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 2015  febbraio 13 Venerdì calendario

CACCIATORI DI BOSS


E poi c’è stata quella volta che ha incrociato in piazza i figli di un boss. Guarda come sono cresciuti, ha detto alla moglie. Come si sono fatti belli. Parenti tuoi?, ha ironizzato lei. No. Però. Il fatto è che quando il boss si rotolava nel letto, lui ascoltava. Intercettava. Perciò quelli erano figli che conosceva, diciamo così, da sempre.
I.M.D. è un poliziotto. Un cacciatore. Ha una bella voce, leggera, che non metteresti in gola a un uomo che ha passato metà dei suoi anni dietro ai latitanti mafiosi. Lo ha fatto dalle stanze di una sezione della Squadra Mobile di Palermo, la Catturandi. Dal 1995 al 2013. Fa i calcoli in base alle catture: dalla prima in assoluto, quella di Cristoforo Cannella, a quella clamorosa di Giovanni Brusca, a quella che dopo nove anni di indagini ha messo dentro Bernardo Provenzano. Ha partecipato a tutte e 28 le azioni. Meno l’ultima, quella che ancora manca: la cattura di Matteo Messina Denaro. La prossima, assicura: «Non esistono gli imprendibili, a meno che non decidano di tagliare i legami con la famiglia mafiosa e con quella di sangue. Sappiamo che non lo ha fatto. Perciò è solo questione di tempo».
A 44 anni, I.M.D. è passato ad altro. Alla Seconda sezione investigativa della Squadra mobile, che si occupa delle organizzazioni mafiose legate alla criminalità straniera. Ma gira ancora l’Italia per spiegare nelle scuole come funziona la mafia, una forma di lotta preventiva al male. E ha pubblicato da poco il suo quarto libro-resoconto, La Catturandi. La verità oltre le fiction (sono tutti pubblicati con Dario Flaccovio Editore). Non svela nulla dell’acronimo che lo protegge, ma quando parla in pubblico lo fa a volto scoperto, chiedendo di non essere fotografato o filmato in viso. A Palermo certi segreti non esistono, e chi deve, le sue generalità già le conosce, ma «prima le indagini erano personalizzate: uccidevi il poliziotto e bloccavi l’indagine, uccidevi il magistrato e finiva tutt’e cose. Adesso lavoriamo in squadra: per fermare l’inchiesta dovrebbero farci fuori tutti, e questo mi dà forza».
Nei giorni in cui Roma si rende conto di quanta mafia agisca e prosperi nei suoi palazzi, I.M.D. mi spiega come si diventa sbirro, un poliziotto senza divisa. «Volevo fare il chimico, non sventare i crimini. E invece, figlio di operai, senza legami diretti con la mafia o la magistratura, mi sono trovato spesso in mezzo. Mia madre, che è credente, ci legge un disegno divino». Nini Cassarà come vicino di casa, e la selva di colpi che lo lascia a terra. Un attentato a scuola. La prima fidanzata vera, figlia di un poliziotto importante. «E l’Alfetta color cacca che ci seguiva ovunque». Suona familiare? I.M.D. è amico d’infanzia di Pif. «Quante ce ne siamo raccontate. Ma mica me lo ha detto, che voleva fare un film». Il 1992 è un anno senza ritorno: ammazzano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Allora, qualunque mezzo politico aveva il portone di casa protetto dalla rimozione forzata. La madre di Borsellino no. Perciò hanno potuto farlo saltare in aria». Quel giorno ha una reazione emotiva, dice. Invece di partire per il servizio militare, si arruola in polizia. «Credevo di essere l’unico, la città era in un bagno di sangue, e invece ho trovato tanti ragazzi che la pensavano come me, che volevano agire contro la mafia. Alcuni tra loro sono diventati i miei migliori amici».
Gli amici, la famiglia, i colleghi. Senza di loro nulla sarebbe possibile. «Mio figlio compie gli anni il 15 novembre. Come mio padre e mia nonna. Una data che è sempre una gran festa. Ma un 15 novembre, Domenico Raccuglia è pronto a farsi catturare». Uno dei più pericolosi, dopo Matteo Messina Denaro. «Il bambino capisce che c’è qualcosa nell’aria e prende la borsa dove tengo il mefisto, il cappuccio che ci copre il volto. Mi lascia andare con una domanda: vuole solo sapere se tornerò per la torta».
