Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  febbraio 14 Sabato calendario

ARTICOLI SU SANREMO DAI GIORNALI DI SABATO 14 FEBBRAIO


STEFANO BARTEZZAGHI, LA REPUBBLICA -
A modo suo, molto suo, quello di Carlo Conti pare proprio avviarsi a essere un festival sovversivo. Sovverte almeno quella che finora si era creduta una legge costituzionale e inemendabile dello spettacolo, per la quale il successo viene da grandi trovate d’autore, conduzione glam, colpi di scena, amplificazione di ogni incidente e deviazione dalla norma. E invece no. I grandi ascolti di Sanremo sono ottenuti per via contraria.
Smussatura, sostanziale modestia degli ingredienti, ricerca strenua del grigiore. Nonché frequenti necrologi, appelli alla famiglia e alla Provvidenza, inglobamento ecumenico e pastorale di ogni diversità, purché mitemente rappresentata. E qui capire e interpretare è un compito che può diventare davvero arduo, di fronte a un Paese che la concomitante rissa parlamentare dipingerebbe invece come diviso, urlatore e incline all’indignazione di tutti contro tutti.
Se Fabio Fazio aveva cercato di confezionare un festival di contenuto, Conti fa a meno della preposizione: il suo è un festival contenuto, come una casella riempita a matita con scrupolo senza uscire da alcun bordo. E piace. Piace di più. Piace tantissimo. Ma da dove viene tutta questa volontà di pace, se non proprio di requie?
L’inverno, le cinque serate di canzoni, la retorica floreale ha in realtà sempre avuto un effetto ipnotico. Quest’anno, più che in ogni altra edizione, Sanremo si pone come sospensione del tempo, plaid idealmente gettato e rincalzato sulle gambe della Nazione, con rap d’amore, bellezze in versione gentile, umorismo presuntivo e innocuo.
Una sociologia dello spettacolo avrebbe da lavorare molto sulla composizione della sterminata platea televisiva che non si perde un appuntamento con questa tisana, e con il suo tepore sdrammatizzante. Parlando di RaiUno si sa che si parte da uno zoccolo duro di apparecchi ivi sintonizzati qualsiasi cosa stia andando in onda. Parlando di Sanremo si sa che si è nel tempo formato un altro blocco di spettatori a cui il festival può anche non piacere, o essere sostanzialmente indifferente, ma che non si vogliono perdere l’opportunità di fare o leggere commenti sui social network. A questa seconda identità del festival l’evento vero e proprio non è necessario, perché comunque i cantanti cantano, le canzoni hanno parole, cantanti, vallette e ospiti hanno vestiti e qualcosa da dirne, e magari da riderne, si trova sempre. Il kitsch e il trash possono non essere cercati, ma del tutto assenti non sono mai. Ci deve però anche essere un’Italia che ripone vere speranze e attese letterali (non ironiche, e non catatoniche) nel festival. Ma in cosa, di preciso? La canzone bellissima quest’anno non pare esserci; la canzone-caso (per intenderci, Vita spericolata ) non c’è; l’artista-personaggio, mah.
Più che un conduttore Carlo Conti pare essere un vigile che fa fluire un traffico tutto sommato docile, prevenendo intasamenti e, non sia mai detto, collisioni. La metafora automobilistica conduce quasi naturalmente a quell’idea di «affidabilità» con cui ci si riferisce alle vetture di Formula 1 che completano tutti i giri previsti senza rompersi. Il pubblico televisivo italiano non ha gusti molto raffinati ma ha acquisito una grande competenza, perché di televisione ne vede tuttora parecchia. Se altrove lo strappo e lo smandrappo possono attirare, come gol, autogol ed errori arbitrali in una partita di calcio, Sanremo ha piuttosto la struttura del Gran Premio dove prima che il sorpasso e la manovra azzardata conta la capacità di arrivare sino in fondo. Allora la continuità che politica, economia, vita quotidiana fanno così fatica ad assicurare è quello che in tutta evidenza stiamo chiedendo a Sanremo. Nessun pensiero, poche increspature, emozioni contenute, usuale rombo di motori.
