Lee Billings, Wired 2/2015, 13 febbraio 2015
LA GUERRA DEI MONDI
NESSUNO SA CHE ASPETTO abbia il pianeta Gliese 667Cc. Dista circa 22 anni luce dalla Terra, un viaggio che richiederebbe parecchie vite. Però nessuno è in grado di dire se quel mondo sia uguale al nostro. L’unico indizio della sua esistenza è un accenno di oscillazione della stella attorno alla quale orbita Gliese 667Cc, oscillazione rilevabile dai telescopi e spettrografi terrestri più sensibili. Il pianeta è più grande del nostro mondo, forse è fatto di rocce anziché di gas, e si trova all’interno della ‘‘zona abitabile” circumstellare – a una distanza Goldilock in cui l’irradiazione della stella è abbastanza forte da consentire di avere acqua liquida e non solo ghiaccio sulla superficie del pianeta. Sono elementi sufficienti a riempire di meraviglia gli scienziati alla caccia di mondi al di fuori del nostro sistema solare. Gliese 667Cc, se non proprio un fratello della Terra, è almeno un cugino. Nessuno sa se si tratti di un posto dove un giorno noi umani potremo vivere. E nessuno sa se indigeni dall’aspetto difficilmente immaginabile non stiano in questo momento puntando sulla Terra. Ma in ogni caso chi ha scoperto resistenza di Gliese 667Cc ha portato un enorme cambiamento nella ricerca della vita fuori dal nostro pianeta, e verrà ricordato fino alla fine dell’umanità. E qui sta il problema. Perché un’altra cosa che nessuno sa, a proposito di Gliese 667Cc, è a chi attribuire il merito della scoperta. Il pianeta è al centro di un’epica battaglia astronomica – sulla validità dei dati, la natura della scoperta scientifica, e la fondamentale questione di chi sia arrivato per primo. Forse l’astronomo svizzero Michel Mayor, che nel 1995 fece un colpaccio.
ASSIEME IL SUO STUDENTE
Didier Queloz scoprì, attorno a una stella simile al nostro sole, 51 Pegasi b, il primo pianeta extrasolare conosciuto. Ben presto però il gruppo di Mayor, nella gara tra cacciatori di pianeti, fu scalzato da una coppia di ricercatori americani, Geoffrey Marcy e Paul Butler. I due da almeno una decina d’anni erano alla ricerca di un esopianeta; e si misero in saccoccia i loro primi due mondi un paio di mesi dopo l’annuncio di Mayor.
Le due squadre si trasformarono in dinastie ferocemente competitive. La loro rivalità fu un bene per la scienza: nel giro di un decennio ognuno dei gruppi aveva scoperto un centinaio di pianeti. Presto la caccia si restrinse ai trofei più ambiti. Le squadre cominciarono a cercare pianeti più piccoli e rocciosi, “simili alla Terra”.
La maggior parte dei cacciatori di pianeti è alla ricerca di variazioni rivelatrici nella luce di una stella, di “oscillazioni” nell’identità degli spettri stellari, causate dall’attrazione gravitazionale di un non visibile pianeta extrasolare. Quando quella forza attira una stella verso la Terra, l’effetto Doppler comprime leggermente le onde luminose che essa emette, spostandole verso la parte blu dello spettro. Quando una stella si allontana dalla Terra, le onde di luce si distendono per arrivare a noi, spostandosi verso la parte rossa. Questi cambiamenti non sono invisibili a occhio nudo. Solo uno spettrografo riesce a vederli.
