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 2015  febbraio 07 Sabato calendario

BUZZFEED IL POTERE DELLE LISTE


[Jonah Peretti]

Com’è fatto un magnate dei media? Una volta erano tizi ambiziosi a capo di imperi costruiti sull’olio di balena o sulle miniere di rame, nei film di supereroi sono uomini coi baffi in completi da un fantastilione di dollari che fumano sigari e vogliono dominare il pianeta.
Della categoria, Jonah Peretti è l’esemplare più recente. Il fondatore di BuzzFeed è seduto a un tavolo nel suo ufficio di Lower Manhattan, arredato in modo essenziale. L’alta sartoria italiana non fa per lui: è vestito con un pullover verde, pantaloni azzurri e sneaker. Ha capelli morbidi e ondulati e ci passa la mano ogni trenta secondi.
Se questo fosse un film di supereroi, Peretti non sarebbe mai stato scelto per la parte del magnate dei media: anche adesso, a 40 anni, ha le fattezze dell’adolescente secchione che scopre di avere un potere magico. Sarebbe BuzzMan, o Capitan Listicle, dal nome degli “articoli composti da liste”: il marchio di fabbrica di BuzzFeed.
Gli chiedo, indicando oltre la parete in vetro gli impiegati in jeans e felpa: è questo il futuro del giornalismo? Esita e risponde facendo sembrare ogni affermazione a sua volta una domanda: «Ci sono cose che restano invariabili? La gente vuole sapere cosa succede nel mondo? La gente vuole leggere cose che ispirano e divertono?».
Se Peretti fosse un supereroe, il suo potere sarebbe quello di far diventare virali online le cose più insignificanti. Ha scoperto questa capacità al Mit, mentre cercava scuse per evitare di scrivere la tesi, quando ordinò un paio di Nike personalizzate con la parola “sweatshop”. La sua corrispondenza con la multinazionale diventò uno dei primi esempi mondiali di email virale: Nike gli risponde che la parola sweatshop è «gergo inappropriato»; Peretti replica che è nei dizionari, con questa definizione: «Una fabbrica in cui gli operai lavorano per molte ore con salari bassi e condizioni malsane». Riflette: «Avevo scoperto un trucchetto formidabile. Mi chiedevo: com’è possibile che uno studente che nei media non conosce nessuno riesca a raggiungere milioni di persone? Era qualcosa di nuovo, di diverso, e volevo capire cos’era».
C’è riuscito: Jonah Peretti è diventato un supereroe dei social media, capace di imbrigliare il potere del web virale per costruire un impero. BuzzFeed ha 600 dipendenti: ci sono BuzzFeeders a San Paolo, Mumbai e Parigi e uffici della società in cinque città americane, a Sidney e Londra. Dopo l’iniezione di 50 milioni di dollari da parte del leggendario fondo di venture capital Andreessen-Horowitz, ora BuzzFeed vale 850 milioni, quattro volte la cifra spesa da Jeff Bezos per acquistare il Washington Post. «E i giornalisti non hanno colto l’aspetto più succoso», dice Will Hayward, che dirige da Londra le operazioni europee di BuzzFeed. «Cioè che, secondo Andreessen-Horowitz, il cui obiettivo è di solito decuplicare gli investimenti, BuzzFeed può arrivare a valere 8,5 miliardi».
Come i supermercati ci invogliano a usare le casse automatiche, in modo da registrarci gli acquisti da soli, così BuzzFeed ci persuade a distribuire le sue notizie e la sua pubblicità, condividendole su Twitter e Instagram. Da qui la prevalenza delle liste, fatte per essere lette e soprattutto rilanciate: «Le 33 foto che vi restituiranno l’orgoglio di essere umani» o «Le 32 foto che dovete vedere prima di morire».
Jack Shepherd, direttore editoriale e beastmaster del sito (è lui che dirige gli sforzi per catalogare gli animali più teneri), è convinto che l’empatia sia la qualità più importante per un autore di liste. Dice: «È questo che cerco quando ragiono su chi assumere: la capacità di mettersi nei panni di chi legge». In particolare di quelli che hanno la condivisione facile su Facebook. Molte liste sono rivolte a un gruppo specifico, ma stuzzicano anche la curiosità di tutti gli altri. Le pubblicità stesse sono proposte come liste, sponsorizzate da aziende ma impaginate da BuzzFeed. Seduto nella reception, in attesa di incontrare l’Uomo Listacolare, la receptionist mi spiega che quella sera è in programma un’uscita collettiva dei dipendenti per andare a vedere una partita di baseball allo stadio dei New York Mets, e che hanno fatto stampare delle magliette per l’occasione. Un’altra donna si avvicina. «La delegazione di Twitter è arrivata», dice. Delegazione? Twitter e BuzzFeed si scambiano ambasciatori? Arriva un’altra impiegata, in felpa rossa, per accompagnarmi da Peretti. Passiamo dietro la stanza della redazione e lungo una parete di uffici che prendono il nome da gatti celebri in rete. Purtroppo l’ufficio di Peretti non è intitolato a un gatto. Anzi, ho sentito dire che è allergico ai felini. Alla domanda se ha animali domestici ha svicolato dicendo che lui e sua moglie Andrea Harner, progettista di interni, ora sono troppo occupati con un paio di adorabili gemellini di 5 anni, che campeggiano in una foto nell’ufficio.
