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 2015  febbraio 12 Giovedì calendario

SE LE PRIVATIZZAZIONI VANNO A RILENTO LA COLPA NON È DI PADOAN, MA DELLA PROGRESSIVA SCOMPARSA DI GRANDI IMPRESE NAZIONALI

I cinesi che comprano la serie A. Il disastro del Parma calcio. La mancanza pressoché totale di imprenditori italiani disposti a investire nella privatizzazione delle aziende pubbliche, mandando a vuoto i tentativi del governo. Per quanto sottile, c’è un filo rosso che unisce queste tre vicende, ed è la conferma che quello italiano, storicamente un capitalismo senza capitali, è diventato ormai un capitalismo privo di adeguate basi imprenditoriali e finanziarie, indispensabili per affrontare la competizione globale. Il declino di cui tanto si parla, inizia da qui.
Il tema non è nuovo, né originale: illustri economisti lo hanno studiato in lungo e in largo, anche la Banca d’Italia vi ha dedicato una ricerca monumentale, ma nessuno, compreso il governo di Matteo Renzi, finora ha saputo indicare cosa si deve fare per rovesciare la tendenza, e restituire all’Italia un ruolo nell’economia globale che non sia puramente ancillare. Luigi Einaudi diceva che è indispensabile«conoscere per deliberare». Per questo può essere utile aggiungere alcune tessere a un mosaico complesso, per renderlo più decifrabile.
Quanto sta accadendo nel mondo del calcio, proprio per l’impatto che ha sull’italiano medio, è più eloquente di tante dotte analisi. A Parma, dall’inizio del campionato, si sono alternati ben cinque proprietari della squadra di calcio, uno più squattrinato dell’altro, e l’ultimo ha comprato la squadra per un solo euro, con la promessa - tutta da verificare - di farsi carico dei debiti. Ciò avviene in una regione ricca di imprese, tra le più benestanti, e dimostra che i «ricchi scemi» (come Gianni Brera chiamava i danarosi presidenti delle squadre di calcio di un tempo) non ci sono più. Il loro ultimo campione, Massimo Moratti, che ha guidato per anni l’Inter, una delle due squadre di Milano, ha gettato la spugna per eccesso di debiti, e venduto la squadra a Erick Tohir, un businessman indonesiano. Per la città che ama definirsi «capitale economica d’Italia», una figuraccia. Ma anche il segnale forte e chiaro di come siano cambiate le regole nel mercato globale, in tutti i settori, non solo nel calcio.
I nuovi ricchi, dunque i nuovi capitalisti, vengono dall’Asia. Così, dopo l’Inter dell’indonesiano Tohir, ecco arrivare il secondo uomo più ricco della Cina, un ex militare dell’esercito popolare di liberazione, tale Wang Jianlin, capo del colosso Dalia Wanda, che sborsando un miliardo e 50 milioni di euro ha acquistato la Infront, società che detiene i diritti televisivi della serie A, vera fonte finanziaria del calcio italiano, quindi la vera padrona del campionato. Da oggi, quelli che finora si credevano i suoi comproprietari (la Federcalcio di Carlo Tavecchio e la Lega dell’ex giornalista Maurizio Beretta), dovranno convincersi che non contano più nulla, se mai hanno contato qualcosa. Esattamente come i capitalisti senza capitali dell’industria. Mentre il cinese Jianlin di capitali ne ha, eccome, visto che ha acquistato anche il 20% dell’Atletico Madrid, in Spagna.
Ma il calcio è solo una tessera del mosaico. Dopo che la Fiat si è trasferita con Sergio Marchionne negli Usa, in Italia di grandi imprese private ne sono rimaste ben poche. Ferrero, Luxottica e Benetton sono tra i pochi nomi spendibili. Ma né loro né altri sembrano più disposti a rischiare denari propri per acquistare le aziende pubbliche. L’ultimo esperimento di capitalismo tricolore lo ha fatto nel 2008 il governo di Silvio Berlusconi, che mise insieme una cordata per rilevare l’Alitalia. Un fiasco totale, costato alle tasche dei contribuenti ben 6,5 miliardi, finché l’anno scorso, dopo sette anni persi in tentativi inutili di salvataggio, si è fatta avanti la Etihad, compagnia aerea del Dubai, espressione del ricco capitalismo arabo. Un finale prevedibile se si fosse tenuto a mente il fallimento precedente dei «capitani coraggiosi», ai quali Massimo D’Alema, quando era premier, consegnò per pochi spiccioli un gioiello pubblico quale era il gruppo Telecom-Tim prima della cura devastante dei vari Colaninno & Tronchetti Provera.
Questi fallimenti si possono giustificare solo in parte con la grande crisi finanziaria, iniziata nel 2008, che ha provocato un primo credit crunch, aggravato poi dalle politiche di austerità seguite in Europa. Si calcola che dal Duemila (introduzione dell’euro) in poi, l’Italia abbia perso il 70% dell’industria a partecipazione statale, il 45% di quella privata grande e media, e il 20% di quella piccola. Quest’ultima costituisce tuttora la spina dorsale della nostra manifattura, ma incontra sempre più difficoltà nel mantenere l’efficienza necessaria per competere sul mercato globale. Figurarsi se può interessarsi alle privatizzazioni. Queste, ormai, sono un terreno vietato perfino alle banche, gravate da 180 miliardi di crediti deteriorati. In questo quadro, la missione del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan di privatizzare quel che resta della grande impresa pubblica, merita di essere valutata con equa ponderazione: se procede a rilento, non è solo per la scomparsa di acquirenti tricolori, ma anche perché mettersi in casa dei nuovi padroni arabi o cinesi significa cedere sovranità. Il che, ai politici, già piace poco nei confronti dell’Europa, figuriamoci per il resto.
Tino Oldani, ItaliaOggi 12/2/2015