Alla fine del 2003 la squadra europea disponeva di uno strumento molto preciso, l’Harps (High Accuracy Radial velocity Planet Searcher), in grado di rilevare oscillazioni inferiori al metro per secondo. Gli americani dovevano accontentarsi di uno strumento più vecchio, Hires (High Resolution Echelle Spectrometer), meno preciso ma abbinato a un telescopio più potente. Mentre le due squadre continuavano a lottare per la supremazia, tra gli americani cominciavano a nascere i problemi. Marcy, che oltre a essere uno scienziato brillante era uno showman nato, appariva regolarmente sulle copertine delle riviste e perfino al David Letterman Show. Il suo assai più taciturno socio, Butler, preferiva il nudo e crudo compito di perfezionare le pipeline di dati e le tecniche di calibrazione. Avendo dedicato anni di vita alla causa della scoperta dei pianeti, Butler e Steven Vogt (il cervello che stava dietro Hires) cominciarono a sentirsi sminuiti dalla fama crescente di Marcy. Il loro rapporto toccò il fondo nel 2005, quando Marcy divise un premio da un milione di dollari con il rivale di sempre Mayor. Marcy riconobbe i meriti di Butler e Vogt nel discorso di ringraziamento e donò la maggior parte del denaro alla University of California e alla San Francisco State University, ma ormai il danno era fatto. Due anni dopo, Butler e Vogt formarono un loro gruppo indipendente. La mossa era arrischiata. Harps e Hires rimanevano i migliori spettrografi disponibili per la caccia ai pianeti, e Butler e Vogt ora non avevano più facile accesso ai dati freschi. Quanto a Marcy, fu costretto a trovare nuovi collaboratori. Intanto la squadra europea, in continua crescita, non faceva che cavar fuori da Harps nuovi pianeti, anche se Mayor nel 2007 era andato in pensione. La ricerca di una Terra 2.0 divenne una gara più affollata e aperta. Nella primavera del 2007, gli europei annunciarono di avere adocchiato un mondo potenzialmente abitabile, Gliese 581d. Era una “super-Terra”, ai margini esterni della zona abitabile, otto volte più grossa del nostro pianeta. Tre anni dopo, nel 2010, Butler e Vogt fecero la loro grande scoperta, attorno alla medesima stella – Gliese 581g. Era proprio al centro della zona abitabile e con una massa pari solo a tre o quattro volte quella della Terra e con un’apparenza così potenzialmente idilliaca da spingere Vogt a dire che le possibilità che lì potessero abitare esseri viventi erano pari al «100%». Butler era raggiante, e disse a sua volta che «il pianeta si trova alla giusta distanza dalla stella per avere dell’acqua e ha la massa giusta per possedere un’atmosfera». Avevano battuto Marcy, messo la loro bandierina sul primo pianeta potenzialmente simile alla Terra e avuto la meglio sui rivali europei.
Ma per il coro di scettici era troppo bello per essere vero. Gli europei dissero che i segnali che gli americani avevano visto erano troppo deboli per potere essere presi sul serio. La battaglia diventava senza esclusione di colpi.
RIPORTATA SULLO SCHERMO di un computer, un’oscillazione stellare causata da un unico pianeta appare come un’onda sinusoidale, per quanto le misurazioni reali siano di rado così chiare. Per coglierla occorrono migliaia di osservazioni, distribuite nell’arco di anni, e anche quando la cogli si tratta della deviazione quasi insignificante di un singolo pixel in un rivelatore. Talvolta un segnale mostrato da uno spettrografo all’avanguardia, su un altro spettrografo non si manifesta. I ricercatori possono dare la caccia per anni a segnali promettenti, per poi vedere evaporare i loro sogni planetari. Per trovare un’oscillazione stellare provocata da un mondo abitabile occorre un miscuglio instabile di acume scientifico e di ossessione personale profonda. L’astronomo spagnolo Guillem Anglada-Escudé corrisponde a questa descrizione. Oggi lettore presso la Queen Mary University di Londra, ha cominciato a lavorare con Butler e Vogt poco dopo il loro annuncio della scoperta di Gliese 581g.
