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 2015  febbraio 13 Venerdì calendario

SULLA STRADA


In fondo, a pensarci bene, i diritti da conquistare, le libertà da mantenere, l’umanità da rivendicare sono una questione di scarpe e piedi che camminano, di persone che marciano tenendosi per mano, possibilmente cantando. A queste marce si può rispondere con le bombe, i colpi dei moschetti, le cariche a cavallo, i cani, gli idranti e le autoblindo, ma alla fine, nella Storia, sono le marce che vincono. Almeno, così è stato nel ventesimo secolo. E, vedendo quello che è successo a Parigi – gli inaspettati due milioni di persone che hanno camminato per Je suis Charlie –, la ricetta sembra valida anche per il ventunesimo secolo.
La piazza, i cortei si sono presi la rivincita non solo su chi li ha sempre temuti, ma anche su chi li ha snobbati, promuovendo a campioni della democrazia gli effimeri messaggi postati sui telefonini.
Della “lezione di Parigi” in Europa si parlerà per anni, in America intanto è stato un film a riaccendere la passione su questi temi. Selma, della giovane regista afroamericana Ava DuVernay, è il commovente racconto dell’ormai dimenticata marcia di protesta dalla cittadina di Selma a Montgomery, la capitale dello Stato dell’Alabama.
Cinque giorni e 54 miglia nel cuore del razzismo bianco, tra uccisioni e attacchi armati della polizia, per rivendicare il diritto di voto per i “negri”, che allora ancora si chiamavano così. Era l’anno 1965, i negri avevano appena avuto il diritto di sedersi su un autobus con i bianchi, ma non ancora quello di votare, a cento anni dall’abolizione della schiavitù. Guidava la marcia il reverendo Martin Luther King, fresco di un premio Nobel per la pace avuto in Norvegia, ma negli Stati Uniti spiato e perseguitato dall’Fbi.
Considerata pericolosissima e impossibile, una temeraria sfida al “potere bianco” in un luogo tanto remoto quanto misterioso, la marcia (piccola e composta da soli neri) fece la Storia quando la televisione trasmise le immagini agghiaccianti della polizia dell’Alabama che picchiava i manifestanti inermi.
Fu per quelle immagini che all’ultimo giorno della protesta si aggiunsero al reverendo King preti e suore di diverse chiese, cittadini bianchi, persone importanti del mondo dello spettacolo come Harry Belafonte e Sammy Davis Jr. e che il titubante presidente Lyndon Johnson firmò la legge che toglieva le restrizioni al voto degli afroamericani. E lo annunciò facendo proprio lo slogan usato dai manifestanti: «We shall overcome».
Grande film, che entra nell’America di oggi con straordinario tempismo. Da mesi, infatti, si susseguono manifestazioni, sit-in, blocchi stradali per protestare contro le troppe uccisioni di giovani neri da parte di una polizia evidentemente ancora troppo imbevuta di pregiudizio razziale. E il dibattito, in un movimento che sembra essere giunto a un bivio, è proprio sui metodi di protesta da imboccare. Ecco perché sui siti, sui giornali e nelle pubbliche occasioni si parla molto di Selma e del suo esempio.
Martin Luther King, si riscopre, non fu solo l’uomo ispirato, ma un grande politico con un particolare metodo pedagogico-maieutico; la predicazione, l’assemblea, e poi la marcia pacifica, la resistenza passiva, l’uso del proprio corpo come simbolo di dignità, il rifiuto della violenza come degradante per sé e perdente come effetto; tutto ciò introdusse nella lotta politica un sovrappiù vincente di consapevolezza e di superiorità morale.
Selma è la lezione di come si vince una battaglia. Da qui, la domanda: come sono avvenute al mondo le maggiori conquiste civili? E la risposta: sono avvenute con la partecipazione cosciente e pacifica di larghe masse di persone, più che con la violenza, più che con la delega politica, più che con l’esercizio del potere. È stato marciando che le donne hanno ottenuto il diritto al voto, che i neri hanno avuto i diritti, che la guerra in Vietnam è terminata, che i gay hanno ottenuto di potersi sposare. È stato digiunando che l’India ha ottenuto l’indipendenza, è stato in una piazza enorme – timida, quasi muta – a Dresda che i tedeschi hanno ottenuto la distruzione del muro; è stato davanti a due milioni di poveri con le mani alzate che lo Scià di Persia ha dovuto lasciare il potere (voi direte: però a Tienanmen gli studenti cinesi persero. È vero).