Si può resistere alla tentazione di confrontarne lo share con la crescente popolarità del nuovo presidente della Repubblica, pressoché in assenza di suoi atti memorabili. Ma non ci si può evitare il sospetto che la nostalgia di una continuità che forse non abbiamo avuto mai possa finire per formare un sentimento collettivo che, fuori da Sanremo, trova ben poche occasioni e speranze di esprimersi e avere risposta. Le regole fondamentali dello spettacolo restano in vigore, e continueranno ad applicarsi anche all’estensione della politica-spettacolo. Ma in attesa che gli show tornino a essere davvero divertenti e sorprendenti (cioè, spettacolari) e che la vita politica e sociale del Paese acquieti le sue emergenze, gli stati di necessità e i riformismi più affannati e lambiccati, Sanremo ci rassicura con il suo continuare. Indifferente all’obbligo deontologico di trasgredire alcunché, quindi senza promettere mai nulla di più del minimo.
Carlo Conti è certamente affidabile: e proprio per quello il suo festival è sovversivo.

*****

PIERLUIGI BATTISTA, CORRIERE DELLA SERA –
È rimasto solo Sanremo a ricordarci che esiste un orario televisivo uguale per tutti. E che, incredibilmente, almeno una volta all’anno, gli italiani tutti insieme stanno guardando la stessa cosa, commentano le stesse immagini, gli stessi volti, celebrano lo stesso istante. Succede forse a Capodanno, quando l’ufficialità televisiva trasmette l’impressione di azzeccare la mezzanotte al secondo, con tanto di declamazione collettiva del countdown e i tappi delle bottiglie faticosamente tenuti a bada fino all’esplosione dell’ora X. Succede con la Nazionale di calcio, ma solo se la Nazionale vince, e allora le donne che solitamente deplorano i maschi inebetiti dalle partite decidono di partecipare in massa al rito collettivo, discettando di Balotelli e fuorigioco, come tutti. Poi, solo Sanremo. Vecchi e giovani, maschi e femmine, analfabeti e acculturati, di destra e di sinistra, pop o snob, che improvvisamente sentono, come recita il titolo del romanzo di Francesco Piccolo, «il desiderio di essere come tutti».
Solo a Sanremo l’ora batte per chiunque allo stesso modo. Oramai è tutto spezzettato, frammentato, disunito. Ognuno, ce lo insegna con la sua ammirevole competenza il nostro Aldo Grasso, si fa il suo palinsesto. Mia figlia, ventitré anni, non sa più cosa sono gli orari della televisione. Se ne fa uno tutto suo, guarda una serie tv all’ora che vuole lei, un reality di notte, una puntata dell’Isola dei famosi (con l’aggeggio per velocizzare la visione, neutralizzando i punti morti e i momenti di stanca) nel pomeriggio, un film, un frammento, ma solo un frammento di un talk show, e solo se c’è rissa riportata da YouTube, qualche salto di un concorso ippico svedese nel canale satellitare tv dedicato all’equitazione. Scopre la tv che stanno guardando gli altri solo quando c’è un talent da guardare con gli amici, pizza e birretta. E quando c’è Sanremo. Anche lei, magari schifando le canzoni, i comici, i presentatori, la scenografia, ma attaccata alla televisione, immersa nel flusso dell’eterno commento.
