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 2015  febbraio 13 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - RISSA ALLA CAMERA SULLA RIFORMA ELETTORALE


REPUBBLICA.IT
ROMA - "Deriva autoritaria", "vedrete i sorci verdi" e "votatevi da soli questo obbrobrio di riforme". Le forze dell’opposizione - Fi, M5s, Lega, Sel, FdI ed ex 5 Stelle - annunciano l’abbandono dell’aula mentre la maggioranza è determinata ad andare avanti ad oltranza sul nuovo Senato. Il Pd però si spacca, come anche Forza Italia. Di fatto, imploso il patto del Nazareno, le tensioni sulle riforme non fanno altro che portare a galla le divisioni interne alle due forze politiche. Nella minoranza dem c’è chi appoggia l’Aventino e fa sapere che non parteciperà alle votazioni. E’ il caso di Pippo Civati e Stefano Fassina che si chiamano fuori, mentre Gianni Cuperlo propone una "pausa tecnica". Sul ddl Boschi è ancora scontro a Montecitorio (la diretta tv).
Poco prima delle 20 è cominciata la seconda parte dell’assemblea del gruppo Pd convocata da Matteo Renzi, che ha intenzione di far votare la sua relazione che impegna i dem ad andare avanti sulle riforme. Subito dopo il premier incontrerà anche Scelta Civica, per l’Italia-Cd e Gruppo Misto. Mentre Ncd non parteciperà, come chiarisce la capogruppo alla Camera Nunzia De Girolamo.

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Frasi durissime arrivano da Renato Brunetta, capogruppo a Montecitorio di una Forza Italia che al Senato questa riforma l’ha già approvata: "Denunciamo - dice invece oggi - la deriva autoritaria che, nel metodo e nel merito, la riforma costituzionale e la legge elettorale hanno assunto in questa fase della vita politica del Paese. Un colpo mortale alla democrazia parlamentare". E poi: "Abbiamo deciso di non partecipare ai lavori dell’aula. Altro che Aventino, vedranno i sorci verdi". E in proposito pubblica questa foto su Twitter:





Ma nel partito non tutti sono d’accordo, e le insoddisfazioni emergono all’istante: in via di costituzione un fronte di deputati a favore del rientro in aula. Pare, peraltro, che anche alla riunione dei deputati Fi ci sia stata una discussione particolarmente accesa. Tra i deputati ’pro confronto’, Saverio Romano, Maria Stella Gelmini, Elena Centemero e Stefania Prestigiacomo. Alla fine Centemero e Rocco Palese sono rimasti in aula "per controllare la validità del voto", come ha spiegato Brunetta.

LEGGI Giovedì tra risse, ostruzionismo e tentativi di mediazione

"Piuttosto che non farle, le votiamo da soli", replica in un primo momento il capogruppo democratico alla Camera, Roberto Speranza, a pochi minuti dalla prima parte dell’assemblea del partito svoltasi nel pomeriggio e alla quale interviene anche Matteo Renzi, salvo poi ritentare una mediazione dinanzi a un muro contro muro che avrà come effetto d’impatto un emiciclo parzialmente vuoto. E proprio ai suoi (riuniti dopo le insistenze della minoranza dem intrisa di malumori) il premier ribadisce il concetto: "Se passa la logica per cui l’ostruzionismo blocca il diritto e il dovere della maggioranza di fare le riforme è la fine. Minacciano di non votare? Problema loro". Qui "c’è un derby tra chi vuole cambiare l’Italia e chi vuole rallentare il cambiamento. Nelle opposizioni sta avvenendo un gigantesco regolamento di conti". A questo punto Renzi avrebbe confermato anche le scadenze temporali: sabato la chiusura della fase dedicata agli emendamenti. Voto finale a marzo. Più tardi su Twitter Renzi lancia un appello agli italiani:

Al quale Brunetta risponde prontamente:

Poi è il sottosegretario Ivan Scalfarotto a ribadire con un tweet le affermazioni del leader Pd: "Non ho subìto ricatto Cav - scrive -, non mi farò ricattare da Grillo".

