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 2015  febbraio 13 Venerdì calendario

COME TI RICOSTRUISCO I LEGO


Non te l’aspetti così, il quartier generale di una delle aziende più grandi del mondo. Niente palazzi di vetro e acciaio, niente limousine con autista. In realtà ci sono pochissime strade, e ancora meno persone in giro. Bastano cinque minuti per attraversare la città. Benvenuti a Billund (popolazione: 6.194), la casa della Lego.
Il marchio è famoso in tutto il mondo per i mattoncini di plastica colorata con cui, usando un po’ di immaginazione, si può costruire in pratica qualsiasi cosa. Eppure la sede è decisamente modesta: un lungo edificio squadrato marrone in una via periferica, di fronte a una fila di villette residenziali. Sembra più un ufficio comunale che la sede della più grande azienda di giocattoli del mondo, che nel 2013 ha registrato un fatturato di 3,4 miliardi di euro e un utile netto di circa 820 milioni.
Il capo, Jørgen Vig Knudstorp, ha un ufficio d’angolo, classico status symbol dei dirigenti di tutto il mondo, da Wall Street alla City; ma il suo è al pianterreno (anche perché tutto l’edificio è a un piano) e affaccia sul parcheggio. Da un lato c’è il parco tematico Legoland, dall’altra parte ci sono gli uffici e dietro c’è la fabbrica.
Lo scorso agosto è stata posata la prima pietra (in questo caso un enorme mattonano colorato, ovviamente) di un nuovo experience centre di 12 mila metri quadrati chiamato “Lego House”. Sorge dove una volta c’erano il municipio di Billund e l’unico centro commerciale della città. Kjeld Kirk Kristiansen, nipote del fondatore, spiega: «È stato aperto per dare a tutti la possibilità di vedere l’idea Lego che prende forma». Verrà completato nel 2016 e, secondo le previsioni, accoglierà fino a 250 mila visitatori all’anno.
I dipendenti dell’azienda (in totale circa 4 mila) scoppiano a ridere quando gli si chiede se vivano a Billund. Per la maggior parte sono pendolari che arrivano ogni giorno da Aarhus, una città situata dall’altra parte della penisola dello Jutland. Ma qui non c’è la stazione ferroviaria; in compenso c’è il secondo aeroporto della Danimarca, voluto dalla famiglia Kristiansen. Il film della Lego – intitolato con notevole fantasia The Lego Movie – è stato un trionfo e ha incassato oltre 540 milioni di dollari, ma qui non è possibile vederlo: niente cinema.
Knudstorp, 46 anni, vive a un’ora di distanza. Ammette che Billund è una città un po’ noiosa, ma spiega che l’ambiente circostante aiuta a stimolare l’innovazione: «La fantasia non nasce dall’abbondanza ma dalla scarsità di stimoli. Non è detto che tu sia più creativo se hai davanti tanti mattoncini Lego. Ne bastano pochi. Da questo luogo è nato qualcosa di straordinario, basato sui nostri valori fondamentali».
La famiglia dei fondatori vive ancora a Billund. Kjeld Kirk Kristiansen, 67 anni, ultimo erede e maggior azionista della Lego, secondo Forbes è l’uomo più ricco di Danimarca ma, nonostante un patrimonio di 7,3 miliardi di dollari, vive «in una casa normale in un normale quartiere residenziale». Tutti – tassisti, negozianti, giornalisti e dipendenti – sanno dov’è, ma nessuno si permette di rivelare l’indirizzo.
Il fondatore Ole Kirk Kristiansen, nonno di Kjeld Kirk, aveva una falegnameria a un centinaio di metri da dove ora sorge la Lego House. Nel 1932, quando la domanda di scale di legno e assi da stiro è crollata in seguito alla Grande Depressione, ha iniziato a fabbricare giocattoli. Il primo, un’anatra di legno, ha avuto un tale successo che si è convinto a fondare il marchio: Lego. In danese viene da Leg godt, che significa “Gioca bene”. I primi mattoncini sono usciti dalla catena di montaggio nel 1949; nel 1956 sono cominciate le esportazioni e oggi vengono venduti in 130 Paesi nel mondo (il 99% della produzione è destinata all’estero): fortissima è la penetrazione nei mercati africano e cinese.
A Godtfred, il figlio di Ole entrato in azienda a 12 anni, va attribuito il merito del boom; nel 1979 ha lasciato il posto a Kjeld Kirk Kristiansen. Le cose sono andate bene fino agli ultimi Anni 90, quando la Lego ha provato a trasformarsi nel primo marchio di giocattoli del mondo grazie a un’espansione (mal concepita) fra vestiti, libri e bambole. È finita sull’orlo del fallimento: nel 2003 gli speculatori giravano come avvoltoi intorno a quel che restava, pronti a rilevarlo a prezzi stracciati.
Per Lars Fahrendorff, direttore del quotidiano locale, è stato uno dei momenti più difficili nella storia della città: «Molti avrebbero perso il lavoro. Senza la Lego non avremmo più potuto andare avanti. Lego è Billund, e Billund è Lego». Alla fine Kristiansen si è dimesso, dopo 70 anni di gestione familiare, e ha venduto gli asset del marchio al fondo americano Blackstone, compresi i due terzi di Legoland.
