Imma Vitelli, Vanity Fair 11/2/2015, 11 febbraio 2015
BELLA CIAO
[Intervista a Marcello Franceschi] –
Tra le verdi colline del Nord della Siria, a una decina di chilometri da Kobane, nel fango della prima linea combatte un volontario italiano. A differenza delle migliaia di foreign fighters che hanno risposto alla chiamata alle armi del terrificante Stato Islamico, Marcello Franceschi si è arruolato con chi lo combatte. Gli è sembrata l’unica cosa da fare. «Questa è la guerra di chiunque creda nella democrazia, di chiunque creda nella libertà, di chiunque creda che la civiltà debba sopraffare la barbarie», mi dice seduto dentro una casamatta mentre fuori, nel villaggio di Kolmat, si spara.
Marcello Franceschi è un giovanotto alto e bruno di 25 anni, che di certo non mi aspettavo di incontrare in una turbolenta trincea siriana. Vi è arrivato da Senigallia, Ancona, con lo stesso spirito di quanti andarono in Spagna, negli anni Trenta, a combattere le truppe reazionarie del Generale Franco. «Questa è la guerra di chiunque creda che contro il fascismo siano necessari fatti e non parole». È serio, mentre lo dice, ha l’espressione di un uomo che per un amico sacrificherebbe la propria vita. Eppure, non aveva mai imbracciato un fucile, prima, né pensato che un giorno si sarebbe ritrovato a impallinare un miliziano dello Stato Islamico in Iraq e in Siria (Isis).
Lentamente, emerge la sua trama.
Suo padre è stato un partigiano («ha combattuto sui colli della Toscana») e in qualche modo le sue origini («mia mamma è marocchina») l’hanno portato, un giorno, a farsi capire con un po’ di arabo in una trincea mediorientale. Della sua vita, prima, ricorda il liceo classico, e una serie di lavori precari, ride dicendo che ha fatto anche l’agente immobiliare.
La svolta, intima, personale, avviene quando lo Stato Islamico attacca, lo scorso autunno, Kobane e con i centri sociali, di cui fa parte, lancia il progetto «Rojava calling» . «È tutto partito da lì», spiega.
Rojava è la regione nel Nord della Siria, lungo il confine turco, a maggioranza curda, in realtà tre cantoni separati tra di loro chiamati Kobane, Afrin e Jazira. I curdi sono la più grande minoranza etnica non araba della Siria; rappresentano circa il 10% della popolazione; più o meno due milioni di persone. Nel caos della guerra civile, il maggior partito curdo ha dichiarato l’autonomia del Rojava e stabilito un sistema di governo, introdotto tribunali, una Costituzione e formato piccole brigate difensive, le Unità di protezione, in cui alla fine si è arruolato Franceschi.
Ma come fa un ragazzo di Senigallia a diventare l’unico volontario italiano della Resistenza curda in Siria?
«A novembre, con i centri sociali sono stato a Suruc».
Suruc è il villaggio in Turchia che confina con Kobane; Suruc è il luogo da cui il mondo ha assistito in diretta, a distanza di sicurezza, alle bombe sopra Kobane. A Suruc, Marcello arriva con aiuti, medicine, vestiti. Gira per i campi profughi, dorme con i curdi in case occupate, raccoglie informazioni che posta sui canali dei centri sociali. Poi conosce due piccoli rifugiati e qualcosa dentro cede.
«Erano due fratelli di 7 e 12 anni. Si trovavano a Kobane, quando l’Isis l’ha invasa. Il bambino di 7 non aveva più le mani, le aveva messe su una mina. Quello di 12 aveva combattuto tantissimo. Aveva gli occhi della guerra. L’aveva colpito un cecchino e una cicatrice gli creava un sorriso in cima alla testa. A un certo punto si era ritrovato dentro un carro armato e il carro armato era stato colpito da un razzo e l’Isis stava per arrivare e questo bambino aveva preso una granata ed era pronto a farsi saltare in aria pur di non farsi catturare, ma poi per fortuna il carro armato è ripartito. Qui ci sono piccoli di 12 anni che combattono».
Quel giorno, Franceschi si dice che non gli piace un mondo in cui i bambini combattono e gli uomini restano a guardare.
«Il nostro progetto si chiamava Rojava calling. E Rojava era lì, davanti a me, e mi chiamava. Mi sono staccato dai centri sociali. Ho informato pochissime persone. A mia madre ho detto la verità. Non era d’accordo, ovviamente. Anche alla mia ragazza ho detto la verità. Ha minacciato di lasciarmi. Poi mi ha fatto promettere che l’avrei fatto solo questa volta».
E che cos’è che stai facendo, esattamente?
«È come nella rivoluzione spagnola. Le sinistre in Italia sono buone solo a parole, non vogliono mettersi in gioco e rischiare. Io non posso essere così. O smetto di essere di sinistra o nel momento in cui gli eserciti fascisti dell’Isis uccidono i bambini e massacrano i civili parto e combatto. Se davanti a casa mia non accetto che un bimbo possa essere sgozzato dal suo carnefice, come posso accettare che accada a cento, mille chilometri di distanza? Questo significa essere internazionalisti. L’umanità non ha confini. Ho deciso di essere una persona che fa la sua parte».
