica che dipende dalle schiere del generale Khalifa Heftar: ma queste fazioni sono divise al loro interno e si servono dei jihadisti dell’Isil o delle bande criminali per farsi la guerra. Anche il traffico degli esseri umani obbedisce a questa logica violenta e perversa. Il governo di Tobruk pensa di vincere la partita con i mezzi militari e conta sull’appoggio dell’Egitto, di Mosca e degli Emirati. A Tripoli credono che saranno gli islamici meno estremisti ad aggiudicarsi la partita: ma dopo l’attentato kamikaze all’Hotel Corinthias rivendicato da gruppi affiliati al Califfato è facile immaginare che sono illusioni destinate a spegnersi nel sangue. La mediazione dell’Onu per un governo di unità nazionale è fallita: a Ghadames le parti hanno persino rifiutato di sedersi allo stesso tavolo. Se ci sarà una missione militare aspettiamoci una battaglia dura, densa di insidie e attentati. L’eco sinistro della Somalia degli anni ’90 giunge con la risacca libica dal lontano Corno d’Africa fino alle nostre sponde. Ma ora si paga quell’intervento voluto da Francia e Gran Bretagna gonfio di orgoglio e pretese velleitarie che ha lasciato l’ex Libia allo sbando. **** ROBERTO BONGIORNI, IL SOLE 24 ORE – La speranza che il piccolo Califfato islamico, creato lo scorso novembre nella città orientale di Derna, potesse essere un fenomeno marginale e facile da isolare si è rilevata vana. L’avanzata degli jihadisti libici alleati dello Stato islamico è stata più rapida di quanto le cancellerie europee pensassero. E ora l’Europa rischia di trovarsi con l’incubo della bandiera nera dell’Isis alle sue porte, separata da un braccio di mare. L’appello ribadito ieri dalla Farnesina ai cittadini italiani rimasti in Libia di abbandonare «temporaneamente» il Paese si è reso necessario dopo le grave escalation avvenuta nelle ultime settimane. Nessun luogo dell’ex regno di Muammar Gheddafi è ormai al sicuro. Lo conferma l’attacco kamikaze del 27 gennaio - rivendicato dagli jihadisti libici - all’Hotel Corinthia - luogo d’elezione per ospitare le delegazioni straniere, da anni considerato il più sicuro di Tripoli . Col passare dei mesi sta venendo alla luce un’inquietante realtà: le rivalità tra i due Governi che hanno spaccato in due la Libia e si contendono la sovranità del Paese, ingaggiando violenti scontri, sta spianando la strada all’ascesa dei gruppi jihadisti , abili nello sfruttare un vuoto di potere che permette loro maggiore libertà di movimento. L’ultimo grande successo delle milizie fedeli all’Isis è stata la conquista di alcuni quartieri della città di Sirte, dove hanno preso il controllo di tv e radio locali, creando un quertier generale nel centro città, issando poi le bandiere nere sull’edificio. È un episodio molto grave. Per una serie di ragioni. Sirte, città di 140mil abitanti di fronte alle coste greche e italiane, era la roccaforte e la città natale di Muammar Gheddafi. La sua conquista ha dunque un valore simbolico. Ma è soprattutto un importante centro portuale a 450 km da Tripoli, che si affaccia sul golfo della Sirte, dove si trova la maggior parte dei giacimenti petroliferi offshore del Paese e che funge da collegamento con i pozzi dell’interno. In assenza di una qualsiasi autorità di governo, le milizie islamiche del Governo ombra, e gli jihadisti di Ansar al-Sharia si erano spartiti i quartieri della città. Come secondo copione, ieri gli jihadisti hanno cominciato a trasmettere proclami del portavoce della formazione, Abu Mohammed al-Adnani, satrapo a Derna dello Stato islamicoe discorsi del “califfo” Baghdadi. Sirte è anche la città dove sono stati rapiti in dicembre 21 cristiani coopti egiziani. Secondo fonti libiche 12 di loro sarebbero stati giustiziati. Ma la notizia non è stata confermata. L’Egitto ha comunque avviato un ponte aereo per evacuare i suoi cittadini dal Paese. L’ultimo appello per fermare la deriva estremista era arrivato il 27 gennaio da Ali Tarhouni, presidente dell’Assemblea costituente della Libia. «I guerriglieri dell’Isis si sono insediati nella regione di Bengasi», aveva avvisato, aggiungendo che la loro marcia era continuata a ovest, nella zona di Sirte e quindi di Misurata. Scavalcata la capitale, truppe di jihadisti avrebbero occupato Sabrata, poi il porto di Zawiyah fino a Zuara, porticciolo da cui partono quasi tutte le imbarcazioni di migranti diretti in Sicilia e a Malta. Anche in questo caso è difficile avere conferme sul controllo reale degli jihadisti sui centri portuali. Ma se fosse vero, il pericolo che nascondono i loro uomini tra i disperati in fuga per l’Europa sarebbe reale. Gli stessi estremisti lo hanno annunciato come mezzo di rappresaglia. Allarmata anche dalle notizie di campi di addestramento dell’Isis nei dintorni di Derna, la comunità internazionale sta profondendo ogni sforzo per arrivare a un accordo di cessate il fuoco tra i due Governi rivali e porre le basi per un Esecutivo di unità Dallo scorso agosto una coalizione di milizie islamiche – al-Fajar - ha conquistato Tripoli, creando un Governo ombra che compete con quello “esiliato” a Tobruk, ai confini con l’Egitto, “laico” e riconosciuto dalla Comunità internazionale. Due