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 2015  febbraio 13 Venerdì calendario

VI SEMBRO PERFIDO?


Sin da Le strade dell’innocenza, del 1984, James Ellroy è annoverato tra i grandi autori americani, erede di scrittori quali Raymond Chandler, Dashiell Hammett e Ross Macdonald, le cui lezioni sono state da lui assimilate alla perfezione. Ellroy si è poi emancipato dai suoi numi tutelari e si è lanciato con il successo che sappiamo in un ambizioso affresco losangelino (Dalia nera, 1987; Il grande nulla, 1988; LA. Confidential, 1990; White Jazz, 1992) da cui emerge un mondo di psicopatici, di corruzione, di violenza sadica. Con una scrittura secca, concitata, in cui le descrizioni sono ridotte al minimo, Ellroy infrange ogni volta le convenzioni del noir poliziesco e coglie alla sprovvista il lettore con dei ganci allo stomaco che sono, al contempo, uno sberleffo al politicamente corretto. Nel 1995, la trilogia Underworld Usa (American Tabloid, 1995; Sei pezzi da mille, 2001; Il sangue è randagio, 2009) si spinge ancora oltre con la sua volontà dichiarata di ricostruire nientemeno che la storia degli Stati Uniti degli Anni 60. Tornerà poi a opere più autobiografiche (I miei luoghi oscuri, 1996; Caccia alle donne, 2010) in cui parla della tragica fine della madre e dell’assenza del padre.
Il suo ultimo libro, Ricatto, del 2012, si presentava come la confessione di un ex poliziotto corrotto, Fred Otash, trasformatosi in uno dei più grandi propagatori di pettegolezzi a Hollywood negli Anni 50 e 60. Il lavoro più recente, invece, è Perfidia, primo volume di una nuova tetralogia, un vasto quadro d’insieme sulla California che Einaudi pubblicherà nel mese di marzo.
Perché ha scelto proprio il Pacific Dining Car, nel cuore di Los Angeles, per questa intervista?
«È il mio locale preferito, a livello mondiale: è aperto 24 ore su 24 e compare in diversi miei libri. Io sono nato in questo quartiere, nell’ospedale qui di fronte. Qui ho incontrato la mia ex moglie adorata, Helen Knode, e sempre qui abbiamo celebrato il nostro divorzio».
In Ricatto c’era un certo James Ellroy che confessava Freddy Otash...
«Ho ripescato Freddy Otash, che figurava già in Sei pezzi da mille. È una persona realmente esistita: io stesso l’ho conosciuto nel 1989 e l’ho frequentato fino alla sua morte, nel 1992. Nei miei libri confondo di continuo le acque, mi rifiuto di distinguere ciò che è reale e documentato da ciò che non lo è. Era un poliziotto corrotto, trasformatosi in investigatore privato e pappone, che ha fatto molti torti a molte persone, spiattellando le loro perversioni sessuali sulle riviste. Io lo colloco in purgatorio, dove sconta la sua cattiva condotta, e lo faccio confessare da uno scrivano, un certo James Ellroy. È una novella (in italiano, ndt) comica, un commentario sugli eccessi e gli scandali di quest’epoca, sulla censura, sull’inutilità della repressione. E io gioco su due tavoli diversi, perché da un lato mi appassionano i pettegolezzi morbosi, mi piace conoscere di prima mano le cose più perverse, ci godo, ci penso e, oserei dire, ne sono ossessionato. Credo, però, anche a una punizione nell’aldilà per le nostre cattive azioni, perciò ho offerto a Freddy Otash la possibilità di riscattarsi e di andare in paradiso raccontandomeli. È il mio modo di giudicarlo dall’esterno, traendo al contempo un gran diletto dal racconto dei suoi atti vergognosi. Mi sono molto divertito a scrivere questa storia. Voglio che il lettore si domandi se è vero che Katharine Hepburn ha avuto una relazione con un pastore tedesco...».
Ed è vero?
(Sorride) «Come dicevo, io confondo le acque...».
Che metodo di scrittura segue? Fa molte ricerche?
«Invento l’essenziale, e faccio lavorare gente che legge libri e si documenta per conto mio. Ma ha poca importanza, perché in fin dei conti io invento. Scrivo a mano su un blocco di carta; non possiedo un computer né un cellulare; non spedisco e-mail; ho un’assistente che si occupa di tutto e che digita anche i miei manoscritti. Redigo piani molto lunghi e dettagliati. So sempre dove mi trovo e so fin dall’inizio come andrà a finire».
Alcuni romanzieri sostengono di essere guidati dai loro personaggi...