Attualmente il nome di Anglada-Escudé compare accanto a 20-30 pianeti extrastellari, molti dei quali sono stati da lui scoperti rastrellando gli archivi pubblici alla ricerca di oscillazioni deboli e borderline. L’Osservatorio Europeo Australe (Eso), che finanzia Harps, pone come obbligo ai padroni dello spettrografo di rendere pubblici i dati dopo un periodo proprietario di un anno o due. Questo consente ad altri ricercatori di accedere a osservazioni di qualità elevata e a scoperte potenziali, che magari sono sfuggite alla squadra di Harps. Nell’estate del 2011 Anglada-Escudé aveva 32 anni, era un assegnista di ricerca e stava cercando un posto fisso di ricercatore in ambito accademico. Con l’aiuto di Butler aveva sviluppato tecniche analitiche alternative per frugare tra i dati di Harps.
In una notte d’agosto, l’astronomo scelse un nuovo bersaglio: circa 150 osservazioni di una stella chiamata Gliese 667C, effettuate dalla squadra di Harps tra il 2004 e il 2008. Si sedette davanti al computer in una stanza buia, alla ricerca di possibili configurazioni fisicamente stabili di pianeti.
Le prime oscillazioni apparse facevano pensare a un mondo in un’orbita di sette giorni – più rapida è l’orbita, più vicino deve essere il pianeta alla stella. Un anno di una settimana è già sufficiente per finire arrostiti e diventare un inospitale mucchio di ceneri – e in ogni caso la squadra Harps aveva già dato notizia di quel pianeta nel 2009, chiamandolo Gliese 667Cb. Però Anglada-Escudé andò a spiare quella che ricordava in modo sospetto una struttura nei residui di onda sinusoidale che serpeggiavano sul suo schermo. Fece girare ancora il suo software e a quel punto emerse un altro segnale, un’oscillazione forte con una periodicità di 91 giorni – forse un pianeta, forse una pulsazione correlata al periodo di rotazione della stella stessa, valutato in 105 giorni.
Decise di fare un altro tentativo prima di andare a dormire, annullando i segnali da sette e 91 giorni. Completato l’ultimo giro rimase a fissare per un po’ i risultati sullo schermo luminoso del suo laptop. Il software aveva scoperto quel che pareva un nuovo pianeta. Aveva un’orbita di 28 giorni, nella zona abitabile di Gliese 667C. E sembrava anche roccioso perché aveva una massa di poco superiore a quattro volte la Terra. Era il pianeta che poi sarebbe diventato noto come Gliese 667Cc. Se i dati avessero retto alle verifiche, si sarebbe trattato del terzo pianeta simile alla Terra scoperto dall’uomo. «Mi pareva molto strano», mi disse Escudé nel 2012, «trovare in mezzo a dati vecchi di tre anni e ormai resi pubblici un pianeta potenzialmente abitabile, di cui nessuno aveva scritto, che nessuno reclamava». Eppure c’era.
Anglada-Escudé portò i numeri ai suoi mentori, Butler e Vogt. Butler eseguì 21 nuove misurazioni di Gliese 667C con il Carnegie Planet Finder Spectrograph cileno, e Vogt andò a ripescare altre 20 misurazioni tra i dati archiviati di Hires. E il tutto non fece che rafforzare la scoperta. Però Anglada-Escudé voleva essere assolutamente certo della genuinità del segnale. Il piano migliore era procurarsi nuovi dati tramite Harps, lo spettrografo europeo. Butler e Vogt lo invitarono a non farlo, per timore che la squadra europea potesse venire a sapere delle scoperte dei rivali. Ma Anglada-Escudé voleva quei dati. L’11 settembre 2011 spedì una richiesta per 20 notti di uso di Harps, citando 667C nella lista degli obiettivi, e menzionando il segnale da 28 giorni scoperto nelle sue vicinanze.
La richiesta fu respinta.