Gli Stati Uniti hanno, a differenza dell’Europa, il viaggio, la strada, i grandi spazi. Questo aiuta a spiegare perché la loro democrazia, più della nostra, sia fatta di cortei, di treni, di musica (la musica, probabilmente, è il succo di questa visione della democrazia. In Selma, un angosciato dottor King telefona nella notte alla cantante Mahalia Jackson per sentire, attraverso di lei, la voce del Signore, e lei, seduta sul letto, intona un gospel che supera qualsiasi proclama politico).
Più che di lunghe strade americane, Parigi invece ci ha ricordato quanto la nostra democrazia sia fatta di città. Parigi è la città della rivoluzione che introdusse al mondo il concetto di “cittadinanza”; i cittadini parigini sono blasfemi non per una vignetta sul profeta Maometto, ma perché osarono tagliare la testa al re (e alla sua povera moglie, che non c’entrava niente). Nelle strade, davanti ai palazzi, sotto le statue, ogni gesto collettivo inevitabilmente torna a quella mitologia.
Di fronte a una strage inaudita – i killer del Profeta che uccidono in una redazione di un giornalino, dove si lavora ancora di matite, pennarelli, scotch; dove l’unica fotocopiatrice è sempre rotta – sono stati i luoghi stessi a incarnare lo spirito della città, a chiamare a raccolta. Parigi si è scoperta inevitabilmente democratica, affezionata ai suoi diritti e ai suoi figli più folli, perché senza quelli sa che la vita sarebbe più noiosa; e, se solo li abbandonasse, un re qualunque potrebbe tornare e fare vendetta di quell’antica ribellione.
La piazza parigina – e il presidente Hollande (uno che tutti, non solo Charlie Hebdo, avevano ridicolizzato) l’ha capito benissimo – così è diventata in una domenica una testimonianza di tolleranza e di fierezza democratica. La Marsigliese valeva più per quel “Marchons, marchons”, che per i versi successivi. La libertà tornava a essere la donna a seno scoperto che agita una grossa bandiera. (Il povero Wolinski, con la sua Paulette, non aveva fatto altro, per 50 anni, che disegnare quel modello di donna).
C’erano cinquanta capi di Stato alla testa del corteo, ma contava di più la folla francese – che applaudiva i poliziotti sui tetti, scriveva sui piedistalli dei monumenti, inalberava matite –, contava di più la comunità ebraica che, all’invito di lasciare la Francia, rispondeva in sinagoga a un attonito Netanyahu cantando La Marsigliese a piena gola. La piazza, che si gloriava di non avere al suo interno Marine Le Pen o il suo vecchio padre, aveva l’occasione di far sentire alle personalità qual era “la cosa giusta”. Una piazza straordinaria chiedeva di non rinunciare alla libertà, non fomentare l’odio, garantire la sicurezza, punire i cattivi, ma di accogliere i poveri e i senza diritti.
Selma e Parigi sono distanti cinquant’anni. Eppure per un momento si sono sfiorate. Bastava che – rinunciando al calcolo politico del suo Paese – Barack Obama avesse preso l’aereo e avesse marciato anche lui per le strade di Parigi. In fin dei conti, se Obama è presidente degli Stati Uniti, lo deve alla marcia di Selma che permise ai negri di votare. Peccato, i parigini lo aspettavano.
Nel 1927, quando lo stremato Lindbergh avvistò la terra francese, non capiva cosa fossero quelle luci che sembrava lo guidassero alla pista dell’atterraggio; erano le fiaccole di decine di migliaia di parigini che gli mostravano la via per l’aeroporto di Le Bourget.
Si dice ora che Obama sia rammaricato di non averlo fatto, così come nel film Selma si vede un Johnson molto disturbato dalla piazza, molto attento ai tempi della politica e solo alla fine convinto dell’azione. Li si può capire entrambi. La piazza, infatti, non è un posto semplice dove stare. Si può essere fischiati, si può essere in pochi, si può essere ammazzati. Ma Parigi e Selma sono lì a ricordare che la Storia passa dal selciato, non dai telefonini, e che i cambiamenti del mondo moderno il più delle volte non sono passati dai risultati elettorali o dalle gesta di grandi e piccoli Machiavelli; sono piuttosto custoditi in un armadio, un paio di scarpe consumate, ma non buttate via; un cappotto distrutto da un idrante, la piccola cicatrice per quei due punti di sutura, un volto in un frammento di una diretta televisiva, un adesivo magnetico sul frigorifero, con una data e la scritta: “Io c’ero”.