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 2015  febbraio 12 Giovedì calendario

IL LAVORO NELL’OMBRA DEI MECCANICI DELLO SCI

È un one-man show soltanto di facciata. Se le epiche salite del ciclismo sono accompagnate da un coro rumoroso di fondamentali comparse, e la monotona ripetitività dei circuiti di Formula Uno è interrotta dall’indispensabile opera di gommisti e meccanici, nello sci l’imprescindibile azione di chi per mesi prepara sci e scarponi per quell’unica discesa resta nascosta dietro alla parete colorata di sponsor, al cancelletto. Eppure, c’è chi passa l’intera stagione a lavorare su poche paia di sci, sulla durezza di uno scarpone. Basterebbe scegliere la calzatura sbagliata, quella adatta a una giornata temperata se fuori ci sono venti gradi sotto zero, per cambiare le sorti di una gara, i destini di un atleta. Tra lamine e scioline, ci sono artisti dello sci che lavorano nell’ombra. Sono skimen e bootfitter e di loro si sa poco o niente, nonostante senza la loro opera un secondo rischierebbe di trasformarsi in un’eternità per qualsiasi sciatore. Perché lo sci è una questione di pesi e di equilibri, di regolamentazioni minime tra sci, attacchi e scarponi che su atleti di altissimo livello portano al podio o fuori dalla pista.
Grinta, tecnica, fisico, attrezzatura e bravura si condensano in centesimi. Per chi assiste a una gara, davanti alle telecamere c’è un uomo solo al comando e il rumore dei suoi sci che grattano la neve attenua perfino le grida del pubblico oltre le reti arancioni tese a bordo pista. C’è la potenza dei quadricipiti di un solo atleta compressa nella tuta attillata, pronta a esplodere in un’unica linea perfetta. Ci sono la sua calma e la sua concentrazione, la sua gestione della paura mentre vola a più di 140 chilometri all’ora o carica lo sci esterno per chiudere le curve. In qualsiasi disciplina dello sci, in qualsiasi gara, telecamere e cronisti guardano verso un solo uomo, anche se pesi ed equilibri degli sci in gara sono stati regolati e misurati da altre sapienti mani.
Il mondo dello skiman è fatto di minime ma cruciali regolamentazione già da molti mesi prima di quella breve discesa. Se l’apice della sua opera si muove veloce su un pendio innevato, il grosso dell’attività dello skiman - che può lavorare sia per le Federazioni nazionali sia per i grandi marchi - avviene di fatto in estate. È lui che va in azienda a scegliere i nuovi sci della stagione, quelli più adatti ai suoi atleti, di solito tre o quattro sciatori. Prepara il materiale da testare negli allenamenti estivi su ghiacciai europei, del sud o nord America, studia l’atleta, la fisica di pesi e misure, di temperature ed energie, di scioline e lamine, lavora per individuare il fattore fondamentale affinché tutto si componga in unico equilibrio, affinché lo sciatore arrivi a quella lontana gara invernale con il miglior paio di sci possibile in quel determinato momento.
«Per uno skiman è fondamentale il dialogo con lo sciatore, più mesi passi con il tuo atleta, più capisci le sue necessità», ci spiega Stefano Maceri, 41 anni, valdostano della Valle del Gran San Bernardo. Per 16 anni, Stefano è stato skiman e per un periodo anche bootfitter in Coppa del Mondo. Nel 2009, ha fondato il suo marchio di scarponi su misura che crea in un piccolo negozio di Courmayeur, con vista sull’imponenza della catena del Bianco. Negli anni, ha lavorato agli sci di campioni come i fratelli Bergamelli, Giorgio Rocca, Didier Cuche. Nel suo laboratorio mostra ora gli scarponi appena finiti di preparare a Federica Brignone.
Per Stefano, lo skiman è il filo diretto tra l’atleta e i suoi strumenti. Ricorda ancora le parole di uno dei suoi sciatori, Fabio de Crignis: nel momento della solitudine della gara, un allenatore, anche il più bravo, non può più far vincere o perdere un atleta. Uno skiman può. È come chi monta le gomme nella Formula Uno: sembra l’ultimo della catena, ma se sceglie quelle sbagliate la corsa è persa. Lo skiman prepara per ogni atleta almeno due o tre paia di sci per gara, se non di più. Ci lavora tutto l’anno, apporta modifiche nei giorni e nelle ore prima della discesa, scia la stessa pista, studia la temperatura, la neve, le previsioni del tempo, passa vigile la notte prima della competizione. L’imprevisto rischia di rovinare mesi di lavoro e dimostra come l’atleta non sia così solo su quella pista, tea che l’arte degli equilibri minimi sapiente- mente studiati da altri conduca il gioco assieme a lui.
Nel 1998, Stefano Macori è partito per la Coppa del Mondo a Lake Louise, in Canada, con due paia di sci per i discesisti testate durante i mesi estivi su ghiacciai e diverse nevi in Europa: «Erano velocissimi, due missili, gli sci più veloci che avessi mai visto – racconta –. Quando siamo arrivati in Canada, qualche giorno prima della gara, li abbiamo provati in pista. Si erano trasformati in due chiodi». Fuori c’erano -35° di notte e -20° di giorno. La neve era troppo fredda e quegli sci che volavano sui ghiacciai europei non scorrevano su quella neve canadese. A Lake Louise, gli atleti con cui lavorava usarono altri sci, ma due giorni dopo, in Val d’Isère, Francia, su una neve diversa, più calda, di nuovo europea, quello stesso paio di missili portò alla squadra il podio di Luca Cattaneo, secondo nella libera.
Se ogni sciatore viaggia con due o tre paia di sci, lo vale per gli scarponi. Identici tra loro nella marca, nel colore, indistinguibili l’uno dall’altro se non per alcune cifre sulla suola, sono invece diversi in rigidità, morbidezza, compattezza, elasticità, soggetti ai cambiamenti climatici nella loro corazza di poliuretano. Uno skiman non tocca lo scarpone di un atleta. C’è un’altra figura che lavora nell’ombra delle skiroom: il bootfitter. Pochissimi, in realtà, racconta Stefano Macori, che è stato sia l’uno sia l’altro e che oggi modella ancora gli scarponi con cui atleti affrontano le discese. Sulle dure e colorate calzature che un tempo furono di cuoio e cui bastava una semplice ingrassata, oggi c’è un lavoro minuzioso, perché lo scarpone nel suo anonimato trasmette l’energia, la forza e le sensazioni allo sci, e viceversa. Nella loro morsa, gli scarponi sono la diretta correlazione tra lo sciatore e il suo sci, «la scatola dello sterzo», come li definisce Stefano, senza la quale non è possibile il controllo, senza la quale si creerebbe una zona di rottura, e l’atleta si troverebbe veramente da solo su quella ripida pista.