Leonardo Maugeri, L’Espresso 11/2/2015, 11 febbraio 2015
IL RE È CAMBIATO IL PETROLIO NO
Di questi tempi, chi cerca di capire che ne sarà dei prezzi del petrolio guarda con attenzione ai primi passi del nuovo sovrano dell’Arabia Saudita, Salman Al Saud, e si domanda se sovvertirà la politica approvata nel novembre scorso dal fratello, il deceduto Re Abdullah. Questa è la speranza di molti Paesi, dalla Russia all’Iran, dall’Iraq al Venezuela, ma anche dei produttori americani di greggio, dell’industria petrolifera mondiale e di molte istituzioni finanziarie. Non è tuttavia facile che Salman cambi le cose, almeno a breve e medio termine, nonostante alcuni elementi possano farlo pensare. Per capire perché, è necessario ripercorrere alcuni passaggi.
NEL NOVEMBRE 2014, la decisione saudita di rifiutare il taglio della produzione di petrolio richiesta da molti membri dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) scatenò il crollo di prezzi, già in calo. Prima di prendere quella decisione, per diversi mesi i sauditi avevano stimato gli effetti sui conti del Regno di due diversi scenari di prezzo del greggio. Nello scenario peggiore (45 dollari a barile) avevano calcolato di dover attingere alle loro riserve valutarie a un ritmo di circa 10 miliardi di dollari al mese: un sacrificio sostenibile per almeno un anno secondo alcuni, disastroso per altri. Ma la scelta fu tracciata e condivisa con l’allora Re Abdullah dagli uomini di cui il sovrano si fidava di più - in primo luogo, il ministro del petrolio, Al-Naimi. La logica della strategia saudita era dirompente. In un mercato gravato da eccesso di greggio, senza tagli di produzione i prezzi sarebbero crollati; crollando, avrebbero travolto i produttori con i costi più alti o quelli più dipendenti dalle entrate petrolifere.
Riad aveva più obiettivi da colpire: il primo erano gli Stati Uniti, rei di essere stati i principali artefici dell’eccesso mondiale di greggio grazie al boom dello shale oil, come si chiama il petrolio non convenzionale estratto dalle rocce di scisto; in secondo luogo l’Iran, storico antagonista regionale che i sauditi volevano indebolire nella fase cruciale - e forse finale - dei negoziati internazionali sul nucleare. Ma non tutto è andato come sperato. Certo, i prezzi del greggio sono caduti e l’Iran è effettivamente prossimo al collasso economico, con il governo costretto a vendere perfino le esenzioni dal servizio militare pur di far cassa. Tuttavia la produzione mondiale di petrolio ha continuato a crescere, lasciando di stucco gli strateghi di Riad secondo cui, già a 75 dollari a barile, buona parte della produzione americana, canadese, russa e via dicendo sarebbe stata cancellata.
CHE PUÒ FARE ADESSO RE SALMAN? Il vero artefice della strategia saudita del petrolio, Al-Naimi, godeva della fiducia incondizionata di Re Abdullah, mentre i suoi rapporti con il nuovo sovrano non sono altrettanto buoni. Inoltre, il figlio di Salman - il principe Abdulaziz - è il numero due del ministero del petrolio ed è stato spesso in disaccordo con Naimi. La vicinanza di quest’ultimo a Abdullah impediva a Abulaziz di avere impatto sulle politiche petrolifere del Paese. Ora le cose potrebbero cambiare, ma anche questo non è semplice. Per tradizione, la famiglia reale saudita non ha mai voluto che il ministero del petrolio fosse retto da un membro della famiglia stessa per non alterare i difficili equilibri interni dei Saud. Inoltre, a breve e medio termine la strategia definita da Naimi non ha molte alternative.
Anzitutto, tagliando la produzione i sauditi e l’intera Opec farebbero un regalo a tutti gli altri produttori mondiali, che continuerebbero a produrre a piena capacità riempiendo parte del vuoto lasciato dall’organizzazione petrolifera. In secondo luogo, all’interno dell’Opec solo l’Arabia Saudita potrebbe avere spazio per riduzioni di grandi dimensioni, anche se sta già evitando di produrre quasi 3 milioni di barili al giorno. In altri termini, come molte altre volte nel passato, dovrebbe essere Riad a farsi carico del problema quasi da sola.
AL DI FUORI DELL’OPEC, solo la Russia potrebbe dare un contributo sostanziale alla riduzione della produzione, poiché i suoi conti sono devastati dall’attuale crisi del petrolio (e del gas). Tuttavia, Mosca diffida fortemente dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi arabi, e ritiene che dietro il collasso dei prezzi del greggio vi sia un accordo segreto tra Riad e Washington per colpirla. Infine, quanta produzione andrebbe tagliata per riportare i prezzi a almeno 80-90 dollari al barile? Nonostante prima del rimbalzo degli ultimi giorni siano scesi sotto i 50 dollari, la produzione mondiale ha continuato a crescere, e l’eccesso rispetto ai consumi si avvicina ormai ai 3 milioni di barili al giorno. Troppi. Un bel rompicapo per i sauditi, che probabilmente sceglieranno di non far niente e aspettare. Per tutti i produttori, pertanto, non ci sono molte speranze. L’unica è che una crisi internazionale di maggiori dimensioni investa uno di loro, facendo schizzare verso l’alto il petrolio. Sempre che questa si possa definire una speranza.