sono dunque i Governi, due i Parlamenti e perfino due ministri del petrolio, che pretendono di essere i solo rappresentanti di un settore tanto strategico quanto in difficoltà. (negli ultimi giorni, ed anche ieri, i jihadisti libici hanno attaccato dei giacimenti). Senza un accordo tra i due belligeranti l’Isis potrebbe avere gioco facile. Roberto Bongiorni ***** VINCENZO NIGRO, LA REPUBBLICA - L’Is avanza in Libia. E se non è effettivamente l’Is, sono gruppi jihadisti già presenti nel Paese che adesso scelgono di cambiare bandiera e innalzano il vessillo nero del califfo Al Baghdadi. Ieri sono arrivati a Sirte, la città al centro del grande golfo che abbraccia Cirenaica e Tripolitania. Hanno conquistato la radio da cui gli ufficiali di Gheddafi lanciarono i primi messaggi al popolo libico all’alba del 1° settembre 1969, il giorno del colpo di Stato contro re Idriss. I sermoni di Al Baghdadi ritrasmessi da Radio Sirte sono quelli registrati in Iraq, ma il segnale ormai è una conferma: la dinamica del-l’Is è ben presente in Libia. Il gruppo attrae molti jihadisti libici: da Ansar Al Sharia — per esempio — molti miliziani passano all’Is, dicono che «il Califfato ha un vero progetto politico, cosa che altri non hanno». In queste condizioni di sicurezza sempre più incerta, il ministero degli Esteri ha fatto due mosse. Il ministro Gentiloni ha ricordato qualcosa che l’Italia già fa, impegnarsi contro il terrorismo, ma ha adoperato la parola «combattere»: «Nel quadro della legalità Onu l’Italia è pronta a combattere il terrorismo », anche in Libia. A Tripoli l’ambasciata invece ha fatto rilanciare giovedì sera un messaggio ai circa 100 italiani che sono ancora nel Paese: le condizioni di sicurezza sono cambiate, bisogna lasciare il Paese perché gli occidentali (e quindi gli italiani) possono essere un obiettivo. Il ministro Gentiloni ha spiegato che se la mediazione dell’Onu fra le fazioni libiche dovesse fallire «siamo pronti a combattere, in un quadro di legalità internazionale». Anche perché la bandiera nera dello stato Islamico che sventola sull’obelisco di San Pietro «fa parte delle farneticazioni propagandistiche, ma non possiamo sottovalutarle perché la situazione è grave». Quello che i tecnici della Farnesina giudicano come un vero punto di svolta è stato l’attentato del 27 gennaio all’Hotel Corinthia, a Tripoli. È l’hotel di lusso in cui risiede anche il primo ministro Omar Al Hassi, capo di uno dei due governi rivali del Paese, paradossalmente di quello sostenuto dalle milizie islamiche. Quell’attentato è il segno che i gruppi jihadisti, si chiamino Is o meno, sono entrati in rotta di collisone anche con gli islamisti moderati, se non altro per motivi di reclutamento, per allargare la loro base di sostegno e le aree sotto il loro controllo diretto. A Sirte i miliziani dello Stato islamico secondo fonti dell’Ansa, «hanno dato tempo fino a domenica alle forze di Fajr Libya per lasciare la città». Il gruppo Fajr Libya (Alba della Libia) è proprio quello delle milizie filo-islamiche che controllano Tripoli. Gruppi che fino a ieri potevano essere considerati vicini se non proprio la casa-madre di quelli che oggi sono diventati Is. Il gruppo è sicuramente presente da mesi a Derna, da anni il capoluogo dei terroristi jihadisti in Cirenaica (la regione di Bengasi). In quella città per mesi è stato attivo un altro gruppo jihadista che ha resistito alle tentazioni dell’Is, ma da tempo non ci sono notizie, e la città comunque rimane sotto il controllo degli integralisti. Poco dopo la conquista (totale o meno che sia) di Sirte un militante dell’Is si è prodigato di pubblicare sul suo account Twitter una mappa geografica in cui ha sottolineato che «la distanza tra Roma e Sirte è di 1.250 chilometri, come quella che separa Jeddah e Dammam (in Arabia saudita, ndr). «Un missile Scud può arrivare fino in Italia», dice. C’è da sperare che non siano in grado di ottenere armi del genere. ***** RENZO GUOLO, LA REPUBBLICA - La Libia è sempre più terra di conquista dell’Is. Le milizie che hanno giurato fedeltà a al Baghdadi conquistano anche Sirte. Dopo Derna, dove dallo scorso autunno le milizie del Consiglio della Shura hanno proclamato la loro adesione al Califfato, Sirte è la seconda città libica a finire sotto i vessilli nerocerchiati. Ma l’influenza dell’Is si estende ormai a Bengasi, sino a poco tempo fa incontrastato regno della qaedista Ansar al-Sharia. Ora, sotto la possente spinta simbolica del Califfato, molti dei seguaci di Ansar cominciano a affluire tra i ranghi dell’Is. Un processo a alogo a quanto accaduto in Siria, con il progressivo svuotamento di Al Nusra a favore dell’Is. A Sirte la radio trasmette già discorsi del Califfo Nero, sintomo del nuovo e cruento ordine che si annuncia. E, come ha mostrato anche l’attacco all’hotel Corinthia, gli jihadisti agiscono anche a Tripoli. Che la situazione sia precipitata lo dimostra non solo l’invito dell’ambasciata italiana ai nostri connazionali ad abbandonare il paese; ma anche la decisione dell’Egitto di far evacuare i propri cittadini. Le immagini da cronaca di una morte annunciata pubblicate sulla rivista Dabiq , con gli incapucciati in nero che fanno sfilare sulla spiaggia di Sirte i ventuno cristiani copti rapiti nei mesi scorsi, definiti come da copione “crociati”, fanno capire che ormai anche l’Egitto è un bersaglio dell’Is. Anzi, un doppio nemico, politico e religioso. Perché il Cairo appoggia e fornisce supporto logistico e aereo alla milizie di Al Hattar, il generale che vuole fare piazza pulita di ogni gruppo islamista in Libia; perché Al Sissi, nemico giurato degli jihadisti in riva al Nilo, vede nei copti un pilastro della sua diga antislamista. La cattura dei copti il Libia viene presentata dai nerocerchiati con la necessità di vendicare le donne musulmane, a loro avviso, vittime del «complotto della chiesa egiziana». Una vicenda annosa, quella delle donne cristiane convertite all’islam, che, secondo la propaganda islamista, sarebbero poi state costrette dalla Chiesa copto-ortodossa a rinnegare la loro conversione. Ma pur sempre una questione sensibile in Egitto, che viene non a caso agitata per rafforzare influenza e reclutamento dell’Is. In quel grande buco nero che è la Libia, Stato fallito ormai preda delle sue migliaia di milizie armate l’una contro l’altra, il Califfato guadagna terreno. A poche centinaia di miglia dall’Italia e dai confini dell’Europa. Un pericolo enorme per l’Occidente. Non solo da quella sponda i traffici di migranti possono es- sere gestiti, sotto il controllo jihadista, come attiva forma di destabilizzazione dei paesi europei, Italia in testa. Con le tante katibe che controllano le coste della Tripolitania al servizio, in una logica di convenienza e sopravvivenza, degli obiettivi strategici del Califfo Nero. Ma il Califfato in riva al Mediterraneo può anche diventare il magnete per gli jihadisti del Magheb, dell’Africa subsahiarana, dell’area egiziana e sudanese. Oltre che un mito politico per la gioventù musulmana radicalizzata in Europa. Una sorta di Somalia davanti alla Sicilia. Gli uomini in nero sullo sfondo azzurro del mare non sarebbero, allora, solo un mero effetto cromatico ma una seria minaccia. Che fare, dunque? Intervenire? E come? Una missione di peace-keeping sotto mandato Onu, come ipotizza il governo italiano, appare problematico in un contesto in cui gli schieramenti, le alleanze, gli interessi di fazioni e milizie locali sono assai mutevoli. Le forze inviate dal Palazzo di Vetro potrebbero diventare un bersaglio senza produrre effettivi risultati politici. Qui più che mantenere la pace, bisognerebbe imporla. Ma un’operazione di peace-enforcement, un intervento militare sotto forma dell’ennesima “coalizione dei volenterosi” di turno, sarebbe ancora più problematica senza avere un realistico progetto strategico per il dopo. Difficilmente Stati Uniti e Europa potrebbero assumersi un simile rischio. Il Califfato, però, e’ ormai alle porte e urge una risposta a questo dilemma tragico. La vicenda riguarda innanzitutto l’Italia, se non altro per i risvolti storici e geopolitici che la legano all’antica Quarta sponda, ma non solo. Più che mai qui i confini sono i confini di tutti. In gioco c’è la sicurezza delle società europee e gli equilibri nel Mediterraneo. Tergiversare sarebbe catastrofico. La questione libica richiede un intervento, e una precisa strategia, da parte della comunità internazionale. Dopo, potrebbe essere tardi. ***** DOMENICO QUIRICO, LA STAMPA - La cartina nera del Califfato, pezzo dopo pezzo, si colma, gli spazi vuoti tra un emirato e un altro, tra un brigante sahariano infeudato al califfo di Mosul e gli altri zeloti dello stato islamico totale si restringono. I miopi profeti del «disordine controllato», i medagliati della guerra per «portare la democrazia in Libia», guardano ora, stupefatti, le bandiere nere a Sirte, a Derna, sulla costa del mare, ascoltano intontiti i proclami arroganti dei nuovi padroni della Libia purificata da una ideologia settaria e barbara. Dove sono finiti i mestatori a cui hanno prestato, frettolosamente, la patente di «democratici», di uomini del futuro? Che fine hanno fatto quelle elezioni, quei parlamenti, quelle costituzioni che abbiamo annusato come segno dei tempi ormai irrevocabilmente nuovi? Si urla ora all’allarme, si invocano alleati e ascari per fermare quelli che il presidente americano chiamava pochi mesi fa avversari di serie b, fantocci di un medioevo ridicolo e strampalato contrapposto alle meraviglie dl migliore dei mondi possibili, cioè il nostro. La Libia si infeuda, a brancate, a città, al califfato: ora migliaia di uomini la cui anima è una pagina bianca, migranti, fuggiaschi, disperati, superstiti di innumerevoli naufragi, rottami di tutte le tragedie di un continente, sono prigionieri del gulag islamista, sotto il controllo del sistema totalitario: migliaia di pagine bianche, uomini senza sogni senza speranze senza passato e senza futuro su cui scrivere un nuovo codice genetico: la guerra santa, la sharia, l’odio per l’impuro. Abbiamo regalato al califfo lunghe file di possibili reclute. A noi tutto questo servirà al massimo per la polemica di strapaese su quanto costava l’operazione Mare Nostrum. Invece la strategia globale del califfato galoppa: tiene