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 2015  febbraio 13 Venerdì calendario

THE MILLIONAIRE


[Marco Materazzi]

Sul prato dello stadio di Chennai, risparmiato per una sera dagli acquazzoni monsonici, mi pare di veder doppio. Laggiù, sul campo, ho intravisto due Marco Materazzi.
Uno era il freddo allenatore che, mentre l’arbitro gli espelleva il portiere, stava già segnalando la sostituzione e ricomponendo gli equilibri del suo Chennaiyin, di cui è difensore e manager con un contratto da un milione di dollari per due stagioni; il tecnico esordiente che ha portato la squadra fino alla semifinale dell’Indian Super League, eliminata dai Kerala Blasters dopo un tempo supplementare nella gara di ritorno. L’altro, che ho osservato pochi minuti dopo, era invece il famoso gigante Marco “Matrix” che ben conosciamo e riconosciamo mentre agganciava tra avambraccio e bicipite un piccolo attaccante, strizzandogli il collo tra muscoli e tatuaggi. Indietreggiava per far credere d’essere lui l’aggredito, ma pareva quasi che il suo avversario resti sospeso da terra.
Quando ci siamo incontrati per una lunga chiacchierata e un tè verde nella sontuosa hall dell’Hyatt Regency, dove ha abitato durante i tre mesi dell’ISL, non ha negato la dicotomia. «Eh», ha riso, «sono sempre io, non cambio. Quando sono in campo non ho amici. Non mi faccio mettere i piedi in testa. Se hai visto bene, era quell’attaccante con il numero 6 che mi aveva proprio rotto i coglioni. E i numeri di targa li so prendere ancora. Chi scelgo tra i due, allenatore o giocatore? Se ho preso quest’impegno è perché voglio fare l’allenatore. Ma qui in India, non in Italia. In Italia, oggi, non mi vedo nel calcio. Non perché sia un calcio esigente, ma perché è un calcio dove non sanno aspettare. Quando le cose non vanno bene in una squadra, è più facile cambiare l’allenatore. Non è una cosa di cui ho bisogno, l’instabilità».
Cosa ti ha persuaso ad affrontare questa fase della carriera qui?
«Sono sempre stato uno che ha vissuto lo sport a mille all’ora e questa voglia di vincere sull’avversario non si è mai fermata. È sempre stata la mia forza. E ho vinto tutto. Volevo mettermi in proprio, ma anche trovare una sfida nuova. Però sentivo la necessità di staccare per un paio d’anni e così ho preso il patentino da allenatore. Non mi sentivo pronto per un’esperienza in Italia. L’alternativa era stare a casa per un po’ o farmi tre mesi in India».
Ti senti come un lavoratore di una multinazionale costretto a vivere fuori dall’Italia?
«Mi sento un privilegiato, perché magari tra dieci anni verranno tutti qui. Nella Lega indiana ci sono 8 allenatori e 8 squadre: ce la stiamo giocando. In futuro, mi auguro di essere considerato un apripista. Mi piace pensare di apportare qualcosa al calcio in un Paese con un potenziale di crescita così importante. Spero di essere ricordato, perché se lascio un ricordo indelebile nelle persone con cui lavoro sono soddisfatto. Per me lasciare un ricordo vuol dire vincere. Passare inosservato è una tristezza. Non mi sono mai accontentato di vivacchiare e mai mi accontenterò».
Dicono che tu, Del Piero e le altre star siete solo vecchi gladiatori spediti a combattere le ultime battaglie nelle lontane province di un calcio inesistente, mercenari quarantenni finiti in un ghetto professionale...
(Vedo che sta per incazzarsi, ma si controlla. Dopo una pausa, e avermi lanciato uno sguardo di chi prende le misure, risponde) «Ghetto professionale? Ah, così dicono? Allora devono spiegarmi come mai uno come Del Piero, che è stato due anni in Australia, dove c’è il 3% di disoccupazione, uno che ha e aveva ancora più scelta di me, è anche lui qui. Perché voleva trovarsi in un ghetto? Perché gli piace soffrire o perché gli piace rimettersi in gioco? Ed è venuto qui come giocatore, non come me che posso dire: “Mah, oggi mi annoio, dai, mi faccio giocare”. Non sono in bancarotta, non ho smesso di giocare, ho aperto tre punti vendita del mio negozio, lo Space23. Sono ambizioso. Quello che dicono certi giornalisti, o giornalai, è solo invidia».