Poi Sanremo può fare il 49 o il 44 di share: ma queste sono cose che riguardano gli esperti e i pubblicitari. Sociologicamente non cambia: 44 o 49 significa tutti davanti alla tv. Significa che il resto si ferma. Non succede più, se non a Sanremo. Un tempo le famiglie si riunivano a tavola all’ora del telegiornale. C’era unità nella diversità. Un tempo si correva per arrivare in tempo a cogliere l’inizio di un programma. Ora ognuno va per conto suo, tranne quando c’è Sanremo. Ognuno sta in una nicchia più o meno grande, tranne quando c’è Sanremo. Ci sono trasmissioni, sceneggiati televisivi che fanno fior di ascolti, che sono popolari, seguiti da un numero elevatissimo di persone, che magari non stanno a pontificare sui social, ma fanno massa. Però non incarnano l’unità. Sanremo è l’unica cerimonia civile che resta e che aggrega insiemi solitamente inaggregabili, generazioni che generalmente si ignorano reciprocamente.
Ogni anno è così. Poi un’edizione può andare meglio e una peggio. Ma l’attesa unitaria, la spinta unitaria, la conversazione unitaria davanti alla tv prende peso e forma solo da questa manifestazione che, è bene ricordarlo, un tempo fu praticamente abolita, come le festività durante l’austerity degli anni Settanta, perché sembrava un ferrovecchio, il residuo di un passato che non sarebbe mai più tornato.
E invece è tornato. Con una formula magica, misteriosa. L’eterno ritorno del sempre uguale. L’eterno lamentarsi dei vestiti pacchiani, delle canzoni inascoltabili, dei cantanti che non sono più quelli di una volta, dei comici che prendono cachet stellari per non far ridere. Quest’anno come l’anno scorso e come sarà il prossimo anno. Con l’orologio che ancora una volta batterà la stessa ora per tutti, senza frammentazioni, palinsesti iper personalizzati, anarchia degli orari e dei programmi, nicchie e contro-nicchie. Va in onda l’ora esatta, meridiano di Sanremo, Italia.

*****

SILVIA TRUZZI, IL FATTO QUOTIDIANO -
Non è la messa di Natale della televisione italiana che tutto amplifica e illumina. “Sanremo è Sanremo”, diceva Baudo in una famosa tautologia ormai sbiadita, travolta dal dall’usura e smascherata dalla mediocrità. Più che qualche indizio, ci sono le prove. Le finte, mezze, misere polemiche per esempio. Ieri nella conferenza di consacrazione del trionfo di capitan Conti - 49,5% per cento per la serata delle cover dove finalmente si è sentito qualche pezzo discreto - due “casi” si sono sgonfiati ancor prima di scoppiare.
Il primo riguarda il collegamento spaziale con Samantha Cristoforetti: il dialogo tra il conduttore e l’astronauta – non proprio un’operetta morale – era stato registrato, non era in diretta come gli spettatori credevano. La Nasa ha messo il video su Youtube prima che andasse in onda all’Ariston e dunque se ne sono accorti tutti. Ma è una bugia davvero piccola. Il secondo caso riguarda l’inviato de La Gabbia, finito per qualche ora al gabbio o quasi. Per la serie “lei non sa chi sono io” da qualche tempo un finto senatore della trasmissione di La7, va in giro in cerca di privilegi: ha provato a entrare all’Ariston, non c’è riuscito. Gli esperimenti sociologici non piacciono alle forze dell’ordine che si sono irritate per essere state giocate (e filmate ): il finto senatore è stato ospite della Questura fino a tardi. Ma insomma poca cosa, almeno se paragonata ai “disoccupati” che nel 2014 rovinarono la prima serata di Fabio Fazio. Giovedì c’era stato anche un allarme censura: le puntate del Dopofestival condotto da Sabrina Nobile e Saverio Raimondo – va in onda ogni sera sul web – sono sparite dal sito della Rai. Troppe parolacce, troppo sesso, battute politicamente scorrette? Il direttore di RaiUno ha fatto capire che i toni della trasmissione non gli piacciono, ma le puntate sono tornate visibili dopo poche ore. Mamma Rai non censura nemmeno più come una volta.
