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 2015  febbraio 13 Venerdì calendario

SANGUE, ELEZIONI E JIHAD


Qui a Lagos, cuore commerciale della Nigeria, viene la tentazione di considerare Boko Haram, il gruppo terroristico islamista che da più di cinque anni conduce una vera e propria guerra nel Nordest del Paese, come una tragedia lontana. Siamo, ovviamente, consapevoli delle conseguenze negative: le migliaia di morti, le centinaia di migliaia di persone in fuga, le infrastrutture distrutte – scuole, chiese, moschee, case, stazioni della polizia – per la cui ricostruzione serviranno anni e milioni di euro. Ma qui nel Sud della Nigeria è facile non sentirsi coinvolti dal problema.
La verità, invece, è che l’impatto della rivolta si diffonde in tutto il Paese. A farmi aprire gli occhi è stata una visita che ho fatto lo scorso anno in un mercato dei tessuti ad Abeokuta, una città un centinaio di chilometri a nord di Lagos.
Ero lì per intervistare dei mercanti sul loro lavoro. Mentre parlavamo delle difficoltà che devono fronteggiare, mi aspettavo le solite risposte: i costo dell’elettricità, le tasse l’accesso al credito. È per questo che rimasi molto sorpreso quando una donna citò Boko Haram: un numero rilevante dei suoi clienti vivevano nel Nord della Nigeria e, dopo l’inizio della rivolta, avevano smesso di fare i loro ordini.
I legami commerciali tra Nord e Sud sono ancora più importanti nel settore dell’agricoltura. La maggior parte del cibo del Paese viene infatti dalle zone dell’insurrezione. Potiskum, una città che i militanti jihadisti hanno attaccato diverse volte negli ultimi anni, uccidendo decine di persone, ospita uno dei più grandi mercati di bestiame dell’intera Africa Occidentale. A Chibok, il villaggio da cui sono state rapite centinaia di ragazze lo scorso aprile, lavorano tanti contadini che coltivano il grano distribuito su tutto il territorio nazionale.
Qualche mese fa ho parlato con il padre di una di quelle ragazze. Come molti dei contadini dell’area, era terrorizzato all’idea di andare nei campi a lavorare, e la stagione stava praticamente finendo. Non soltanto, quindi, non saprà come nutrire la sua famiglia, ma non avrà neanche alcuna eccedenza da vendere.
Per i nigeriani, quella economica è una preoccupazione sempre presente: il Paese sembra spesso in balia della ciclicità del prezzo del petrolio, delle svalutazioni della moneta e della crescita del debito pubblico. La campagna di terrore di Boko Haram, però, si sta dimostrando il principale problema con cui il Paese deve fare i conti.
Quello che risulta difficile da capire e da fronteggiare è la minaccia alla nazione che Boko Haram rappresenta. La Nigeria non è estranea all’instabilità politica: la nostra storia è costellata di scontri e sommosse che hanno prodotto un numero di vittime inimmaginabile in Occidente. Alla fine degli Anni 60, il Paese venne sconvolto da una guerra civile causata dalla secessione della regione del Biafra: un conflitto che costò più di un milione di vittime.
Nessuna delle crisi succedutesi in anni recenti, però, può essere paragonata all’attuale ribellione del Nord. Il conteggio totale delle vittime è arrivato a superare gli 11.000 morti. Lo scopo dichiarato di Boko Haram è quello di creare un califfato islamico, ma l’organizzazione dimostra poca propensione a riuscirci con un legittimo governo alternativo.
I resoconti di un massacro a Baga, poche settimane fa, e le immagini satellitari delle distruzioni su larga scala nella vicina Doro Gowon, chiariscono il fatto che la Nigeria si trova di fronte a un esercito di psicopatici mascherati da predicatori islamici. E l’unica risposta sensata alla loro azione dovrebbe essere quella militare. Il governo, invece, continua a incespicare tra un disastro e l’altro, lasciandoci tutti confusi sul perché l’insurrezione sia stata così terribilmente mal gestita. Dopo il rapimento delle ragazze di Chibok, il presidente Goodluck Jonathan ha lasciato passare tre settimane prima di rivolgere un discorso alla nazione, e ci sono voluti mesi perché si decidesse a incontrare le famiglie delle vittime.
Anche la comunità internazionale comincia a dimostrarsi impaziente. Il governo degli Stati Uniti si è rifiutato di vendere armi alla Nigeria, non fidandosi né della competenza né della capacità di rispettare i diritti umani dei nostri militari. Quando un aereo nigeriano, carico di 9,3 milioni di dollari in contanti, è stato bloccato in Sudafrica, il governo ha dovuto ammettere che stava cercando di comprare armi sul mercato nero. Poco dopo, un trionfante annuncio di cessate il fuoco con Boko Haram si è rivelato una truffa: alti rappresentanti del governo erano stati in realtà raggirati.
I fallimenti continuano. Il massacro di Baga è stato salutato da un nuovo silenzio del presidente, mentre le autorità militari cercavano di minimizzare il numero dei morti. Al contrario, il signor Jonathan ha pubblicamente condannato gli attentati di Parigi, mentre a noi venivano offerte le foto del matrimonio di sua nipote, tenutosi nello stesso weekend del massacro di Baga.
Con pochi giorni davanti, prima delle elezioni, questi inciampi hanno finito con il definire l’operato del governo Jonathan. L’opposizione lo accusa di corruzione, sostenendo che gli investimenti per la sicurezza (per altro chiaramente inefficiente) sarebbero stati gonfiati.
All’inizio di gennaio, in un raduno elettorale nel Sudest del Paese, ho sentito un politico dell’opposizione dire alla folla che l’unico modo per garantire sicurezza ai loro figli è votare per Muhammadu Buhari. Il generale Buhari, un ex militare di 72 anni che ha già governato il Paese 30 anni fa, è il più accreditato per la vittoria tra i candidati che sfidano Jonathan.
Il suo partito promuove un ambizioso programma per la creazione di posti di lavoro, la lotta alla corruzione, la creazione di un sistema sanitario e scolastico gratuito, e massicci investimenti in infrastrutture. Ma nel programma non ci sono molti dettagli sulla sua realizzabilità. Per molti, però, il desiderio di cambiamento è più forte dei dubbi su un’eventuale presidenza Buhari.
Jonathan respinge vigorosamente le accuse di non aver saputo realizzare molto e di aver eccessivamente tollerato la corruzione. Ma ha quasi sempre evitato di citare Boko Haram.
Forse si è reso conto che la sua scorta di banalità – «II terrorismo è un problema globale», «Non siamo l’unico Paese che si trova a fronteggiarlo», «La Nigeria trionferà» – suona ormai vuota e lascia senza parole.
I nigeriani hanno bisogno di quelle azioni decisive che il presidente non è stato in grado di offrire. La mia speranza è che il giorno di San Valentino, quando avranno luogo le elezioni, i nigeriani si ricorderanno di quelle ragazze di Chibok scomparse, dei morti di Baga e di tutti i rifugiati del Nord, e non voteranno l’uomo che ha dimostrato, senza alcun dubbio, di non meritare alcuna fiducia come nostro comandante.