Come è stato il primo impatto con questo Paese?
«È un mondo totalmente diverso. Quando arrivi la prima volta, ti dici: “Ma chi me l’ha fatto fare? Dove sono capitato?”. C’è molta povertà e la gente ti sorride con un pezzo di pane. All’inizio questo ferisce. Perché? Be’, su cento persone, novanta sono scalze. Non penso sia una scelta. Non credo che gli piaccia camminare scalzi sul catrame fresco. Ma questo è un Paese con un potenziale incredibile. L’India è al 171° posto nel ranking Fifa. Possono fare di meglio. E la nazionale avrà anche bisogno di un bravo allenatore, no?».
Ah, a questo stai puntando?
«Me lo devono chiedere loro. Mica posso candidarmi io. C’è gente di qualità. Oggi nel mondo non ci sono solo le grandi squadre dei grandi Paesi. Qui io vorrei creare un’accademia innovativa dove non costruisci l’atleta, ma puoi capire se un giocatore può dare il suo meglio in Spagna, in Italia o in Inghilterra. Oppure in India, per scalare quella classifica Fifa».
La tua squadra è arrivata in semifinale. Come ci sei riuscito?
«Ho messo subito una regola: tutti uguali, stranieri e indiani. Perché, invece, ho saputo che in qualche altra squadra ci sono gli indiani che dormono nelle stanze triple e gli stranieri hanno le singole. Non è mica tanto simpatico, no? Perché più lusso allo straniero? Per prima cosa vengono le persone. Gli indiani devono essere uguali agli altri. La squadra è come una famiglia, ma dev’esserci uguaglianza. Siamo sempre assieme: è ovvio che è più facile litigare che andare d’accordo. Anche perché, indubbiamente, chi non gioca è incazzato. Io ho smesso proprio per quello: perché a 37 anni ancora mi incazzavo se mi lasciavano in panchina. Come allenatore, ho detto alla squadra che dobbiamo metterci il cuore, l’orgoglio e la voglia di vincere. E solo dopo, la tecnica. E poi sono fortunato ad avere imparato molto da Mourinho».
Hai anche la fortuna che qui i proprietari non capiscono molto di calcio.
«Ho la fortuna di avere una proprietà che sa di non sapere. Avevo un ragazzo indiano che non stava bene e, di fronte a me, parlava con la presidentessa in hindi. Gli ho detto: “Oh, inutile che ti metti a parlarle in indiano, tanto qui si fa come dico io”. Per questo temo che non allenerò mai in Italia, perché se trovo un proprietario che invece mi fa storie in situazioni de genere lo attacco al muro. Per me la dignità non ha prezzo».
Con la globalizzazione del calcio sta nascendo uno stile di gioco globale? Cosa stai scoprendo in questo senso con il Chennaiyin?
«Vorrei dei giocatori con la tattica italiana, la tecnica brasiliana e spagnola, e il fisico di un inglese o di un tedesco. Non insegnerei ai difensori a giocare di reparto. Indurre i ragazzi di 7, 8 o 10 anni ad affidarsi agli altri nelle difficoltà, abitua troppo a farsi aiutare. Poi ti ritrovi senza i Ferrara e i Cannavaro. In uno contro uno fai più fatica. Ma diventi un Nesta».
A proposito di Nesta – che hai portato a giocare con il Chennaiyin – e dei Ferrara e Cannavaro: come mai nel calcio italiano si assiste a un vuoto preoccupante di leader carismatici?
«Per me in Italia, in questo momento, c’è solo una squadra che ha un buon modello: la Roma. I leader carismatici ci sono e si chiamano Buffon, Totti, De Rossi, Pirlo. Per crescere, i giovani devono solo guardare come si comportano questi quattro giocatori. Ci sono campioni anche tra i più giovani, ma non capiscono le opportunità che hanno. Quando giocavo con Cannavaro, Nesta, Buffon, Del Piero, per me ogni allenamento era una scuola. Arrivi in nazionale e pensi d’essere come loro, ma senza umiltà non lo sarai mai. Quando tocchi il cielo con un dito non pensi che dovrai lottare per ritoccarlo, pensi di essere come loro, non vedi oltre l’orizzonte. Qui sta l’errore. Nel voler conquistare gli obiettivi non guardi avanti, ma indietro. In questo modo ci metterai più tempo a raggiungere quelli successivi. Ma se nasci competitivo, morirai competitivo. Non ho mai visto gli asini diventare cavalli».