Parole che stoppano sul nascere le richieste di una fetta del partito. Soltanto poco prima, infatti, era stato il dissidente dem Alfredo D’Attore ad anticipare la linea della minoranza: le riforme non si possono fare a colpi di maggioranza - aveva detto -, sì al dialogo col M5s. Ecco perché, durante l’assemblea con Renzi, a ribadire il concetto espresso da D’Attorre è Cuperlo che propone di aprire alla richiesta del Movimento 5 Stelle di votare a marzo l’articolo 15 del ddl Boschi, quello sul referendum. "Non possiamo votare le riforme - ha spiegato Cuperlo - con l’aula mezza vuota".

A riunione conclusa gli fa eco Fassina: "E’ inaccettabile votare" le riforme "da soli, abbiamo fatto il capolavoro politico di ricompattare tutte le opposizioni". Ed è a questo punto che Speranza ci riprova con un appello al M5s collocandosi con le sue dichiarazioni a metà strada tra la posizione del premier e quella della minoranza dem: "Non siamo soddisfatti - sottolinea il capogruppo -, un’aula con i banchi vuoti non è l’aula che vogliamo. Abbiamo i numeri per andare avanti anche da soli, ma penso che sia un errore". Tra i banchi delle opposizioni è rimasto un deputato per gruppo per non far decadere gli emendamenti delle minoranze.

Le quali, nel frattempo, decidono di rivolgersi pure al capo dello Stato. L’iniziativa la prende il forzista Brunetta che contatta il segretario generale del Quirinale, Donato Marra, per sondare la disponibilità di Sergio Mattarella a ricevere una delegazione di deputati ’scontenti’. E’ sempre Brunetta a far sapere che il presidente della Repubblica ascolterà le opposizioni, gruppo per gruppo, da martedì. A questo punto Beppe Grillo commenta sul suo blog: "Il silenzio di Mattarella di fronte allo scempio della Costituzione fatto da Renzie, mai eletto neppure in Parlamento che ieri notte si aggirava come un bullo in parlamento a provocare le opposizioni. Questo silenzio è inquietante, forse peggio dei moniti di Napolitano".

Polemiche, mosse e richieste che arrivano dopo il caos che ha tenuto banco a Montecitorio nelle ore notturne: prima l’accordo sfiorato tra M5s e Pd, poi la bagarre in aula e infine la ’rissa a sinistra’, con scazzottata tra deputati di Sel e di Pd.
Riforme: bagarre M5s, aula sospesa
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Dopo la mezzanotte il premier è piombato a Montecitorio proprio per dare un segnale contro l’ostruzionismo. Ha scherzato e discusso con esponenti di varie forze politiche, tra cui Arturo Scotto (Sel) e Giancarlo Giorgetti (Lega). Poi il segretario del Pd si è avvicinato ai banchi di Forza Italia per spiegare i motivi per cui occorre andare avanti. Sono otto mesi - avrebbe detto, secondo quanto è stato riferito da più fonti - che le riforme sono bloccate alla Camera. Se questa Camera non riesce a votare le riforme prendo atto che la legislatura è finita e si va a votare con il Consultellum, a me va benissimo.

Stesso ragionamento fatto anche ad altri esponenti del Nuovo centrodestra. Alcuni deputati fittiani, tra cui Pina Castiello, riferiscono la tesi illustrata dal premier: il Pd - è stato il ragionamento del premier - ha fatto un accordo con Forza Italia sulle riforme, non sul Quirinale, facendo saltare l’intesa state portando Silvio Berlusconi nel baratro. Se andiamo al voto faccio chiarezza, dico al Paese quello che sta succedendo e noi stravinciamo.
Riforme, rissa in aula alla Camera: deputati salgono sui banchi
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Fonti parlamentari del Pd sottolineano come si sia trattato di ragionamenti non minacciosi. In ogni caso il muro contro muro sul pacchetto costituzionale dura da più giorni. Ma è questa notte che si sono registrati forti momenti di tensione. Dopo un ’parapiglia’ che ha coinvolto deputati del Pd e di Sel (Gianni Melilla di Sel ferito ad una mano è andato anche nell’infermeria di Montecitorio; un’altra deputata di Sel, Donatella Duranti, dolorante ad una spalla, ha ricevuto un calcio durante la rissa) è stata sospesa più volte la seduta. Alla fine il bilancio è di 13 espulsi: si tratta di Carla Ruocco, Alfonso Bonafede, Alessandro Di Battista, Davide Tripiedi, Diego De Lorenzis, Emanuele Scagliusi, Giuseppe Brescia, Stefano Vignaroli, Arianna Spessotto, Gianluca Vacca, Mirella Liuzzi. "Siamo noi i custodi della Costituzione", attacca Beppe Grillo.