ben saldi Mosul, la Siria, l’Iraq nonostante le scenografie degli sterilissimi bombardamenti, e le medaglie distribuite ai curdi. Ogni giorno che passa è per Abu Bakr una vittoria: migliaia di giovani interiorizzano la legge del sistema islamista, una legge non scritta che porta a identificarsi alla volontà di colui che ne è l’incarnazione. Il califfato è un mito: ma cosa se non i miti spinge gli uomini a combattere, morire, uccidere? Lungo le coste del Mediterraneo in Africa, nello Yemen infinite avanzate, colpi di spillo e raid devastatori, singoli delitti e stragi assire portano avanti le pedine con bandiere nere. Una città cade in Nigeria, una base militare è annientata nel Sahel, un convoglio di armi attraversa il Sahara, una imboscata uccide soldati keniani, una altra ambasciata occidentale chiude: notizie che ci scorrono tra le dite che non ricordiamo, che non scomodano i politici ma sono tutte vittorie del califfato. Il nostro spazio si restringe, i luoghi che possiamo attraversare, raccontare, vivere si riducono, davanti a noi, attorno a noi: è questa la guerra totalitaria. La verità è una cosa fragile: se intonata ad ogni angolo da mille giovani gole di acciaio, unte di moschee fanatiche immediatamente anche la verità più indiscutibile si trasforma in bugia, in violenza, in terrore, e prima o poi in pretesto per uccidere. ***** GUIDO RUOTOLO, LA STAMPA - Avevano le mute, i Caronte del Canale di Sicilia. Domenica il mare era proibitivo. Addirittura i collegamenti marittimi tra le isole erano stati sospesi, ma loro, i trafficanti di merce umana, avevano previsto che centinaia di migranti potessero morire. L’atroce sospetto del Viminale è che i morti di freddo e per annegamento di domenica e lunedì siano stati messi in conto. E le testimonianze dei sopravvissuti confermerebbero questa ipotesi: «Ci hanno minacciato con le armi per farci salire sui gommoni, ci hanno picchiato, trattati come bestie». Il mare era forza sette, il vento soffiava a 35 nodi e i quattro gommoni avevano lasciato la spiaggia carichi di «cavie», di «agnelli sacrificali». Gli equipaggi dei gommoni indossavano le mute per proteggersi dal freddo dell’acqua e a un paio di miglia dalla costa - hanno raccontato i sopravvissuti - si sono tuffati per tornare a riva, lasciando andare i gommoni alla deriva. Erano quattro, il primo il mare se lo è inghiottito quasi subito. Il resto è cronaca drammatica già raccontata. Il freddo, il vento, le onde paurose. Dei ventinove corpi senza vita riportati a Lampedusa, dieci erano stati recuperati dal gommone, gli altri diciannove sono morti durante il viaggio di ritorno della motovedetta a Lampedusa. Con una Libia sempre di più fuori controllo, con gli scontri e gli assalti ai terminal petroliferi da parte delle diverse milizie, la produzione di greggio non garantisce più il vecchio «welfare del petrolio». E ormai i soldi per pagare gli stipendi delle milizie (in pratica il vecchio esercito gheddafiano e le forze di polizia si sono sciolti formando le diverse milizie) in parte arrivano proprio dal traffico dei clandestini. Le stime ufficiose dicono che l’industria del traffico di disperati rappresenta ormai il 10% del pil libico. E dunque, davvero decine di migliaia di disperati sono pronti a salpare. I negrieri, appena sono in grado di recuperare natanti, gommoni, imbarcazioni in grado di galleggiare, costringono i disperati a salirci a bordo. In questo quadro, una nuova Mare Nostrum sarebbe un’occasione ghiotta per alimentare questa industria. Con il mare calmo, ieri sono stati salvati settecento migranti che erano a bordo di sette natanti. Il problema è che andando verso il bel tempo, le partenze si moltiplicheranno. Un prete somalo di una Ong ieri pomeriggio ha annunciato che starebbero per partire altri settecento immigrati, tenuti in questi giorni in alcuni capannoni sulla costa, nelle vicinanze di Tripoli. La «crisi» libica sta volgendo al peggio. C’è la consapevolezza che per tentare di governare i flussi migratori in partenza dalle coste nordafricane l’unica strada percorribile sia quella di riportare sotto controllo la Libia. A Tripoli è stato chiuso anche l’ufficio di collegamento con le polizie europee che si occupano di immigrazione. Il personale per motivi di sicurezza è rientrato a casa. La Libia è sempre di più una nave alla deriva. E noi non sappiamo neppure più cosa spettarci. ***** FABIO MARTINI, LA STAMPA - Per capire come stiano veramente le cose in Libia, le cancellerie di tutto il mondo sanno che bisogna chiedere anzitutto agli italiani, unici occidentali con un’ambasciata ancora aperta e con l’Eni che riesce nel miracolo di tenere aperti i pozzi in zone sottoposte a influenze di bande contrapposte. E infatti, appena due settimane fa uomini dell’intelligence americana hanno interpellato i colleghi di Roma per un riservatissimo scambio di informazioni. A Washington sono pessimisti, pensano che la Libia sia dentro una guerra civile e che occorra attenderne l’esito, mentre l’opinione degli «007» italiani è stata meno tranchant: esistono fazioni sulle quali si può ancora puntare per provare a cucire una difficilissima pacificazione tra le