All’incirca due mesi dopo l’invio della richiesta iniziale da parte di Anglada-Escudé, i ricercatori di Harps caricarono un documento online, in un archivio pubblico di preprint – relazioni di ricerca non ancora sottoposte a review, ma per il resto rigorose. Il preprint riassumeva le osservazioni effettuate con Harps, tra il 2003 e il 2009, di stelle nane rosse. L’autore principale era Xavier Bonfils di Grenoble, Francia, responsabile della caccia ai pianeti attorno alle stelle nane rosse. Trattava la scoperta da parte della squadra di una super-Terra in un’orbita da 28 giorni attorno a Gliese 667C, affermando che era in preparazione un paper più dettagliato. Vogt fu il primo a vedere il preprint. Mandò ad Anglada-Escudé un secco messaggio di posta elettronica: «Ci hanno battuti».
«Ci rimasi malissimo», racconta ora Anglada-Escudé. «Quindi rilessi il preprint e cominciai a catalogarne le stranezze». Scoprì quella che secondo lui era una pistola fumante, la prova del delitto: il periodo orbitale di 667Cc era correttamente inserito come di 28 giorni, però un altro dato relativo al pianeta – la distanza dalla sua stella – corrispondeva erroneamente a un’orbita di circa 91 giorni. Il dato, pensò Anglada-Escudé, forse era quello relativo a un segnale differente, che poi era stato cambiato in tutta fretta. Cominciò a chiedersi se la squadra di Harps non avesse visto la sua proposta e non l’avesse respinta di proposito per poi prendersi il merito della clamorosa scoperta. Anglada-Escudé si impegnò per ottenere quel che riteneva gli spettasse. Lui e i suoi collaboratori scrissero il paper sulla loro scoperta e lo spedirono all’Astrophysical Journal Letters, una pubblicazione influente che lo sottopose a review e lo pubblicò prima che arrivasse alle stampe il lavoro della squadra di Harps.
Gli europei gridarono allo scandalo. Riuscirono a farsi pubblicare un paper da Astronomy & Astrophysics e diedero avvio a una modesta campagna di pubbliche relazioni per accreditarsi come i veri scopritori di Gliese 667Cc.
In giugno Bonfils e Anglada-Escudé presero parte a una conferenza di astronomia a Barcellona, e i due si incontrarono in privato per appianare le loro divergenze. Ma nessuno dei due era disposto a cedere il diritto di primogenitura, rispetto a quel pianeta remoto.
Questa lotta sarebbe rimasta poco più di una nota accademica a piè di pagina, se non fosse stato per un altro astronomo emergente, Paul Robertson, assegnista di ricerca presso la Penn State University. Robertson era seduto davanti al computer, un gelido pomeriggio dello scorso febbraio, e guardava i dati relativi alla stella su cui avevano cominciato a litigare, all’inizio, americani ed europei: Gliese 581. Robertson stava utilizzando tecniche analitiche sofisticate per tentare di correlare l’attività magnetica della stella alle presunte oscillazioni, e tutto questo per riuscire a stabilire in modo chiaro e definitivo se Gliese 581g era reale o no. E quando si tuffò nei dati, l’oscillazione causata da Gliese 581g svanì, cadendo al di sotto della soglia di significatività statistica. Sembrava che la squadra americana avesse visto un fantasma.
Le immagini che scorrevano sullo schermo di Robertson stavano rivelando però qualcosa di assai più scioccante: svanì anche Gliese 581d, la scoperta europea a lungo considerata insindacabile, il primo pianeta probabilmente simile alla Terra individuato dall’uomo. Non c’era via d’uscita. Robertson pubblicò un articolo in cui spiegava che alcuni degli astronomi più autorevoli del mondo si erano sbagliati. Una volta ridotte le potenziali Terre di Gliese 581 a parti della fantasia come lo è Alderaan, il pianeta di Guerre stellari, la squadra di Robertson passò a occuparsi del successivo nome presente sulla lista: Gliese 667Cc. E però questo non sparì neppure di fronte alle indagini di Robertson. In altre parole, il pianeta la cui scoperta era oggetto di una disputa così furibonda era diventato il primo, l’unico pianeta potenzialmente simile alla Terra avvistato fino a quel momento.