Come mezza Italia ha potuto notare, i comici non hanno fatto ridere. A eccezione di Luca e Paolo: loro sanno che, siccome in questa settimana Sanremo caput mundi, al Festival funziona prendere in giro il Festival. E chi lo fa. Ai due bisogna dar atto anche di una fugace, brillante quanto attesa, battuta sul premier, fiorentino come Carlo Conti: metti un toscano in tv a dire cazzate e il gioco è fatto. Si è parlato, in questi giorni, delle performance di satira solo per dire quando fossero misere.
L’unica “polemica”, nel regno delle polemiche, è stata sul ragazzino sovrappeso, schernito da Siani. Nemmeno un politico sono riusciti a far incazzare. Perfino Antonio Verro, membro del cda Rai in quota Berlusconi, si è profuso in complimenti, lodi e congratulazioni: lui che nelle passate edizioni tuonava critiche a destra e sinistra (soprattutto a sinistra). Parliamo di soldi. I ricavi pubblicitari saranno alla fine attorno ai 20 milioni di euro, i costi sui 15,5 milioni: “Tre anni fa ci fu un sostanziale pareggio, l’anno scorso un saldo positivo di circa 2 milioni e quest’anno almeno di 4”, ha spiegato Giancarlo Leone. Addio cachet milionari che facevano indignare gli italiani: vallette low cost e conduttori di casa. Nemmeno possiamo dire “quanto mi costi”.

*****

MARCO MOLENDINI, IL MESSAGGERO -
Conti finali. Vincitori e vinti. Uno su tutti il gregario di Rai1 diventato dominus della rete, Conti Carlo. Poi gli altri. A cominciare dal prescelto dei giovani, torneo paratennistico (a eliminatoria diretta) che ha rivelato il talento sicuro di un ragazzo destinato a fare strada come Giovanni Caccamo (che porta in dote il sostegno di Caterina Caselli, simpatia e originalità) che con la sua Ritornerò da te ha battuto i romani Kutso e guadagnato anche il premio della critica Mia Martini. Un bel segno, che rivela un ragazzo intraprendente che, finora, faceva i suoi spettacoli a domicilio nelle case private e che deve tutto all’idea di affrontare un giorno in spiaggia il conterraneo Franco Battiato, che da allora lo ha sponsorizzato.
LE USCITE
Ieri notte sono usciti dalla gara quattro big (con l’entrata in gioco della giuria di esperti presieduta da Claudio Cecchetto e del campione demoscopico chiamati a calibrare il televoto) Raf, Biggio e Mandelli, Lara Fabian e Anna Tatangelo.
Qualche fischio in sala ma niente drammi come una volta: nel Festival della tranquillità anche gli esclusi possono consolarsi, hanno avuto la loro ribalta con la dote di pubblico messo insieme da mister Conti e dalla sua banda. Gli ascolti sono stati siderali anche nella sera dedicata alle cover: quasi il 50 per cento di share (il 49,51), dieci milioni e mezzo di spettatori, che fanno di questa edizione la più seguita dal 2005, addirittura 15 punti più di un anno fa. Inimmaginabile. Effetto inevitabile di un Sanremone tagliato sul corpaccione vivo del pubblico televisivo: «La mia ricetta è accontentare tutti. Gli spettatori dell’Eredità e quelli di Tale e quale» ha raccontato il trionfatore Carlo Conti, che il successo ha reso disinibito e consapevole miscelatore televisivo. Col passare delle sere sempre più disinibito fuori dal palco e anche davanti alle telecamere: ieri s’è lanciato in una battutaccia quando uno dei Kutso ha indossato una maschera col suo volto: «E proprio uno scherzo del Kutso» si è lasciato sfuggire, mentre per tutto il Festival aveva evitato di pronunciare il nome del gruppo all’americana, come abitualmente i ragazzi romani vengono chiamati.
Sa, Conti, che il suo Festival gode perfino di un incremento della platea che abitualmente siede la sera davanti al video (un milione e 300 mila spettatori sopra la media del prime time), mentre il livello culturale resta piuttosto basso, il 57 per cento ha un livello di istruzione inferiore (fino alla scuola media), solo l’8 per cento sono i laureati.