parti in lotta. Ma le due intelligence su un punto concordano: le fazioni sotto l’influenza del Califfato stanno guadagnando posizioni e tutto questo alla lunga potrebbe rivelarsi esiziale, la trasformazione della Libia nella piattaforma dell’Isis verso l’Europa. Guida italiana È questo il contesto dentro il quale Matteo Renzi, due sere fa al Consiglio europeo, ha deciso di porre con forza la questione Libia, per scuotere il resto d’Europa su una questione finora rimossa: «Esiste il problema dell’Ucraina, ma anche un’emergenza in Libia della quale tutta l’Europa deve farsi carico». A Palazzo Chigi sanno che dal punto di vista della deterrenza diplomatica siamo (quasi) all’anno zero. La missione, sotto egida Onu, dello spagnolo Bernardino Leon va avanti, ma «sinora senza un forte investimento internazionale - nota il presidente della Commissione Difesa del Senato Nicola Latorre - e per questo l’intervento di Renzi a Bruxelles riveste un grande significato». Palazzo Chigi, a medio periodo, coltiva obiettivi non dichiarati e (al momento) non dichiarabili: una missione di peacekeeping con le bandiere Onu, ma guidata dall’Italia; una conferenza di pace a Roma. Pronti a combattere Obiettivi che per il momento appaiono come una sorta di miraggio. Ma per far capire che l’Italia fa sul serio, molto sul serio e per scuotere il resto del mondo dall’indifferenza, un uomo proverbialmente misurato come il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ieri sera a Sky, ha deliberatamente scelto un lessico bellicista: «L’Italia sostiene la mediazione dell’Onu ma se non riusciamo nella mediazione, credo che bisogni porsi il problema, con le Nazioni Unite, di fare qualcosa di più». L’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale», «non possiamo accettare che a poche ore di navigazione dall’Italia ci sia una minaccia terroristica attiva». Traduzione: l’Italia ha iniziato un pressing sulla comunità internazionale e non esclude nel giro di qualche mese di dover intervenire con propri militari in una missione dai contorni per ora non definibili. I contatti Il primo a parlare a Renzi della Libia con toni molto allarmati era stato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, sei mesi fa al Cairo. Ai primi di agosto il rais si rivolse a Renzi con questo argomento: «Si stanno prendendo la Libia, che vogliamo fare?». L’Italia, pur disponendo di terminali ultrasensibili (l’Eni giunse in Libia prima di Gheddafi e in loco vanta dirigenti “nativi”), finora aveva lasciato cadere i tre appelli che dall’Africa erano stati mandati all’Onu per affidare una mediazione a Romano Prodi. Dice oggi il Professore: «L’Europa è disattenta, ma in Libia l’emergenza deve essere risolta obbligando tutte le rappresentanze a sedersi a un tavolo allargato. Un’offensiva diplomatica che deve essere facilitata dal ruolo di Paesi esterni». Fino ad oggi gli europei hanno remato in direzioni diverse, perché, come racconta Bobo Craxi, già sottosegretario agli Esteri, oggi a Tunisi, «tra i principali motivi dell’intervento internazionale in Libia, al quale l’Italia si accodò, c’era l’interesse di Total, Bp e Shell di sottrarre all’Eni le royalties sul petrolio. E per ora il conflitto di interessi resta quello». ***** PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA - Gli Stati Uniti contano sull’Italia per trovare una soluzione alla crisi libica. Le violenze nell’ex colonia, e l’avanzata dei terroristi dell’Isis, sono sul tavolo dei colloqui bilaterali da mesi, con Roma che crede ancora nella possibilità di individuare interlocutori responsabili per riportare una qualche forma di stabilità, nel quadro della legittimità cercata attraverso il negoziato Onu. Negli ultimi giorni la Libia è stata nell’agenda dei colloqui che il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Armando Varricchio, ha avuto alla Casa Bianca con la consigliera per la sicurezza nazionale Susan Rice; della visita del 2 febbraio scorso al dipartimento di Stato da parte dell’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi; e di vari contatti diretti fra l’intelligence dei due Paesi. L’Italia è l’unico Paese occidentale che ha ancora l’ambasciata aperta a Tripoli, oltre ad un rapporto storico con il Paese. L’Eni è ancora attiva in molte regioni controllate da gruppi diversi, e quindi resta in condizione privilegiata per osservare gli sviluppi sul terreno, anche per la necessità di prendere eventuali decisioni finalizzate a garantire la sicurezza dei dipendenti e degli impianti. L’intelligence del nostro Paese, poi, conserva una presenza e una conoscenza che quella degli Usa non può più avere. Gli americani quindi chiedono agli italiani cosa succede e quali potrebbero essere le soluzioni. Durante alcuni dei contatti più recenti, gli Usa hanno espresso sfiducia. In sostanza vedono la Libia in preda alla guerra civile, e ritengono molto difficile lanciare iniziative per riportare la stabilità. Gli italiani condividono la preoccupazione, come dimostra l’iniziativa presa ieri dall’ambasciata a Tripoli, ma pensano di avere ancora interlocutori che hanno abbastanza seguito nella popolazione per evitare il peggio. La presenza