NON MOLTO TEMPO dopo i fallimentari colloqui di pace nel caffè di Barcellona, parlai con un esasperato Bonfils. Mi spiegò che la squadra europea nella primavera del 2009, e dunque molto prima della ricerca di Anglada-Escudé, aveva inviato la sua ricerca per farla sottoporre a peer review. E l’attesa di un feedback aveva fatto sì che la pubblicazione del preprint slittasse alla fine del 2011. Bonfils liquidò le piccole incongruenze come semplici errori, niente di più. A suo parere gli altri stavano tentando di accaparrarsi il merito di scoperte non loro. «Harps è stato costruito dalla nostra squadra, e il programma scientifico e le osservazioni sono state fatte dalla nostra squadra», disse Bonfils. «La maggior parte della riduzione dei dati era già stata effettuata e resa disponibile pubblicamente».
In altre parole Bonfils oggi sostiene che a suo tempo la squadra avesse già portato a termine il gravoso compito di analizzare i dati. (Vogt sostiene che questo non sia più vero. Gli europei, ha scritto in una email – indirizzata non a me, ma poi resa pubblica –, processano e archiviano i dati in un modo che li rende «affidabili solo per i componenti della squadra di Harps». E dunque Vogt dice che il suo gruppo adesso sta riprocessando i dati pubblici, ed effettuando nuove misurazioni).
In ballo qui c’è molto più di una scoperta. Qui si parla di accesso e trattamento di dati. «Sarebbe un peccato se le persone che hanno creato gli strumenti, e scritto e messo in atto il programma di osservazione, non si vedessero riconoscere il proprio lavoro», dice Bonfils. «Sono un sostenitore della pubblicità dei dati, ma da tempo temevo che qualcuno avrebbe tentato di pubblicare i nostri dati prima di noi, e adesso è successo. Questa comunità si affida alla correttezza e ad accordi tra gentiluomini». Bonfils dice di aver avvertito da parte di Vogt, Butler e collaboratori – AngladaEscudé incluso – “rabbia e aggressività”. «Le puoi notare nei loro paper, nel linguaggio e nelle accuse che fanno», ha dichiarato Bonfils. «Penso che per loro sia diventato più difficile ottenere il tempo di osservazione necessario». In altre parole, non avendo accesso ai macchinari giusti, a questo gruppo di bracconieri di pianeti sarebbe toccato per forza diventare un po’ disonesti.
Nella comunità dei ricercatori l’attribuzione della scoperta del pianeta sembra dipendere in certa misura dalla vicinanza a un gruppo piuttosto che all’altro – le cose cambiano se un astronomo è più legato alla vecchia guardia di Marcy e delle superstar di Harps, o ad Anglada-Escudé e ai pochi altri ultimi arrivati. E nel frattempo questi ultimi arrivati continuano imperturbabili a cercare pianeti non visti frugando nei dati pubblici di Harps e di altri strumenti. Come risultato, la lotta tra Bonfils e Anglada-Escudé sobbolle al di sotto delle cordialità formali tra astronomi di professione. Bonfils ora definisce “non etico” il comportamento di Anglada-Escudé, citando altri scontri su altri pianeti dubbi usciti dai dati di Harps. Anglada-Escudé continua a credere che la squadra di Harps lo stia boicottando – un’accusa ridicola, secondo Bonfils. «Non abbiamo questo potere», dice.