«Be’, questa è una fesseria, e le spiego perché. I personaggi non esistono, non sono entità individuali. Insomma, questi autori vengono a trovarsi in un dilemma psicologico, devono scegliere, e a quel punto arriverebbe il personaggio a risolvere la situazione!? Io so fin dall’inizio che cosa faranno i miei personaggi».
Da dove deriva il suo stile di scrittura?
«Il manoscritto di LA. Confidential era troppo lungo, e l’editore voleva che ne tagliassi duecento pagine. Io, allora, ho impiegato questo stile orale sincopato, che si confaceva al tipo di libro. Dopodiché l’ho usato di nuovo, portandolo alle estreme conseguenze, per esempio in White Jazz e in Sei pezzi da mille. Nei due romanzi successivi, invece, Il sangue è randagio e Perfidia, l’ho abbandonato definitivamente. Chiuso, over, muerte, moribondi... Lo stile dipende sempre dalla storia che racconto, perciò il mio stile cambia a seconda dei casi».
Lei legge altri autori?
«No, nessuno. I miei punti di riferimento non sono gli scrittori. Ho letto per tutta l’infanzia e l’adolescenza, ma quando ho cominciato a scrivere libri ho smesso di leggerne. Del resto, non sono uno che va in cerca di svaghi. Guardo telefilm polizieschi o film noir, nel weekend. Amo la musica, ho un ottimo stereo, faccio ginnastica, ho qualche amico con cui parlo e, soprattutto, passo tante ore a rimuginare. Sto al buio e penso ai miei libri, alle donne, agli animali, alla musica classica...».
Degli adattamenti cinematografici dei suoi libri che pensa?
«Mi fanno guadagnare bene da una ventina d’anni. Tutti i miei titoli sono opzionati, ma molti non saranno mai portati sul grande schermo, perché è un lavoraccio mettere in piedi un lungometraggio».
In che misura ha partecipato alla produzione del film LA. Confidential?
«Non ho avuto alcun controllo sull’adattamento di questo film; nella sceneggiatura c’è soltanto un 15-20% del libro. Gli sceneggiatori sono stati bravi a comprimere un’opera che io consideravo irriducibile. Che cosa ne penso? Io ragiono così: sono stato trattato bene, in molti casi sono stato anche molto ben pagato, e se anche avessi qualche riserva su questi film dovrei essere un ingrato per parlarne in pubblico. Confesso, però, di aver guardato LA. Confidential... già 35 volte! È il mio figliolo prediletto».
La figura di sua madre è centrale nella sua opera. Spera ancora di trovare il suo assassino, un giorno?
«Ci ho rinunciato. L’assassino di mia madre non sarà mai scoperto: mi ci sono rassegnato da un bel pezzo».
Lei crede in Dio?
«Sono cristiano, educato alla religione protestante, e ho sempre creduto in Dio. Vado in chiesa, prego, vedo Dio ogni giorno e gli parlo. Ma non faccio proselitismo, non mi importa se gli altri credono o non credono. Io credo in un aldilà simile a un grande inconscio collettivo. Un mondo invisibile, diffuso, accessibile ai più ricettivi, che per me è più importante del mondo reale. E mi è capitato in almeno due casi, nella mia lunga vita di ossessioni, di immaginare donne che poi si sono materializzate fin nei minimi particolari fisici».
Pensa spesso alla morte?
«Ci penso, penso al paradiso, ma sono in buona salute e non ho la minima fretta di andarmene. Dopo questa nuova tetralogia, questo secondo LA. Quartet, che mi porterà via almeno otto anni, ho in programma un’altra serie di libri».
Sul fronte politico, si sarebbe portati a crederla di destra, eppure nel 2008 ha votato per Obama.
«L’ho detto io? Be’, magari era una bugia! Non parlerò mai più di politica, per nessuna ragione: è uno sforzo inutile».
È contento quando la riconoscono per strada?
«Mi fa un piacere immenso: è bello incontrare gente che apprezza i miei libri. E mi piacciono i vantaggi dati dalla condizione di scrittore ben pagato; posso spendere. Ho una bella casa e coltivo la passione delle belle auto sportive: al momento sto pensando di comprarmi una Porsche... Ho 66 anni, sono in buona salute e, in questa fase della mia vita, mi sento più a mio agio, più contento, meno soggetto all’influenza di pulsioni patologiche, come se le mie tendenze ossessive e il mio ardore si fossero trasformati. Credo che Perfidia sia il mio libro migliore a oggi, l’equivalente di un Beethoven dell’ultimo periodo, una Nona sinfonia o uno dei suoi ultimi quartetti per archi. Sono all’alba di una nuova fase spirituale: sento di aver finalmente raggiunto la maturità artistica».