terroristica è forte, soprattutto nella zona di Derna e nelle regioni meridionali, ma la situazione in Libia non è ancora precipitata al punto della Siria o della Nigeria con Boko Haram. I negoziati fra le parti cominciati a Ginevra hanno avuto pochi effetti, anche perché non erano presenti tutti gli interlocutori, come il General National Congress di Tripoli. Perciò l’inviato Onu, Bernardino Leon, ha organizzato nuovi colloqui in Libia a Ghadames. Ieri il portavoce del Palazzo di Vetro, Stéphane Dujarric, ci ha detto che «non ci sono novità, ma continua il lavoro di Leon per mettere insieme le parti». Un’intesa per la riconciliazione nazionale, sotto l’ombrello dell’Onu, sarebbe fondamentale per lanciare qualunque tipo di intervento che non corresse il rischio di essere presentato dalla propaganda terroristica come un’occupazione. Proprio questi tentativi di Leon, infatti, hanno provocato gli ultimi attacchi dei gruppi vicini all’Isis per farli saltare. La risoluzione che il Consiglio di Sicurezza ha appena approvato all’unanimità per bloccare i finanziamenti dello Stato islamico in Siria dimostra che su questo punto anche la Russia è d’accordo. Con un’intesa, l’Italia sarebbe pronta a guidare le operazioni di peacekeeping; senza, si rischia la Siria davanti a casa. ***** CARLO PANELLA, LIBERO - Il Califfato dilaga in Libia, tanto che Italia e Egitto hanno invitato tutti i connazionali a lasciare subito il Paese. Segno che la situazione è ormai fuori controllo. Particolarmente indicativa è la decisione dell’Egitto, che ha decine di migliaia di lavoratori in Libia e che conosce più di qualsiasi altro Paese la situazione reale. Ieri la beffa: dopo avere conquistato il controllo di Sirte, la città di Gheddafi e della sua tribù, i “Khaddafa”, i miliziani libici di Ansar al Sharia, si sono impadroniti della stazione televisiva di Stato Libya e di Radio Sirte (si erano già impadroniti della radio locale "Makidmas"), da cui trasmettono brani del Corano e discorsi del Califfo Abu Bakr al Baghdadi. Ci si attende da un momento all’altro che proclamino l’annessione al Califfato di Raqqa, che a questo punto conta in Libia, oltre a Derna, su un decina di località su cui sventola la bandiera nera degli sgozzatori. La caduta di Sirte è particolarmente grave perché è la prima città della Tripolitania significativa a essere conquistata dagli jihadisti (Derna è in Cirenaica) e perché si accompagna a nuovi orrori. Sempre da Sirte, infatti, il Califfato ha postato su Internet, sul sito “Al Wasat” foto che mostrano 21 egiziani copti fatti prigionieri, coperti dalla ormai classica e tragica tunica arancione degli ostaggi. La loro sorte è segnata, perché la loro cattura è stata motivata «come vendetta per il destino delle donne musulmane torturate e uccise dalla Chiesa Copta egiziana». Non basta, i jihadisti avvertono che la loro espansione in Libia permette di catturare tutti i «crociati copti» che vogliono. Preludio a nuovi eccidi. Alcune fonti egiziane, peraltro, sostengono che i 21 copti sono già stati trucidati e che proprio questa strage ha spinto il presidente egiziano al Sisi a ordinare ai suoi concittadini l’immediata evacuazione dalla Libia. Ma le notizie pessime non si fermano a questo. Sempre ieri gli islamisti fedeli a governo di Tripoli (quindi non i jihadisti del Califfato) hanno annunciato di avere abbattuto sul mare, tra Sirte e Jawad, un caccia dell’armata del generale Khalifa al Haftar, che è invece schierato col governo di Tobruk (l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale) e supportato dall’Egitto. Il tutto, mentre a Gadames, (lontana oasi al confine tra Libia, Algeria e Tunisia), l’inviato dell’Onu Bernardino Leon, continua i colloqui di pace tra i due governi (quello di Tripoli, islamista, e quello di Tobruk, laico) che si contendono il potere nel paese. Colloqui che - a fronte di questo quadro - si dimostrano tragicamente surreali, anche perché non vi partecipano i “signori della guerra” che da una parte e dall’altra si fanno guerra. È dunque accaduto quel che era inevitabile: mentre i Fratelli Musulmani, le milizie di Misurata e gli islamisti da una parte, e i laici del governo “legittimo” di Tobruk, le milizie di Zintan dall’altra, si combattevano (e si impegnavano nei soliti inutili colloqui patrocinati dall’Onu), i miliziani del Califfato si sono insinuati nel caos e sono avanzati a macchia d’olio. Hanno allargato la loro sfera di influenza, penetrando dalla Cirenaica sino nel cuore di Tripoli, dove hanno portato a segno giorni fa l’attentato contro l’hotel Corinthia, nell’intento di uccidere Omar al Hassi, premier del governo islamista che vi abitava. A riprova del suo controllo del territorio, ieri l’Isis ha distribuito volantini a Surman, città costiera a 60 chilometri da Tripoli, in cui diffidano le donne dal truccarsi, indossare vestiti attillati ed entrare in contatto con uomini nelle scuole e nei posti di lavoro e minacciano «il ricorso alle armi contro chi non si adegua». Ma la comunità internazionale non prende atto dell’avanzata del Califfato in Libia e continua a baloccarsi nella inerziale speranza di riuscire a trovare una mediazione