Il salto dalla pace al buio del fronte avviene di notte. Dalla Turchia entra in Siria nell’unico modo possibile: clandestinamente. È il 3 gennaio e nevica. C’è un buco nel filo spinato e un fossato e, oltre il fango, la guerra. Lo portano nelle baracche degli addestramenti, che durano cinque giorni. «Per me che ho fatto pugilato per 7 anni, un training leggero. Ma per i miei haval, i miei compagni, è stato duro. Gli haval sono panettieri, calzolai, gente del popolo, che non ha mai fatto sport».
In che cosa consiste l’addestramento?
«Tattica, strategia, utilizzo, pulizia e mantenimento delle armi, disciplina nelle armi e nei movimenti».
Avevi mai sparato prima?
«No».
Mai tenuto in mano un fucile?
«No».
E ti hanno messo subito in prima linea.
«Sono stato l’unico del mio gruppo di venti compagni a finire in prima linea. Ho eccelso in tutti i campi».
In che lingua comunichi?
«Un po’ di curdo, un po’ di arabo, un po’ d’inglese».
Franceschi si innamora della gentilezza dei curdi, qui la vita è importante, dice, mica come i barbuti, che allevano falangi di kamikaze. «Qui prima di un’operazione ti dicono io ti rivedo. Hai capito? Ti rivedo».
Marselo – così lo chiamano i compagni – si unisce a un’unità che il nemico lo vede in faccia. Tutte le unità curde sono formate da 8 shermag, soldati. La sua aveva appena perso quattro uomini.
Della vita al fronte parla con una dignità di altri tempi. Non dice niente del freddo, della legna da ardere che non si trova, del fango, del fatto che non ti lavi perché non c’è acqua e non ti spogli perché che ti metti? È arrivato con dentifricio e spazzolino e qualche cambio di mutande.
La prima linea, dice, consiste nella nubat e negli assalti. La nubat è la guardia, e in prima linea è dura, specie quando ti muovi in un’unità di otto.
«Stai per sei ore in una specie di fortino fatto di sacchi di sabbia e questo fortino sta a dieci metri dalla prima casa del nemico».
Sei nel territorio dei tagliatori di teste.
«Sì. Guardi attraverso un buco e in qualunque momento possono arrivare. Per sei ore osservi le ombre e fortunatamente
ho osservato bene perché la prima notte ho sparato a un Isis che stava cercando di infiltrarsi. Ho visto un’ombra, ho fatto fuoco. Le regole d’ingaggio sono: fuoco libero appena vedi qualcosa, qualunque cosa è l’Isis. Davanti c’è l’Isis. Intorno c’è l’Isis. Ho aperto il fuoco e abbiamo sentito delle urla. Il mio compagno è andato a vedere col visore infrarossi che sta da un’altra parte, ce n’è uno solo per tutta la prima linea, e ha visto due che trascinavano uno dell’Isis in fin di vita. Questo è stato il mio esordio».
E com’è stato?
«Strano. Da lì ho sempre tenuto gli occhi aperti. Esplosioni, pallottole, colpi di mortaio, cannonate, sono continui. O te ne freghi e le ignori o diventi pazzo».
Il disagio più grande?
«La mancanza di sonno».
Poi fuori si scatena una battaglia e il comandante delle truppe curde ordina il mio allontanamento e dico a Marselo di chiamarmi al telefono perché ho molte altre domande.
Non lo sento per qualche giorno, e alcuni appuntamenti vanno a vuoto.
Sono, nel frattempo, emerse le immagini dell’ultimo orrore del Califfato: un pilota giordano bruciato vivo dagli islamisti ha finalmente scatenato il furore degli arabi, con marce, scomuniche e proteste.
Quando riesco di nuovo a parlare con Franceschi, la linea è terribile e il suo tono è diverso. È successo che, in un’avanzata, il suo gruppo è stato decimato. Un compagno siriano è morto colpito da una mitragliata. Un altro – quello che gli stava insegnando il curdo – giace ferito nell’ospedale da campo che ho visitato a Kobane.
«È cambiato tutto», mi dice. «Sono stato assegnato a un’altra unità. Mi trovo nel punto più avanzato che abbiamo conquistato. Vado casa per casa».
Hai paura?
«No. Provo rabbia. Non voglio più che un mio compagno muoia o venga ferito senza che ci sia io a coprirgli le spalle».
Sei davvero pronto a morire per Kobane?
«Che domanda è?»
L’hai messo in conto?
«L’ho messo in conto, sì. Ma non è morire per Kobane. È morire per quello in cui credo. Devo chiederti una cosa».
Dimmi.
«Scrivilo come vuoi tu, inventati tu la domanda, ma scrivilo».
Cosa?
«Non ci sono altri come me. C’è solo me».