NEL 2009 LA NASA ha lanciato il telescopio spaziale Kepler, nell’ambito di una missione spaziale della durata di tre anni e mezzo e finalizzata alla “caccia ai pianeti”. Seguendo la Terra in orbita attorno al sole, Kepler cerca gli esopianeti dando la caccia ai mondi che “transitano” attorno alle loro stelle, come li vediamo dal nostro sistema solare, rivelandosi in silhouette. Il telescopio da mezzo miliardo di dollari in questo modo ha scoperto almeno 1000 pianeti extrasolari – dato di aprile 2014 –, compreso un mondo delle dimensioni simili a quelle della Terra, Kepler 186f, che orbita nella zona abitabile di una stella distante 500 anni luce. Troppo lontana per un agevole supplemento di indagine, ovviamente. Però gli scienziati di Kepler obietterebbero che non è questo il punto, in realtà. Le loro scoperte hanno spostato l’asticella ben oltre il punto in cui ogni singolo pianeta, ogni singola persona avevano la stessa attrattiva, come accadeva per gli eroici, ossessivi cacciatori di pianeti del passato. Fino a non molto tempo fa la scoperta di un singolo pianeta extrasolare faceva gola ai media di tutto il mondo. Quando nel febbraio di quest’anno la missione Kepler ha annunciato che gli esopianeti nuovi erano 715, nessuno ci ha fatto un gran caso, al di fuori della comunità degli astronomi.
I risultati di Kepler inducono a credere che i pianeti di tutti i tipi – compresi quelli identici alla Terra nella loro descrizione generica – siano comuni. In un certo senso si può dire che la caccia alla Terra 2.0 si sia già conclusa, anche se era appena cominciata. Ora gli astronomi desiderano un censimento statistico planetario di tutta la galassia, che renda conto della grande varietà di sistemi planetari che si incontrano per strada. Un approccio di questo genere non si concentra sui singoli pianeti extrasolari. Però è in grado di dirti, come hanno già fatto le statistiche raccolte in abbondanza da Kepler, che più o meno una su cinque delle stelle simili al sole dovrebbe ospitare nella zona abitabile un pianeta delle dimensioni simili a quelle terrestri, localizzando il più vicino dei mondi favorevoli alla vita in un luogo imprecisato alla distanza di una dozzina di anni luce dal nostro sistema solare. Il calcolo è stato fatto dal gruppo di Geoffrey Marcy – perfino la figura centrale dell’Età Eroica della caccia ai pianeti è cambiata col tempo.
Eppure, quando si parla di scoperte, essere i primi ha ancora la sua importanza. È insito nel genere di esplorazione che la caccia ai pianeti incarna. Deriva dallo stesso bisogno insaziabile che spinse i nostri antenati a scendere dagli alberi, e poi a correre da un orizzonte all’altro, finché non rimasero nuove frontiere. E anche se i luoghi esplorabili sulla Terra sono praticamente finiti, è inestinguibile il nostro desiderio di scoprire, di conoscere l’ignoto dandogli il nostro nome, investendoci i nostri sogni, le nostre storie. Le quattro più grandi lune di Giove le chiamiamo galileiane perché fu Galileo il primo a vederle. Guardiamo le stelle perché ci vediamo un futuro, e se arriviamo primi acquisiamo il potere, per quanto mistico e irrazionale, di rendere manifesto quel futuro e di dargli una vita e un significato che potrebbero echeggiare attraverso generazioni. Anche se la storia non sceglie sempre la persona giusta.
Bonfils e Anglada-Escudé attualmente concordano su molte cose. Entrambi pensano che i dati planetari dovrebbero essere aperti. Entrambi desiderano strumenti nuovi e migliori per monitorare ogni sole a noi vicino e scoprire i tremori indotti dai pianeti. Entrambi sperano in un grande telescopio spaziale che riesca a vedere davvero tutti i mondi esistenti a una distanza non superiore ai cento anni luce – e a vedere chi ci abita. Al pari di Robertson, non vogliono distruggere i pianeti altrui. Quello che desiderano è scoprirne di nuovi – remoti puntini azzurri, simili al nostro, che piroettano in silenzio in una zona abitabile, in movimento simultaneo e perenne nella notte infinita.