REPUBBLICA.IT
PEZZO PRECEDENTE
ROMA - La Camera diventa teatro di scontro durante la seduta notturna per la riforma del Senato, poi sospesa dal vicepresidente Roberto Giachetti. In un clima di forte tensione per la bagarre causata dal M5s, la rissa è scoppiata improvvisamente tra un deputato di Sel e uno del Pd, con il primo che si è slanciato verso il secondo gridando "pezzo di m...". Immediato l’intervento dei colleghi di entrambi e dei commessi.

Alla seconda ripresa dei lavori, dopo una pausa caffé, il premier Matteo Renzi è arrivato in aula. Una bagarre che fa il paio con il caos della sera precedente, a cui hanno fatto seguito le polemiche sulla mancanza del numero legale con tanto di seduta sospesa per le assenze della maggioranza.
Riforme, rissa in aula alla Camera: deputati salgono sui banchi
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A ruota, l’ok al federalismo fiscale ma - subito dopo - tiene banco il fallimento della trattativa al cardiopalma tra maggioranza (Pd) e opposizione (Movimento 5 Stelle): al termine di un confronto serrato, lo scontro è altissimo. Dal Movimento si arriverà a riesumare l’accostamento al nazi-fascismo già usato in passato e a bollare il "Pd versione Renzi come un nazismo formato XXI secolo" con tanto di fotomontaggio del simbolo Pd sul petto di Benito Mussolini. (foto).
Riforme: rissa in aula, deputati in piedi sui banchi
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Se il Partito democratico - dicono i pentastellati - non accetterà la mediazione, noi continueremo con l’ostruzionismo. La risposta è picche: "Se è così, allora andiamo avanti a oltranza", è il messaggio che i dem reinoltrano al mittente. La controreplica è una dichiarazione di guerra: "Alziamo le mani, non garantiamo l’andamento istituzionale dei lavori, ve ne accorgerete".

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Subito dopo, Alessandro Di Battista (M5s) prova a rilancia su Twitter con un argomento su cui il Pd si è già espresso col pollice verso: il referendum propositivo senza quorum.

Nel mezzo, i problemi interni al Partito democratico con un’altra grana all’orizzonte per il premier e segretario del Nazareno: l’ultimatum lanciato dalla minoranza Pd la quale, dopo la rottura del patto del Nazareno, torna ad alzare la voce e ad avanzare richieste. Sennò - fanno sapere - sul voto sarà un ’liberi tutti’. A Montecitorio, insomma, è un’altra giornata carica di fibrillazioni e dibattito politico intenso. Sul tavolo continua a esserci la riforma costituzionale su cui il premier vuole fare in fretta.

Un risultato sicuro è che l’aula della Camera ha dato il via libera all’articolo 33 del disegno di legge che riforma il Senato e il Titolo V della Costituzione, il quale modifica l’articolo 119 della Carta. L’articolo, approvato con 295 sì, 88 no (tra cui quelli di Forza Italia) e 15 astenuti, tratta l’autonomia finanziaria degli enti territoriali e prevede che Comuni, Città metropolitane e Regioni abbiano autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrano ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea. Nel pomeriggio, con 283 sì e 100 no ok anche all’articolo 34 del ddl che modifica il 120 della Costituzione introducendo "i casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall’esercizio delle rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell’ente".

La giornata di lavori. Tuttavia, nel corso della mattinata le polemiche hanno continuato ad accavallarsi. Dopo il caos di mercoledì sera a Montecitorio - quando la Camera ha detto sì alla seduta fiume voluta dal Pd per accelerare sul disegno di legge ma la bagarre sui banchi e le intemperanze tra Ncd e Lega (foto) hanno costretto la presidenza a interrompere i lavori - si è dovuto registrare il primo incidente di percorso sul ddl Boschi al vaglio dei parlamentari. Nella discussione sul nuovo Senato è venuto a mancare il numero legale per appena due voti. Il vicepresidente di turno dell’assemblea, Giachetti, ha dovuto sospendere la seduta per un’ora.