SUPERSHOW
Insomma un supershow, un Tale e quale di una settimana con in più la scusa di una gara fra canzoni e l’eredità del marchio Sanremo. Un varietà capace di far discutere del perchè la Nasa non ha fatto cambiare rotta all’astronave di Samantha Cristoforetti per permettere al Festival di intervistarla in diretta (la Nasa però ha fatto la scorrettezza di mettere sul suo canale you tube l’intervista prima dell’Ariston). Un rito smisurato, dove si discetta dei gusti musicali dell’allenatore della Nazionale, dove si fa un po’ di promozione (dall’Expo alla fiction Suor Angela con Elena Sofia Ricci), dove si immagina che la presenza di un’imitatrice come Virginia Raffaele possa far circolare l’adrenalina con la sua nota parodia di Maria Elena Boschi. Brividi possibili in un Sanremo privo di sussulti politici, a parte Luca e Paolo, che giovedì hanno indirettamente citato Matteo Renzi, (oggi hanno fatto sapere che il premier ha fatto loro i complimenti). Ma la bravissima Virginia propone solo una formidabile centralinista (una Franca Valeri dei tempi nostri) e un’Ornella Vanoni bisbetica che se la prende con tutti, con le tre coriste «grazia, graziella e grazie al coro», con il Sanremo-Cocoon («che passa da Albano a Donaggio agli Spandau ballett») e dice che il Festival «è come fare l’amore: in tre minuti ti giochi la carriera». In chiusura accenno ai guai col fisco: «Non mi rompete i maroni con questa storia dei soldi in Svizzera, rompeteli a Mina che son trent’anni che sta a Lugano».
Stasera il baraccone chiude, oltre alla proclamazione del vincitore, prevede la presenza di Gianna Nannini, di Massimo Ranieri, della Pfm con la banda dell’Esercito. Enrico Ruggeri che ricorderà Jannacci, Gaber e Faletti, Giorgio Panariello, Ed Sheeran, il cast di Romeo e Giulietta, Will Smith, i ragazzi di Braccialetti rossi 2, su Rai1 da domenica, guardacaso al posto del Festivalone.
Marco Molendini

*****
ALBERTO MATTIOLI, LA STAMPA -–
Ormai è chiaro che il Sanremone è andato benissimo. Quindi Giancarlo Leone può concedersi un bollettino della vittoria, parlando di bilanci e progetti con democristiana prudenza ma anche con notevole sincerità. Figlio del Presidente più calunniato della storia della Repubblica, il direttore di Rai 1 è un televisionaro atipico: legge Proust («Ma anche Wodehouse!») e usa i congiuntivi.
E poi gestisce il baraccone più nazionalpopolare della tivù italiana...
«Ma Sanremo è nazionalpopolare! Volutamente, orgogliosamente nazionalpopolare. Parla al Paese, e a tutto il Paese: non solo a quella frazione che sta su Twitter o viaggia in Frecciarossa».
Non mi dica che sconfessa Fabio Fazio e i suoi festival radicalchic.
«Per nulla, tanto più che sono stati un successo, compreso il secondo. Però, dopo una forte sperimentazione, era giusto tornare a una tivù più consueta, alla centralità del linguaggio e della musica».
Ancora la centralità delle canzoni! Quest’anno tutto erano meno le sanremate cuore/amore tradizionali.
«Sì, invece. Non è questione di rime, ma di immediatezza di linguaggio. Il Volo o Nek parlano due lingue diverse, e va benissimo. L’importante è che parlino a più gente possibile. A Sanremo ci deve essere di tutto».
E di più, come da vecchio slogan Rai?
«Certo. Poi uno sceglie cosa vuol vedere. Per questo, l’offerta dev’essere ampia. Da Ferrero ai Pilobolus, per citare due ospitate molto diverse che però sono piaciute entrambe».