tra i due governi. Gravissima, è la cecità della Nato, che si occupa e preoccupa - in modo avventurista - solo della crisi in Ucraina e non presta interesse all’impetuoso consolidamento del Califfato ai confini marittimi dell’Italia. Consolidamento che ha una ulteriore conseguenza drammatica: gli scafisti che “lavorano” sul traffico di clandestini verso Lampedusa, ormai si stanno spontaneamente “associando” alle milizie del Califfato che si stanno impadronendo anche di questo immondo traffico dalle conseguenze esplosive per l’Italia (anche ieri sono stati soccorsi 7 gommoni al largo della Libia). Infine, ma non per ultimo, è indicativo il tweet postato da Qalam Hur un miliziano del Califfato: «La distanza tra Roma e Sirte è di 1.250 chilometri e un missile Scud può arrivare fino in Italia, dato che Sirte dista solo 450 chilometri dal suolo italiano». ***** ALBERTO GENTILI, IL MESSAGGERO - Il progetto è ambizioso e ancora in gran parte segreto. Ma Matteo Renzi ormai ha avviato la sua road map. Ed è determinato a centrare il bersaglio: ottenere dalle Nazioni Unite il varo di una missione di peace-enforcement in Libia e incassarne il comando. Esattamente come fecero nell’estate del 2006 Romano Prodi e Massimo D’Alema sul fronte tra Libano e Israele. «I tempi però sono lunghi, l’Onu non ha ancora messo a fuoco il problema e siamo lontani da una riunione del Consiglio di sicurezza che potrebbe varare la risoluzione ad hoc», spiegano alla Farnesina. L’offensiva di Renzi è comunque scattata. Ed è scattata giovedì a Bruxelles quando, durante la cena dei 29 capi di Stato e di governo europei, ha gettato sul tavolo «la questione libica»: «Qui si parla tanto di sicurezza e si parla giustamente di Ucraina. Ma non c’è solo quell’emergenza. Ce n’è un altra altrettanto esplosiva e pericolosa: se non interveniamo in Libia, se non impediamo il disfacimento definitivo di quello Stato, se non fermiamo i combattimenti tra le fazioni in campo, rischiamo di ritrovarci a pochi chilometri dai confini d’Europa un califfato islamico. Valutate voi...». Certo, c’è anche la questione dell’immigrazione. C’è a palazzo Chigi la consapevolezza che «se non si riporta ordine in Libia, gli sbarchi e le stragi in mare di migranti continueranno». Anche perché, come dimostrano gli ultimi dati diffusi dal Viminale, su 170 mila clandestini arrivati in Italia nel 2014, ben 142 mila sono transitati per la Libia. «Il 10 per cento del Pil di quel Paese», spiegano alla Farnesina, «arriva proprio dalla tratta di essere umani». LA SICUREZZA NAZIONALE Ma il nodo, più tempo passa e meno si dimostra efficace la missione del commissario Onu Bernardino Leon che da mesi cerca inutilmente di pacificare la Libia, è quello della «sicurezza nazionale». Soprattutto adesso che l’Isis avrebbe preso il controllo di Sirte, 500 km a Est di Tripoli e la Farnesina è tornata a invitare i nostri connazionali ad abbandonare immediatamente il Paese africano. Quanto sia grave la situazione, l’ha detto chiaramente ieri sera il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni: «Se il dialogo fallisce l’Italia è pronta a combattere sotto l’egida dell’Onu. La situazione è grave, a Sirte si hanno notizie della presenza di miliziani dell’Isis. Non possiamo accettare l’idea che a poche miglia di navigazione dalle nostre coste ci sia una minaccia terroristica». “Combattere” è un verbo impegnativo. Le missioni Onu sono di peace-keeping (mantenimento della pace) o di peace-enforcement (imposizione della pace anche con le armi). E il riferimento di Gentiloni fa pensare a questa seconda soluzione. Ma la strada è ancora lunga. Il commissario dell’Onu Leon sta tentando di mettere i vari contendenti di fronte a un tavolo. «Inutilmente», secondo Renzi, che vuole spingere la comunità internazionale a compiere un passo ulteriore convincendo l’Onu della necessità di una risoluzione che autorizzi l’invio di truppe. Così non è caso che l’altra sera a Bruxelles, il premier abbia giudicato superata la missione di Leon: «Non è stata sufficiente». E abbia parlato della necessità di un «tentativo più forte», garantendo che «l’Italia è pronta a fare la sua parte». Ad inviare, insomma, soldati in Libia. «Perché per noi la Libia è come l’Ucraina per la Germania, una minaccia ai nostri confini». Per capire come finirà bisognerà attendere almeno uno o due mesi. «Prima è impensabile che l’Onu si muova», dicono rassegnati a palazzo Chigi. Alberto Gentili ***** IL POST 14/2 - Venerdì 13 febbraio il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni ha detto che in Libia «l’Italia è pronta a combattere nel quadro della legalità internazionale», visto che la situazione nel paese si sta deteriorando. È la prima volta che un membro così importante del governo italiano accenna alla possibilità che l’Italia intervenga militarmente in Libia, dove da mesi il vuoto di potere che si è creato in seguito alla caduta del dittatore Muammar Gheddafi si è trasformato in una violenta e complicata guerra civile. La situazione in Libia è peggiorata ulteriormente in questi giorni. L’agenzia di stampa AFP ha detto che un gruppo di miliziani islamici affiliato allo Stato Islamico (o ISIS), è riuscito a prendere il controllo di una stazione radio nella città di Sirte, nella parte centro-settentrionale del paese. Secondo alcuni residenti intervistati da AFP, la radio ha trasmesso versi del Corano e discorsi di Abu Bakr al Baghdadi, il leader dello Stato Islamico. AFP dice che l’IS potrebbe cercare di occupare Sirte, ma per farlo dovrebbe scontrarsi con i miliziani che già hanno il controllo della città. Le milizie che hanno annunciato la loro fedeltà allo Stato Islamico erano già state coinvolte in diverse azioni molto violente nella zona intorno a Sirte. Nell’ultimo numero della rivista dello Stato Islamico, “Dabiq”, sono state pubblicate alcune fotografie che mostrano 21 egiziani copti che sarebbero stati presi in ostaggio proprio nella zona di Sirte. Il presidente egiziano Abdul Fattah al-Sisi ha detto di seguire molto da vicino la questione e ha chiesto a tutti gli egiziani di lasciare la Libia. In seguito agli avvenimenti di questi giorni, anche l’ambasciata italiana ha chiesto ai cittadini italiani di lasciare il paese. Non è la prima volta che succede, visto che il ministero degli Esteri da un anno pubblica ogni mese un aggiornamento sulla situazione libica e suggerisce ai cittadini italiani di abbandonare la Libia. ***** DANIELE RAINERI, IL FOGLIO - agli italiani di lasciare la Libia, almeno per qualche tempo, perché il paese è diventato troppo pericoloso a causa della presenza in forze dello Stato islamico. Secondo un’indiscrezione di Repubblica, il premier Matteo Renzi vorrebbe chiedere all’Onu l’approvazione di una risoluzione che legittimi l’invio di un contingente di peacekeeping – per risolvere il problema del traffico di migranti verso l’Italia. Secondo indiscrezioni del Foglio, della cosa si discute da almeno tre mesi. Ora al problema delle stragi in mare si affianca il problema di una Libia fuori controllo. Da dicembre si discute anche la chiusura dell’ambasciata italiana a Tripoli, la sola rimasta (ieri l’Italia ha evacuato l’ambasciata in Yemen per ragioni di sicurezza), e dopo l’attacco suicida in pieno giorno all’Hotel Corinthia di due settimane fa la questione s’è fatta più pressante. Secondo una fonte del Foglio in Libia che preferisce restare anonima, il rischio concreto è quello di una caccia agli stranieri occidentali per farne ostaggi – due ostaggi italiani rapiti nel 2014 erano stati liberati dalla Farnesina lo scorso novembre, ma le condizioni sul posto stanno peggiorando così rapidamente che questi ultimi tre mesi fanno la differenza. La caccia è già cominciata contro francesi e americani soprattutto nei dintorni degli impianti del gas e del greggio a est. Dopo un lungo periodo di prudenza strategica, il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi è uscito allo scoperto nel paese e questa settimana ha preso l’area sulla costa vicino alla città di Sirte e ha occupato un ospedale e la sede di una radio nazionale – da cui ora trasmette non stop gli audio di Baghdadi e del portavoce Abu Mohamed al Adnani. A Bengasi sono state trovate quaranta teste mozzate, secondo fonti mediche locali, ma è una notizia non collegata e per ora non c’è un’attribuzione chiara di responsabilità. Lo Stato islamico sta sfidando i tre poteri forti che si contendono la regione: il fronte islamista che governa da Tripoli, il fronte laico che sta a Tobruk (e che è in guerra con il fronte islamista) e il governo egiziano che tiene d’occhio la situazione nel paese confinante mentre parteggia apertamente per Tobruk. Due giorni fa il gruppo di Baghdadi ha pubblicato il settimo numero della rivista ufficiale, Dabiq, che annuncia un’accelerazione della campagna libica – la lettura di due articoli in particolare suona come una dichiarazione di guerra. Uno è sul raid contro il Corinthia e definisce “murtaddin”, ipocriti, i soldati del fronte islamista di Tripoli che sono intervenuti contro i kamikaze. La definizione è una scomunica diretta del fronte, che è dichiarato “finto musulmano” e per questo entra automaticamente sulla lista dei bersagli come confermato anche in un altro manifesto libico del gruppo che dice: “Li combatteremo ovunque”. Il secondo pezzo mostra due fotografie di ventuno cristiani copti egiziani rapiti a dicembre e gennaio nella zona di Sirte e ora esibiti con i parafernalia già visti in altri video girati in Siria e Iraq: gli ostaggi inginocchiati con le tute arancioni stile Guantanamo (equivalenti a una condanna a morte), i carnefici in piedi con i coltelli in pugno – come in un video pubblicato a novembre che mostrava l’uccisione di ventidue militari siriani. Si tratta di un messaggio diretto (oltre che contro i cristiani) al governo egiziano e al presidente Abdel Fattah al Sisi – che ieri ha annunciato la creazione di una task force speciale per occuparsi del caso. Ieri le famiglie dei copti rapiti hanno manifestato al Cairo con lo slogan: “Dov’è Sisi? Dov’è Sisi?”. L’articolo su Dabiq mostra i copti sequestrati e tutto fa pensare che possa uscire un video di un’esecuzione, ma si è capito nei mesi scorsi che il gruppo segue una sua strategia con i media, e manipola il calendario delle notizie. Twitter @DanieleRaineri