Un altro stop and go che avrebbe profondamente irritato Laura Boldrini. La presidente della Camera - già insultata dai grillini che in aula le hanno urlato "serva" - avrebbe espresso un giudizio duro sulla maggioranza che proprio durante la seduta fiume ha l’obbligo di garantire il numero in aula.
Riforme, seduta sospesa: M5s urla "serva" a Boldrini
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Il M5s prende la propria posizione: rimarremo in aula "tranquilli" ma non prenderemo parte al voto. Dal governo, a intervenire - sempre via Twitter - è Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme.

Ma nella minoranza dem comincia a farsi sentire l’irritazione. La prima bordata arriva da Stefano Fassina che prova a mettere in discussione il metodo della ’seduta fiume’ voluto proprio dal suo partito: "Andare avanti a tappe forzate è un problema. Bisogna prendere atto che il patto del Nazareno non c’è più e ci si rifiuta di affrontare le conseguenze politiche. Bisogna prendere in considerazione le richieste che arrivano almeno da una parte delle opposizioni". Ed è a questo punto che il relatore del ddl riforme, Emanuele Fiano (Pd), annuncia: "Accoglieremo alcune richieste di M5s e Lega".

Attorno alle 16 il faccia a faccia tra i due gruppi perde corpo e si sgretola. Le parole pronunciate dalla deputata M5s Fabiana Dadone sono chiare: "Purtroppo la pausa", nonostante "una nostra apertura molto larga sulla democrazia diretta, non ha portato buoni frutti", siamo a "un nulla di fatto". A questo punto "non posso garantire un andamento del tutto istituzionale dell’aula". Poi spiega le richieste targate 5 stelle: "Introduzione del referendum propositivo e abrogativo con zero quorum, la possibilità della minoranza di sollevare questioni di fronte alla Consulta e l’obbligatorietà a discutere le leggi di iniziativa popolare" in tempi certi. La conseguenza del mancato accordo? La resa: "Alzo le mani", chiosa. Riparte il tam tam su Twitter, dopo il post di Di Battista, Danilo Toninelli si limita a scrivere.

A ruota, sempre dal M5s è Davide Crippa a lanciare un altro genere di ultimatum: "Vi chiediamo una sospensione di quattro ore per dipanare il punto cardine della partecipazione dei cittadini alla vita politica inserendola nella Costituzione. Se non ce la date credo che ce la prenderemo".

Dinanzi alla richiesta di una sospensione di quattro ore, la presidente di turno Marina Sereni fa presente che non ci possono essere pause visto che l’aula è in fase di seduta fiume e che comunque a breve ci sarà uno stop ’tecnico’ per un nuovo ’comitato dei nove’. La presidente mette quindi in votazione l’articolo 34 del ddl riforme (poi approvato) ed è subito tensione tra Pd e M5s. Il gruppo dei pentastellati protesta a voce sempre più alta. Dai banchi dem alcuni deputati, tenuti buoni da Ettore Rosato, replicano con urla spazientite. La tensione sale quando il grillino Diego De Lorenzis grida "serva" contro il banco della presidenza. La Sereni non ammette l’uso del termine e lo minaccia di espulsione. De Lorenzis vorrebbe replicare ma il collega Di Battista lo blocca e tenta di calmarlo.
Riforme, De Lorenzis (M5s) a presidente di turno Sereni: ’’Serva’’
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Una situazione di cui Renato Brunetta (Fi) approfitta per mandare un messaggio a Renzi e Boschi.

Passano i minuti, riparte l’ostruzionismo dei grillini. A tenere banco è la questione della regolarità delle presenze dei deputati indicati in ’missione’ ma presenti (o comunque visti) nell’emiciclo. L’attenzione delle opposizioni si concentra soprattutto sull’unico rappresentante del governo presente in aula, il sottosegretario alle Riforme, Ivan Scalfarotto, indicato anche lui, almeno fino al momento delle contestazioni, come ’in missione’.

In un crescendo di litigiosità, è sul blog di Beppe Grillo che compare un post a firma ’parlamentari M5s’. Vi si legge: "Di notte lavorano i ladri di appartamenti, non si cambia la Costituzione. Invece in questo Paese, ormai stretto nella morsa di un governo che comanda come se fosse il padrone, la Costituzione viene massacrata in tutta fretta col favore delle tenebre e del Festival di Sanremo".

