Roberta Scorranese, Sette 13/2/2015, 13 febbraio 2015
LA POETESSA DEI COLLAGE CHE HA ANTICIPATO I TWEET
Amava le soap opera e non perdeva una puntata della Schiava Isaura. Collezionava oggetti kitsch — come le orribili boule de neige che trovava nei mercatini di Cracovia — e agli amici non scriveva lettere ma cartoline-collage, dove incollava immagini di mucche, capre, cavalli. Si divertiva con limerick e filastrocche, mal sopportava di parlare della sua vita personale e quasi tutti ce la ricordiamo in una vecchia foto in cui sorride sotto un cappellino buffo. Ecco, questa era Wisława Szymborska, nata nel 1923 e mancata nel 2012. E con una simile premessa forse si può cominciare a capire come mai questa strana poetessa polacca, giunta alla fama ormai più che settantenne (il Premio Nobel per la poesia le venne assegnato nel 1996) abbia conquistato a tal punto il mondo e in particolare il nostro Paese che al momento, su Twitter, ogni ora in media, c’è qualcuno che condivide un suo verso. Cercando il suo nome su Google compaiono quasi un milione di pagine e Adelphi, editore che l’ha lanciata in Italia negli anni Novanta insieme a Scheiwiller, snocciola cifre pressoché impensabili per un autore di versi: con tutti i suoi titoli sono state vendute 180 mila copie, di cui 85 mila solo de La gioia di scrivere (2009). Nel febbraio dell’anno della sua morte, questa raccolta è stata al primo posto in classifica per quattro settimane, caso probabilmente unico in Italia per un libro di poesie.
Un vero “caso Szymborska”? Si direbbe di sì. E a riproporlo, adesso, è la bella biografia, in uscita sempre per Adelphi, di Anna Bikont e Joanna Szczesna, Cianfrusaglie del passato, a cura di Andrea Ceccherelli. Così, ripercorrendo la vita di Wisława, sin da quando venne al mondo a causa di un “colpo di testa” del padre, si delinea il ritratto dell’autrice di raccolte come Discorso all’Ufficio oggetti smarriti (2004), Letture facoltative (2006) o Vista con granello di sabbia (1998; tutte le date qui si riferiscono alle traduzioni Adelphi in Italia). Gli studi presso le Orsoline, l’impiego alle Ferrovie per evitare la deportazione, le prime poesie pubblicate su quotidiani e riviste, poi l’adesione al Partito Comunista e il successivo allontanamento, il Nobel, il successo. La morte.
Ma la sua vita non basta a capire come e perché, in pochi anni, abbia conquistato una popolarità di pubblico vasta e trasversale, nonché duratura. Sì, perché gli esempi sono tanti, diversi, alcuni contraddittori. Se molti ricordano l’omaggio di Roberto Saviano che, in una puntata di Che tempo che fa del 2012, recitò i versi di Ogni caso («Ascolta come mi batte forte il tuo cuore»), forse non tutti rammentano il sottile braccialetto indossato dall’allora ministro del Lavoro Elsa Fornero, sempre nello stesso anno, nel corso di un complicato incontro con i sindacati. Sul monile spiccava la scritta: «È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena ». Citazione da Vista con granello di sabbia. In un breve saggio dal titolo Szymborska in Italia o la fiera dei miracoli, Luigi Marinelli ha parlato di szymborskismo per indicare questa improvvisa e inarrestabile popolarità, un po’ come accadde con l’autore di Quo vadis?, un altro polacco, Henryk Sienkiewicz, per il quale nacque il termine quovadismo. Autori che apparentemente non sembrano dire nulla di così indimenticabile ma che, poco alla volta, entrano nel quotidiano, ci diventano amici, vicini, come se avessero toccato una corda segreta. E, a ben leggere i versi di Szymborska, non si trovano di certo altezze semantiche che alludono ad abissi insondabili, cosa che si potrebbe dire, per esempio, del conterraneo Czesław Miłosz. Anzi. «Ma è proprio questo il punto. È la sua apparente semplicità che cattura», dice Giovanna Tomassucci, docente di Letteratura polacca all’università di Pisa.
Occhi sul nazismo. E qui si apre uno squarcio, un corto circuito come quelli scaturiti dai versi della poetessa. Leggiamo qualche verso a caso: «Prendo parole comuni, dal dizionario le rubo,/ studio, misuro e soppeso/ Nessuna va bene». Oppure: «Sono quella che sono./ Un caso inconcepibile/ come ogni caso.» E ancora: «Ogni inizio infatti / è solo un seguito / e il libro degli eventi / è sempre aperto a metà». Periodi brevi, paratattici, che ben si prestano a essere estrapolati. Dunque, perfetti per quella tendenza universale nella comunicazione contemporanea che parte dalla citazione, dal tweet, dai 140 caratteri, dalla sentenza.