Parliamo volgarmente di soldi. È vero che quest’anno per la Rai il Sanremone è stato anche un affare?
«Anche meglio di quel che si pensava. Avevamo annunciato 20 milioni di ricavi e saranno più di 21, mentre i costi sono scesi a meno di 16, anche grazie al fatto che la convenzione con il Comune ne costa cinque e mezzo invece di sette. Insomma, l’azienda porta a casa circa cinque milioni di utile».
Farete un monumento a Carlo Conti.
«Lo merita. Incarna la grandezza dell’uomo medio nella quale mi riconosco io ed evidentemente si riconoscono anche gli italiani. Mi stupisce che molti non l’abbiano capito prima. Ma è forse l’effetto del detestabile snobismo radicalchic che permea i media».
Ma, in pratica, in cosa consiste la bravura di Conti?
«Soprattutto nel lavorare per sottrazione. Non ha mai sovrapposto se stesso al programma e in questo modo ne ha esaltato i contenuti. Ha ritmo, leggerezza, rende facile l’accesso al pubblico. La semplicità, in tivù e non solo lì, non è un difetto».
Scelga tre personaggi rivelati da questo Sanremo sui quali la Rai investirà.
«Il primo è Tiziano Ferro. Che fosse un grande cantante lo sapevamo. All’Ariston si è rivelato anche un ottimo showman. Un po’ come era Mina. Se ci starà, avrà un programma suo. Io almeno glielo proporrò».
Secondo?
«Il Volo. Perfetti per il pubblico di Rai 1: bravi ragazzi, talentuosi ma umili».
Terzo?
«Lavorandoci sopra, Rocío Muñoz Morales. Funziona bene nella fiction, ma questo Sanremo dimostra che è lo stesso anche nell’intrattenimento. Una bellezza rassicurante, serena, normale».
Non difenderà anche le indifendibili Arisa ed Emma.
«Non abbiamo mai pensato che diventassero delle conduttrici dall’oggi al domani. Abbiamo scelto due cantanti di successo perché per fare spettacolo bastava, appunto, che facessero qualcosa che di solito non fanno: condurre. Si sono mostrate per quello che sono, nella loro verità. In questo senso, hanno funzionato benissimo».
Ammetta che la battaglia di Sanremo è stata vinta anche perché il nemico ha rinunciato a combatterla: Mediaset non ha controprogrammato.
«Mediaset non controprograma il Festival da almeno cinque anni. Gli inciuci o Raiset o il Nazareno non c’entrano. È solo una questione di marketing. Sanno che non ha senso andare contro un programma che, anche quando va male, fa il 40% di share. A parti invertite, io farei lo stesso».
Adesso può pure dirlo: Carlo Conti condurrà anche Sanremo 2016.
«Conti era già maturo per farlo dai tempi del “Tale e quale show”. Ma era il momento di Fazio. Adesso Carlo ha superato l’esame di maturità e sì, questo Sanremo potrebbe anche essere l’inizio di un ciclo. La Rai è pronta, poi deciderà lui».
Conti è un superaziendalista e non dirà certo di no a mamma Rai.
«È esattamente quello che spero».