L’escalation non si arresta. Su Facebook è il deputato M5s Manlio Di Stefano a postare una foto di Mussolini con lo stemma del Pd sul petto e a scrivere: "Dopo un’estenuante battaglia, udite bene, per poter dialogare sulle riforme costituzionali dato che il Pd non accetta nemmeno confronto, siamo arrivati a chiedere una sola modifica a fronte delle 2000 che avevamo presentato. Chiediamo una cosa che era, addirittura, nel programma elettorale del Pd ovvero il referendum propositivo senza quorum. Traducendo, chiediamo che i cittadini possano essere parte attiva della vita politica proponendo leggi. Una cosa ovvia. La risposta del Pd? Nein! Nemmeno Mussolini fece tanto". Poi l’accostamento tra "Pd versione Renzi" e "rappresentazione del nazismo formato XXI secolo".


Tuttavia, il Pd i conti deve farli anche al proprio interno. Perché la minoranza dem non molla e continua a dare filo da torcere: "Abbiamo chiesto poche modifiche - dice Davide Zoggia - ma finora c’è stato detto di no. Visto che il patto del Nazareno non c’è più, ci aspettiamo che ci sia responsabilità da parte del governo e che ci sia un confronto aperto. Altrimenti è evidente che ognuno sarà libero di votare e che nell’aula emergeranno le divergenze all’interno del partito". Gli fa eco Alfredo D’Attorre: "Siamo molto irritati, non c’è stata una riunione del Pd per un confronto. E’ sconcertante che dopo che ci hanno portato a questa situazione e che dopo la fine del Nazareno permanga lo stesso atteggiamento di rigidità. Non è accettabile questo atteggiamento, nel merito nel metodo. O ci sono delle aperture oppure è chiaro che sui nostri emendamenti andremo avanti e li voteremo in aula".

PEZZO DEL CORRIERE DI STAMATTINA
DINO MARTIRANO
ROMA Quando la seduta fiume sulla riforma della Costituzione Renzi-Boschi rischia di trasformarsi in palude, le opposizioni unite mettono mano al pallottoliere e alle invettive. Il grillino Diego De Lorenzis è scatenato contro la presidente Laura Boldrini («Basta insulti!», lo ammonisce la vicepresidente di turno, Marina Sereni, che si becca una raffica di «serva, serva» dai banchi del M5s) mentre Manlio Di Stefano dice che «il Pd versione Renzi è il nazismo del XXI secolo». In questo clima rovente, le opposizioni provano a calcolare, tabulati alla mano, che la maggioranza in Aula schieri anche un’ottantina di «fantasmi»: ministri, sottosegretari, presidenti vari che sono in «missione», e quindi contribuiscono ad abbassare il numero legale, ma poi a rotazione sono presentissimi al banco del governo. E i «fantasmi» votano, fanno notare il leghista Gianluca Pini e Massimo Corsaro di Fratelli d’Italia. Mentre la grillina Maria Edera Spadoni ironizza sul sottosegretario Ivan Scalfarotto, «che c’è e non c’è», che pur in «missione» è lì che dispensa i pareri. «Tutto regolare», replica la presidente Sereni ma a quel punto almeno Scalfarotto «rientra dalla missione».
Nonostante le missioni di massa, alle 9.30 del mattino (complice anche una seduta notturna agitata terminata alle 2) il governo va sotto sul numero legale. La seduta fiume si interrompe d’ufficio. E i grillini capiscono che davanti all’accelerazione della maggioranza (proseguire in seduta fiume vuol dire privare l’opposizione della possibilità di presentare altri subemendamenti in corso d’opera) è ora di provare a mettere il Pd con le spalle al muro. Brunetta (FI) chiede «l’intervento del capo dello Stato per quello che sta accadendo in Parlamento». Arturo Scotto dice che Sel non partecipa «al mercato degli emendamenti». I grillini invece insistono, contrattando tre emendamenti in cambio della fine del filibustering: 1) referendum abrogativi senza quorum, 2) controllo preventivo di costituzionalità su tutte le leggi, 3) data certa per la discussione delle proposte di legge di iniziativa popolare. Ettore Rosato del Pd parla con i grillini ma basta incrociare il ministro Boschi per capire che il mandato è stretto: «Di referendum con il M5S non ne abbiamo mai parlato...».
E lì invece che i grillini volevano andare a parare. Ma anche il relatore Emanuele Fiano (Pd) sbarra il cammino. Per cui il ddl Renzi-Boschi rimane immutato: se le firme raccolte dai promotori del referendum abrogativo sono 500 mila, la consultazione è valida se poi vota la maggioranza degli aventi diritto, se invece le firme sono 850 mila basta la maggioranza dei votanti alle «ultime elezioni politiche».
Più complessa la trattativa con la minoranza del Pd. Per Rosy Bindi, ora serve «più tempo per approfondire» mentre Stefano Fassina dice che «ora si deve andare avanti con il riformista di sinistra». In realtà, FI corteggia la minoranza del Pd al punto che Daniele Capezzone parla in Aula in favore della collega Dem Simonetta Rubinato «che si è vista bocciare un emendamento di buon senso condivisibile da noi di FI».
La minoranza dem ha posto due temi: 1) abbassare da 1/3 a 1/10 del plenum il numero necessario di deputati che possono chiedere il sindacato preventivo di costituzionalità della legge elettorale; 2) estensione del «sindacato preventivo» anche all’Italicum. Su questo, spiega Andrea Giorgis (Pd), «c’è una discussione». Ben più ampio il fronte dei cattolici che punta a una maggioranza qualificata per la dichiarazione dello stato di guerra. Ecco quando FI potrebbe strizzare l’occhio alla minoranza pd.
Quando la seduta fiume è ancora sul punto di diventare pantano, Pino Pisicchio (Misto) calcola che mancano 700 voti. Nell’Aula a quell’ora di scrutini ne erano stati fatti 128. E il premier Matteo Renzi sottolineava: «La nostra maggioranza non si blocca» e «lavora anche di notte».
Dino Martirano