Ma lei dorme bene la notte? «Benissimo». Chi vi aiuta a non dare di matto? «Sostegni non ne abbiamo, sono cose americane. Conta il gruppo. Stiamo assieme in molti modi, e quello davanti al cibo è il più immediato. Uno scazzo, davanti a una pizza si risolve». Uomini e donne, allo stesso modo? «Sì. Donne ne abbiamo avute poche alla Catturandi. Toste. Anche belle. Ma per noi totalmente asessuate». Minacce ricevute? «Di gruppo. Gaspare Spatuzza ci mandò una lettera con le targhe delle nostre macchine personali e una croce accanto: un invito palese a non dargli la caccia. Ma quanto ci fece incazzare! Così lo prendemmo in pochi mesi».
Tra preda e cacciatore ogni mossa è legittima. I.M.D. ha corteggiato una giovane donna per entrare a Cinisi, il paese di Gaetano Badalamenti, senza allarmare i mafiosi. Una specie di lasciapassare. Quella donna poi l’ha sposata, per inciso. Dai latitanti invece ha imparato a staccarsi. «All’inizio no, era complicato. E alienante: ovunque girassi lo sguardo, lavoravo. Ora mollo, dimentico cosa ho fatto cinque minuti prima». Ma si crea una qualche relazione? «Unidirezionale: tu dai la caccia, il mafioso lo sa, ma non può individuarti». Ore di ascolto e riascolto di conversazioni tra persone “attenzionate”, come si dice in gergo, pronti a captare significati, cose non dette, sospiri. «Entri nella testa del criminale e tra i pensieri di chi lo circonda. Impari a captare le anomalie nelle abitudini: sono quelle incrinature da cui si passa per beccarlo».
«Finalmente lu pigliaru a stu curnutu, e adesso mettetegli la testa nella merda», commentò Santino Di Matteo, il pentito, il padre del ragazzino sciolto nell’acido, quando hanno fermato Giovanni Brusca. I.M.D. conserva ancora il sigaro che il latitante teneva in tasca quella sera. E l’odio? «Cerco di separare la logica dai sentimenti. Brusca è l’uomo che ha premuto sul pulsante della strage di Capaci. Per me, il male in persona. Nel suo caso non mancava certo la rabbia». Le immagini del suo arresto e della gioia selvaggia dei poliziotti sono nella memoria della gente e della rete. «Quelle, e la storia delle manette: erano degli Anni 60, si sono rotte e c’è voluto il fabbro. In questo arresto il simbolismo ha voluto la sua parte».
Prima di ogni carosello davanti all’albero Falcone, il ficus che cresce in via Notarbartolo – «un giro di clacson che festeggia la vittoria dello Stato sulla mafia» –, gli uomini della Catturandi devono fare ricorso alla fantasia, oltre che alla forza dei propri nervi. Prima che gli agenti dell’Fbi arrivassero con le loro camicie hawaiane per dare una mano nella caccia a zio Binnu – e se ne andassero avviliti, lasciando in regalo l’attrezzatura tecnologica – questi sbirri inventano la microspia che si alimenta con la cartina tornasole. Riadattano per le proprie missioni le tute usate dei colleghi del Reparto Volo («Una volta sono finito in una vasca di cemento fresco. E sono tornato a casa con una tovaglia intorno ai fianchi»). E sono pronti a trasformarsi per giorni in sassi, se l’appostamento lo richiede.
È successo nella campagna di Corleone, gli occhi fissi su una masseria. «Morivamo di fame». Concluso il blitz, la Catturandi vede una montagna di ricotta fresca. Il primo poliziotto tira fuori la sua carta platinum e la usa come un cucchiaio. Gli altri lo imitano, ciascuno con la carta che trova nel portafogli. Di credito, del supermercato. E il formaggio di cui si nutre, con un po’ di cicoria e di miele, Bernardo Provenzano. Preso dopo 43 anni di latitanza. Per I.M.D., la ricotta più buona di sempre.