*****
LEONARDO IANNACCI, LIBERO -
Siamo arrrivati ultimo giro di pista con una certezza: non saranno in tanti a coltivare rimpianti domani, quando il Festival 2015 sarà infilato nelle polverose teche Rai ed etichettato come il primo Sanremo dell’era-Conti. Un’edizione normalizzante ma dimenticabile, conveniente per la Rai (si chiuderà con un utile di 4 milioni di euro per via delle consistenti entrate pubblicitarie) ma artisticamente senza sussulti, lineare ma piallata nei contenuti e un po’ anche nelle note. Questo vogliono gli italiani oggi, mettiamocelo in testa. Di era Conti, geologica e speriamo non archeologica, si dovrà parlare nei prossimi anni, quando Mister Eredità traghetterà parecchi Festival venturi: Conti si farà forte, al momento di ridiscutere il contratto, di un risultato clamoroso in termini di audience, confermato nella serata di giovedì: 10.586.000 telespettatori pari al 49,50% di share con una crescita di ben tre milioni e 15 punti di percentuale rispetto alla terza serata del deludente Sanremo 2014 di Fazio e Littizzetto che fu seguita da 7.7 milioni di spettatori con il 34,94% di share. IL NORMALIZZATORE Re Carlo è normalizzante anche quando spiega il suo successo: «Sono uno chef che cucina quel che il pescatore pesca: se è un dentice, cucino il dentice, se è un sarago, via col sarago. Per questo Sanremo avrei voluto super-ospiti ma i soldi erano quelli che erano e mi sono adeguato ai tempi. La chiave di questo successo? Per me uno show musicale deve accontentare tutti, i fan di Lady Gaga e quelli di Al Bano». Il nuovo Pippo Baudo ha ricevuto pure la benedizione del vecchio Pippo: il quale, quasi 80enne ma sotto sotto speranzoso di essere qui il prossimo anno nelle vesti di co-conduttore, ha telefonato a Mister Eredità spargendo un pizzico di veleno: «Complimenti Carlo, hai fatto un bel Festival: l’unica cosa che non ho gradito è le comparsata di Er Viperetta e di Antonio Conte, ct indagato per frode sportiva. Segno dei tempi che stiamo vivendo». Anche alla vigilia dell’atto finale l’atmosfera all’Ariston è stata sonnolenta: zero polemiche, zero baruffe tra le vallette (Arisa ed Emma, ieri più sciolte e non trasparenti come Rocìo), zero trasgressioni e - più i giorni passano, più ne siamo convinti - zero canzoni veramente belle tra le sedici che si contenderanno stasera la vittoria. Anzi no, una ce n’è: trattasi di «Adesso e qui» della Ayane, elegante dialogo tra due amanti. Con essa Malika va sopra le righe in questo Festival che celebra l’amore tutto fiori-cuore-amori. Il suo è un bel brano che spalma poca melassa ed è leggermente trasgressivo, quasi neorealistico nelle sue passioni proibite. Nelle quote dei bookmakers, la suadente Malika che ha affascinato anche per l’adolescenziale apparecchio tra i denti, non è la prima favorita: in pole ci sono Nek, con la tambureggiante «Fatti avanti amore» che sta andando forte in radio, e - sic - Il Volo. I tre mostri dell’ugola, che tenori non possiamo chiamare visto che Gianluca Ginoble è un baritono nato, puntano a conquistare l’Italia con la tonitruante «Grande amore». Outsider da podio sono i chiassosi Dear Jack, votatissimi al televoto, ed Annalisa, amata da chi ama i talent. I GIOVANI A proposito di giovani, la serata di ieri ha esaltato Giovanni Caccamo, gioiellino uscito dalla scuderia di Caterina Caselli, in gara fino all’ultimo con i Kutso, Amara, ed Enrico Nigiotti. La sua «Ritornerò da te» ha vinto il premio della critica. I picchi di pathos della penultima serata si sono avuti quando Conti ha introdotto Sammy Basso, 19enne affetto dalla sindrome di invecchiamento precoce; quelli di comicità quando la travolgente Virginia Raffaele ha imitato Ornella Vanoni; quelli di emozione quando Giovanni Allevi ha pizzicato da par suo il pianoforte sulle note di «Loving you». Prima dell’incoronazione del re o della reginetta, stasera interminabile pappardella finale con i big finalisti, rimasti in 16 da 20 che erano, a ripetere il loro verso. Poi un atteso duetto tra Gianna Nannini e Ranieri sulle note di «O’ sole mio», Will Smith, Ed Sheeran, Giorgio Panariello. Infine Enrico Ruggeri: presenterà l’inedito «Tre signori» dedicato a tre colossi: Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Giorgio Faletti. Giusto per non dimenticare che la musica può anche essere intelligenza.