PEZZO DI MASSIMO FRANCO
E ra inevitabile che i toni delle opposizioni crescessero contro il governo. Il fallimento di una mediazione tra Pd e Movimento 5 stelle, tentata ieri, e la rottura del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi non potevano non avere conseguenze parlamentari. Il fatto che FI arrivi a chiedere l’intervento del capo dello Stato, Sergio Mattarella, perché richiami Palazzo Chigi a trattare in modo più corretto il Parlamento, si iscrive in questo clima di tensione e di guerriglia politica. Eppure non è facile liquidare quanto sta accadendo come una polemica fisiologica.
L’impressione è che i fattori di incertezza e la tensione stiano crescendo nella stessa maggioranza. Per paradosso, la fine dell’intesa con Berlusconi non ha messo a nudo solo le magagne dell’ex Cavaliere e del suo partito. Sta sottolineando anche le contraddizioni irrisolte del Pd, e i problemi dell’esecutivo con il Parlamento. Il patto del Nazareno «proteggeva» le esigenze berlusconiane. Ma una volta disdetto o comunque congelato, la domanda è se per caso non fornisse una copertura politica anche a Renzi; se non gli consentisse di far passare alcuni provvedimenti e di additare alcune priorità, giustificandoli con l’esigenza di non spezzare l’asse istituzionale con FI.
Dunque, è vero che il centrodestra sembra andare alla deriva, verso un’opposizione subalterna alla Lega di Matteo Salvini e con una leadership contestata. Lo stesso Pd, però, è in sofferenza. Quando la minoranza chiede più tempo su riforme costituzionali e sistema elettorale, lo fa partendo dal presupposto che non c’è più l’intesa con Berlusconi a impedirlo. La risposta renziana, tuttavia, non si discosta da quelle che venivano date «prima». Dunque, l’indicazione ai gruppi parlamentari è di procedere come se nulla fosse accaduto, ratificando agli accordi già raggiunti. Ma questo lascia prevedere sedute-fiume vissute come forzature; e polemiche tra i poteri dello Stato. Se si aggiungono i veleni che lambiscono Palazzo Chigi sulle speculazioni finanziare legate alla riforma delle maggiori banche popolari, e il rinvio a maggio del decreto sulle frodi fiscali, emerge uno sfondo di grande precarietà: come se il successo di Renzi sull’elezione di Mattarella fosse un ricordo. In realtà, il premier ritiene di avere tuttora un controllo ferreo della situazione; e di poter condurre i giochi parlamentari e di governo, conoscendo la debolezza di alleati e avversari e il loro timore di una fine anticipata della legislatura. Gli aut aut alla Camera nascono da questa sicurezza, che sembra proiettarsi anche sul piano internazionale. È stato notato che a differenza di quanto avveniva con Giorgio Napolitano, Renzi non ha ritenuto di consultarsi con Mattarella prima di andare a Bruxelles per il vertice europeo. Ma forse è solo perché i rapporti sono in fase di rodaggio.