Oggi, nel mondo, i parchi tematici della Lego sono controllati al 70% dalla Merlin Entertainments (che possiede anche London Eye e Madam Tussauds) e al 30% da Kirkbi, il fondo di investimento della famiglia Kristiansen. Nel 2001 è arrivato dalla società di consulenza McKinsey Jørgen Vig Knudstorp; nel 2004 è stato nominato presidente e amministratore delegato con il mandato di «recuperare il meglio dal passato e far sì che il prodotto principale, il mattoncino, torni a essere un elemento importante e una fonte di profitto».
Da tempo si diceva che il crollo della Lego fosse iniziato quando l’azienda aveva “dimenticato” il mattoncino: «Ma non è una valutazione corretta», sostiene un po’ irritato Knudstorp. «Ne producevamo ancora parecchi, era ancora l’elemento portante del marchio. Il problema era, diciamo, che in azienda occuparsene non andava più di moda. L’idea era di fare cose nuove, dai libri ai parchi tematici: energia e talento venivano concentrati in quella direzione, insieme alle risorse. Così abbiamo finito per dimenticarci dei mattoncini».
Knudstorp ha comunque provato a risollevare l’azienda: «Sapevo che era possibile. Ricevevamo centinaia di lettere di clienti, soprattutto bambini, che ci dicevano: “Per favore non sparite”. L’unica domanda era: il mio team e io siamo le persone giuste?». Ha tagliato migliaia di posti, ha eliminato centinaia di prodotti, focalizzato tutti gli sforzi sui mattoncini di cui però ha dimezzato la produzione, per ridurre i costi e aumentare i profitti. La spesa più rilevante non consiste nel materiale ma in design e produzione. La plastica costa meno di un dollaro al chilo e viene rivenduta a circa 75. Per raggiungere il pareggio, ogni nuovo prodotto deve ottenere un fatturato di un milione di corone danesi (138 mila euro). «Mi piacciono i mattoncini che possono essere usati in tutte le costruzioni», dice Knudstorp, che ha un debole per la serie Creator, «non in una solamente. Elementi universali, questa è l’esperienza Lego».
Questo significa che il team di designer deve trovare il modo di riciclare in continuazione i vecchi prodotti – per esempio trasformando le spade dei ninja in tergicristalli – ed è costretto a chiedere un’autorizzazione specifica ogni singola volta che vuole disegnare qualcosa di nuovo. Uno degli ultimi progetti approvati da Knudstorp? I capelli di Marge Simpson: «È un prodotto assolutamente unico che non puoi usare in alcuna altra serie... Non vogliamo che la gente ci chieda perché abbiamo messo quei capelli nella confezione, che ne so, di Harry Potter».
Lego presto avrà prodotto più omini di plastica dell’intera popolazione della Terra. Ciò ha sollevato una questione: quanti dei personaggi sono donne? Knudstorp ammette di non averne idea. Eppure, date le ultime polemiche in quel mondo dei giocattoli in cui l’azienda di Billund è tornata ad avere un ruolo fondamentale, dovrebbe saperlo. Secondo Spark (Sexualization protest: action, resistence, knowledge), gruppo che si batte per le pari opportunità, sarebbero il 16%; ma il dato scende all’11% se si esclude la nuova serie Lego Friends mirata appositamente per le bambine.
«Non sono d’accordo con l’idea che la quantità debba essere uguale», ribatte Knudstorp. «Non esistono prodotti artistici fatti secondo questa logica; nessuno si aspetta che in un film appaia lo stesso numero di uomini e di donne. Il punto è un altro, cioè il modo in cui vengono rappresentati: seguiamo lo stereotipo secondo cui i maschi sono poliziotti e le donne sono parrucchiere, o proponiamo una rappresentazione più realistica della società in cui i bambini si identifichino?».
Secondo il ceo, a giudicare dalle reazioni positive alle ultime presentazioni, ci stanno riuscendo: «Rappresentiamo le donne in modo giudicato piacevole e interessante»; anche se nella serie Lego Friends ci sono molte parrucchiere, estetiste, commesse e ragazze in bikini sulla spiaggia di plastica, anche se l’unico personaggio femminile non stereotipato, la vendutissima scienziata (la prima serie è andata esaurita in meno di una settimana), non è stata un’idea sua o dell’azienda. Al contrario, a proporre al Lego Ideas Research Institute una serie consistente in un istituto di ricerca interamente composto da donne è stata la chimica olandese Ellen Koojiman. Che ha inoltre raccolto oltre 10 mila firme di supporto per costringere l’azienda a considerare la proposta. Ha scritto: «Come scienziata e come donna ho notato due cose: la disparità fra il numero di personaggi maschili e femminili e una rappresentazione stereotipata delle donne presenti nel vostro catalogo». Knudstorp – che nel frattempo ha qualche problema anche con gli ambientalisti, per la collaborazione di Lego con il colosso petrolifero Shell – dice che alla dottoressa Kooijman è stata riconosciuta una percentuale dell’1% sul ricavato delle vendite del nuovo “Istituto di Ricerca”, in cui lavorano una paleontologa, un’astronoma e una chimica.
Ma non è finita qui. L’anno scorso una bambina di 7 anni, Charlotte Benjamin, ha scritto una lettera all’azienda di Billund: «Nei giochi della Lego le ragazze non fanno altro che stare a casa, andare in spiaggia, fare shopping senza lavorare. I ragazzi invece vivono avventure meravigliose, lavorano, salvano le persone e nuotano persino insieme agli squali». La lettera è finita subito in rete, dove è prontamente diventata virale.