Un linguaggio che, come sottolinea Tomassucci, «è facile spezzare e può richiamare altri tipi di linguaggi: del cabaret, della canzone, perfino dello slogan pubblicitario. Con i suoi arguti corti circuiti Szymborska riesce a spezzare il senso di luoghi, comuni, proverbi, frasi idiomatiche, ponendosi in territori prossimi al motto di spirito e all’aforisma. Il suo particolare sense of humour, certamente vivificato dalla tradizione ebraica polacca, è stato dichiarato affine al proprio da Woody Allen». Ecco, un altro illustre fan della poetessa e non sorprende perché lei stessa ha deciso di indossare un ottimismo surreale nei suoi versi, ma non come proiezione della sua personalità, anzi; non dimentichiamo che Szymborska appartiene a quella generazione di intellettuali nati nella Polonia degli anni Venti e che ha visto con occhi giovani e vergini gli inferni del nazismo. Piuttosto come scelta stilistica. Tomassucci sintetizza: «Chi considera i suoi testi un meccanismo ben congegnato, che si ripete monotonamente, sostanzialmente privo di idee forti, dimentica che, come altri poeti polacchi. Miłosz, Herbert o Rózewicz, per citare solo i più noti e grandi, anche Szymborska si muove intorno all’esperienza rivelatrice della Storia. Credo che la sua poesia, che non a caso ha dichiarato di scrivere “a dispetto degli orrori della storia” sia una strategia di sopravvivenza». Ed è proprio questa parola così efficace che ha sedotto uno come Roberto Vecchioni, il quale, nell’ultimo album Io non appartengo più, ha dedicato un brano alla poetessa. «Un personaggio», dice oggi il cantautore milanese, «che ha segnato in modo fortissimo la letteratura. E la sua è una parola letteraria». Non solo. Lorenzo “Jovanotti” Cherubini ha inserito un suo verso in Buon sangue: «Si nasce senza esperienza, si muore senza assuefazione». In Segnali di fumo (Utet) Andrea Camilleri ricorda l’incontro con la poetessa, in una cena all’ambasciata polacca. Lo scrittore aveva accettato di slancio, «troppo forte l’amore che nutrivo per la sua poesia. Eravamo una dozzina attorno al tavolo. Dopo cena, qualcuno disse alla poetessa che mia moglie e io avevamo appena festeggiato le nozze d’oro. Ci guardò, ci sorrise, si alzò dal divano, annunziò che avrebbe recitato per noi due una poesia composta per una coppia d’amici che aveva come noi raggiunto le nozze d’oro. Era una poesia affettuosa e ironica a un tempo. Poi la poetessa si voltò verso me e mia moglie e disse: “L’affetto prendetevelo tutto voi, l’ironia lasciatela all’altra coppia”». Affiorano così fili conduttori. Tracce. Molti dei ricordi postumi che la riguardano oggi sono velati di una strana magia, come se in lei ci fosse qualcosa di inspiegabile. Un po’ come le sue poesie: «Conosciamo noi stessi solo fin dove / siamo stati messi alla prova. / Ve lo dico / dal mio cuore sconosciuto». Una sorta di incantesimo che — caso forse unico da noi — ha attratto anche molti non lettori di poesia. Oppure è stata il viatico con cui molti scettici si sono avvicinati alla parola in versi, come dimostrano le statistiche di Adelphi.
Perché? Tomassucci avanza una tesi affascinante. «Mentre in Polonia e all’estero è stata molto studiata e interpretata, in Italia, dove ha cominciato in salita, tra il sarcasmo e l’incomprensione di molti, è invece soprattutto letta e propagata. Forse è anche questa assenza di un filtro critico ad attirare liberamente e magneticamente chi non si fida della poesia. Del resto lei, introdotta in Italia grazie alla passione tenace del suo traduttore, Pietro Marchesani e del suo primo editore Vanni Scheiwiller, con sua moglie Alina Kalczynska, vede la poesia come un rapporto immediato con i lettori».
Dalla Gazzetta alla letteratura. Ecco il punto. Ecco la magia. Ecco quell’entusiasmo condiviso che accomuna Jovanotti a Ferzan Özpetek (ricordate quel volumetto di poesie che scivola dalla borsa della piccola ladra in Cuore sacro?); Woody Allen e Fabio Volo (nel 2009 una puntata della trasmissione radiofonica Volo del mattino, ha letto Nulla in regalo, tutto in prestito); la scrittrice Simona Vinci, che la cita in Stanza 411, e Umberto Eco («Scrive cose importantissime in una maniera semplice»); le riviste letterarie e la Gazzetta dello Sport, che in uno dei titoli dell’ultimo Europeo di calcio ha preso in prestito il verso «Nulla due volte accade. Né accadrà». La fluidità con la quale arriva all’orecchio e alla pancia di tutti, lettori e non lettori, la capacità di ispirare fiducia, quel suo essere non per iniziati ma per persone giovani, giovani in tutti i sensi. Non a caso, sul Corriere della Sera il critico Carlo Carabba ha implorato: Meno Sanguineti, più Szymborska. Meno versi oscuri, più «Morire – questo a un gatto non si fa./ Perché cosa può fare il gatto/ in un appartamento vuoto?». Più umiltà.
Umiltà. Come quella che la portò a dire, alla consegna del Nobel: «Lo avrebbe meritato di più il mio compagno, Kornel Filipowicz». Ecco perché forse sbaglia chi accosta il caso-Szymborska al caso-Kundera, che comunque segnò la cultura pop degli anni Ottanta: a Quelli della Notte, L’insostenibile leggerezza dell’essere divenne un tormentone e contribuì non poco a diffondere nel nostro paese il culto dello scrittore ceco. Ma si trattava di una reiterazione costante di parole, nel caso della polacca è — senza retorica — un innamoramento collettivo, per dirla alla Alberoni. Un entusiasmo condiviso, dice Tomassucci. Che conclude: «Proprio a questo aspetto abbiamo dedicato il convegno Szymborska, la gioia di leggere, nel 2014 a Pisa. Lettori, poeti e critici, i cui atti usciranno entro la fine anno presso la casa editrice Pisa University Press». Ma la conclusione reale è meglio lasciarla a lei, alla poetessa che amava i gatti, le filastrocche, George Clooney e Montaigne: «Non c’è giorno che ritorni,/ non due notti uguali uguali,/ né due baci somiglianti,/ né due sguardi tali e quali».