DA REP DI STAMATTINA

NAZIONALE - 13 febbraio 2015
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LE SCELTE DEI PARTITI
LA GIORNATA
Aut aut della minoranza Pd “Renzi dialoghi o sarà dissenso” Il premier: “Non ci fermiamo”
Seduta-fiume e bagarre alla Camera. Ostruzionismo M5S Boschi: “Noi andiamo avanti, l’obiettivo è cambiare l’Italia”
ROMA .
Nottate di filibustering, la minaccia dei 5Stelle — poi rientrata — di occupare l’aula, bagarre. A Montecitorio è caos sulla riforma costituzionale, con le opposizioni sulle barricate e sedute-fiume contestate dalla stessa minoranza del Pd. Il voto procede a singhiozzo. Durante una pausa tecnica, prima di riprendere la notturna, il governo cerca di trattare con Forza Italia e la Lega per contenere l’ostruzionismo. Ma lo scontro tra il Pd e i 5Stelle è totale e il compromesso su tre emendamenti dei grillini fallisce subito. Da Bruxelles il premier Renzi bacchetta: «Stupisce chi ha idee in minoranza e prova a fare ostruzionismo e tentativi di blocco. Ma la nostra maggioranza non si blocca, bello e positivo che lavori anche di notte».
Al clima di ostruzionismo si somma però l’aut aut della sinistra dem che chiede più «flessibilità»: «Abbiamo chiesto poche modifiche e ci è stato risposto di no. O c’è maggiore flessibilità oppure ciascuno sarà libero al momento del voto». I “niet” del ministro Maria Elena Boschi devono cadere, questa è una rigidità — accusa il bersaniano Alfredo D’Attorre — che dopo la fine del Patto del Nazareno suona «incomprensibile e comica». E Pier Luigi Bersani insiste perché sia inserita la norma transitoria che permetta un giudizio preventivo della Consulta sull’Italicum. Un emendamento su cui c’era il veto di Forza Italia, che però ora si è sottratta al Patto. «Con un po’ di buonsenso — rincara l’ex segretario — si possono approvare modifiche come questa. Se il governo si impunterà sul “no” alla richiesta di abbassare il quorum del 30% dei deputati per il ricorso, sarà solo per motivi politici, perché non c’è altra ragione». Il governo non intende sottostare a ricatti e veti. Il ministro Boschi annuncia: «Noi andiamo avanti senza farci bloccare, il nostro obiettivo è cambiare l’Italia». La lunghissima giornata parlamentare prosegue tra ostruzionismo e trattative. In mattinata a inizio seduta manca il numero legale, e la presidente Boldrini si irrita e osserva che «se i gruppi parlamentari di maggioranza pretendono che l’aula lavori a ritmi serrati e con sedute molto lunghe, devono essere in grado di garantire il numero legale». Stefano Fassina denuncia: «Andare avanti a tappe forzate è un problema, bisogna prendere atto che il Nazareno non c’è più. Invece ci si rifiuta di affrontare le conseguenze politiche».
( g. c.)
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FOTO: ANSA

PEZZO DI REP
FRANCESCO BEI
ROMA .
Altro che «palude». L’immagine evocata da Renato Brunetta per descrivere l’aula di Montecitorio non corrisponde alla realtà vista da palazzo Chigi. Tutt’altro. Al netto dell’ostruzionismo messo in campo dal Movimento 5Stelle, il premier ha in mente di chiudere la partita della riforma costituzionale presto, prestissimo. Forse persino stanotte, in anticipo di un giorno sulla scadenza di sabato fissata nel “cronoprogramma” ufficiale.
Tanto ottimismo è sorretto dal cambio di strategia arrivato dopo la rottura del patto del Nazareno. Riassumibile in un motto, lo stesso che ha portato all’elezione di Sergio Mattarella: prima l’unità del Pd. Una svolta che ieri ha iniziato a prendere corpo con un passaggio fondamentale. Il governo, nei colloqui informali con la minoranza, ha aperto alla principale richiesta degli oppositori interni. Ovvero sottoporre l’Italicum al controllo preventivo della Corte costituzionale. Una modifica, su cui il premier aveva già aperto prima dell’elezione del Quirinale, ma radicalmente invisa a Berlusconi. Nel timore di una bocciatura dei cento capilista bloccati, l’unico vero punto di vulnerabilità della nuova legge elettorale. Ma la mossa del governo di fatto mette Forza Italia con le spalle al muro, l’ennesimo segnale di ritorsione politica dopo la giravolta dell’ex Cavaliere.
Ieri, nonostante tutti gli sforzi di Rosato e Speranza — i due ambasciatori scelti per trattare con i Cinquestelle — non è stato invece centrato l’altro obiettivo della giornata. Ovvero il coinvolgimento, seppur parzialissimo, dei grillini nella riforma costituzionale. Un obiettivo altamente simbolico, che avrebbe spezzato il fronte delle opposizioni e fatto balenare davanti agli occhi di Berlusconi lo spettro di una sua sostituzione con i cinque stelle. Ma i grillini, puntando tutto su un emendamento impossibile da accettare per il Pd — l’introduzione di un referendum pro- positivo senza quorum, modello Svizzera — hanno scelto per l’ennesima volta di chiamarsi fuori. Fino all’ultimo i dem ci hanno provato. Per una volta tutti d’accordo, renziani e no. In aula, a metà pomeriggio, sembra che qualcosa si stia bloccando. Attorno al capogruppo Roberto Speranza si radunano Fassina, D’Attorre, Pollastrini, Zoggia, Nicola Stumpo, tutti membri della minoranza. Stumpo, più tardi, confermerà che l’oggetto della discussione nel capannello improvvisato era proprio «la possibilità di coinvolgere i grillini ». Il vicecapogruppo Ettore Rosato in quegli stessi minuti sta sottoponendo infatti alla delegazione cinque stelle tutte le modifiche che la maggioranza è disposta ad accogliere. Ma il tentativo fallisce. Roberto Giachetti, uno che sul dialogo con Di Maio ha lavorato parecchio, ammette la distanza: «Sarà per un’altra volta. Oggi hanno fatto finta». Emanuele Fiano, relatore, è sfinito dal continuo tira e molla con M5S: «I problemi sono due. Il primo è che per noi la parlamentarizzazione del processo legislativo è una conquista democratica. E il referendum propositivo, senza quorum, può essere uno strumento pericoloso in mano al demagogo di turno». Ma il secondo problema è ancora più insormontabile: «La verità è che di loro ci fidiamo zero». Dunque si torna al forno principale, quello con la minoranza interna. Se alcune modifiche venissero accolte, per Renzi il cammino delle riforme sarebbe in discesa. Prima fra tutte, appunto, la norma transitoria che estenderebbe il sindacato preventivo della Consulta (già previsto nel ddl Boschi, ma solo per le leggi elettorali future) all’Italicum. Un pallino del costituzionalista dem Andrea Giorgis. Certo, c’è il rischio, seppur remoto, che i giudici costituzionali boccino una parte della nuova architettura elettorale. Ma Renzi appare molto sicuro del fatto suo e del disco verde che la Corte darà all’Italicum 2.0. Una sicurezza che ieri faceva sospettare a qualcuno della minoranza dem che il premier abbia già ricevuto qualche assicurazione preventiva sulla costituzionalità della sua creatura. Tanto da consentire a quella modifica, la norma transitoria appunto, sulla quale finora era sempre calato il «no» categorico della Boschi. «Anche se - ripete il premier - qualcuno della minoranza Pd continuerà a essere contrario. Alzerà sempre l’asticella. Ma si tratta di un paio di persone, gli altri sono ragionevoli. E comunque non mi interessa, io vado avanti».
Dunque stasera, anzi stanotte, potrebbe esserci il voto finale sulla riforma della Costituzione. Il “cronoprogramma” del premier prevede tappe precise: subito il testo sarà passato al Senato, in modo da farlo ritornare alla Camera già in primavera (maggio-giugno). Prima della pausa estiva ci sarà l’ultimo voto. Poi il referendum dopo sei mesi. A un anno da oggi. «Si vedrà allora - confida Renzi - lo scontro fra innovatori e conservatori. Noi saremo da una parte e Berlusconi- Salvini-Grillo-Vendola dall’altra».