Entro nell’habitat vetrato del Dottor Buzz, lui si alza per darmi il benvenuto. Grazie per l’intervista, gli dico. Lei si vede come un magnate dei media? Fa un profondo respiro. «Il mito del magnate dei media è quello di un William Randolph Hearst capace di scatenare una guerra per poterla raccontare ai lettori», dice. «Io penso che quella sia un’era che sta giungendo a termine». Però qualche sprazzo di Quarto potere Peretti lo fa intravedere. In un memorandum aziendale che ha fatto circolare qualche mese fa esponeva una visione grandiosa sugli anni a venire, in cui BuzzFeed sarebbe diventato un colosso. Diceva che anche Time aveva cominciato proprio come BuzzFeed, mettendo insieme e riconfezionando articoli di quotidiani, e che poi era cresciuto creando «irresistibili liste» come le «100 persone più influenti», che Peretti paragonava alla lista buzzfeediana delle «42 persone che esistono davvero anche se sembra incredibile» (ma mentre le liste di Time sono piene di politici e imprenditori, quella di BuzzFeed si concentra sulla «ragazza con la capigliatura più voluminosa» o sul ragazzo che cerca di mangiare la pizza con le bacchette, e tuttavia è stata vista 27 milioni di volte).
Peretti scriveva che se per Time il boom è arrivato con le foto stampate a colori, per BuzzFeed la svolta sono stati foto e video sugli smartphone: all’improvviso le nostre liste, i nostri quiz, i video sono diventati accessibili a miliardi di individui». Ora, di persona, riprende lo stesso ragionamento: «Negli anni 70-80, quando si affermò la tv via cavo, nacque una serie di canali che oggi sono colossi: Mtv, Cnn». Ci sono momenti in cui la tecnologia cambia e fa emergere aziende che hanno una visione chiara del nuovo contesto, create per quel mondo. Noi vogliamo essere una di queste». E come farà a guidare BuzzFeed in questo radioso futuro? «Il mio compito sostanzialmente è contribuire a creare una piattaforma ideale, che consenta a giornalisti, intrattenitori e creatori di talento di dare il meglio». BuzzFeed cominciò ad assumere una serie di giornalisti di ottima reputazione nel 2011, quando Peretti arrivò alla conclusione che gli articoli originali e i servizi lunghi, stavano diventando una componente importante dei social media, e che uno scoop politico clamoroso aveva le stesse chance di diventare virale di una lista dei «33 animali che sono estremamente delusi dal vostro comportamento». Quell’anno assunse Ben Smith, caporedattore del sito Politico, e gli affidò il timone dell’informazione tradizionale.
Peretti dice di aver imparato a delegare da bambino, quando viveva a Oakland, in California. «Ma non voglio parlare molto di me», dice. Però quando gli chiedo di fare una lista dei «Ricordi più scioccanti della sua infanzia», si scioglie. Al primo posto, il fatto che imparò a leggere solo a 9 anni. «Ricordo la scuola come un periodo molto difficile, vedevo tutti gli altri bambini che leggevano e io non ci riuscivo», dice. «Dislessia credo sia l’etichetta da appiccicarci sopra, anche se la diagnosi di questo tipo di cose varia a seconda dell’epoca o di altri fattori». Sua madre era un’insegnante, il che ha aiutato (suo padre era un avvocato penalista), ma «ho letto il mio primo libro tipo in quarta elementare», dice. Spiega che la lezione di vita, in seguito utile per dirigere una startup, è stata «Non sarò mai il migliore in tutto», dice. «Dovrò fare affidamento su altre persone».
Al college scelse come materia principale Studi ambientali, più Animazione computerizzata, Web design e Filosofia. Tenne un corso di informatica in un liceo di New Orleans, poi iniziò un corso di specializzazione al Media Lab del Mit, allora all’avanguardia nella rivoluzione digitale. «Negli anni 70, quando qualcuno tirava fuori concetti come i sei gradi di separazione, erano più o meno curiosità intellettuali senza applicazioni pratiche», dice. «Poi improvvisamente è arrivata Internet». L’email di Peretti a Nike fu un primo esempio. Pochi mesi dopo Ze Frank, che ora lavora a BuzzFeed Motion Pictures, creò un video che istruiva gli invitati alla sua festa su come dovevano ballare. Fu un successo. Molti altri cercarono di replicarlo con la stessa idea. «Ciò che fece Ze, e che feci io, fu dire invece: ok, proviamo ad astrarci da questa cosa specifica e ragioniamo: qual è la dinamica di fondo?».
A quel punto Peretti mise a segno una sequela di successi virali. Uno era un sito intitolato «I neri ci amano!», fatto come se fosse la pagina web di una coppia bianca orgogliosa di pubblicare foto e testimonianze di amici neri. In pochi giorni, Peretti si ritrovò invitato a Good Morning America per discutere di problemi razziali con Diane Sawyer.
Poi spuntò fuori uno scaltro uomo d’affari di nome Ken Lerer. «Mi disse: “Io conosco il business, tu conosci internet, perché non facciamo una società?”», racconta Peretti. «Nello stesso periodo Lerer incontrò Arianna Huffington e cominciò a dirmi (e qui Peretti imita una voce profonda, evocativa di consigli d’amministrazione, magnati e sigari avana): «”Allora parliamo del nostro progetto con Arianna”. E io che mi chiedevo: chi è Arianna?”. L’ho cercata su Google e abbiamo finito per metterci in affari». Era il 2005 e il business in questione era l’Huffington Post. Per usare il gergo teatrale. Arianna Huffington era quella sotto i riflettori, Peretti curava gli effetti dietro le quinte e Lerer stava al botteghino. All’Huffington Post Peretti si invaghì «del modello startup» e quando nel 2006 creò BuzzFeed, quello che aveva in mente era una sorta di palestra «dove sperimentare e fare cavolate». La sede era a Chinatown (Jack Shepherd mi ha detto che stava sopra una sala da mahjong e brulicava di scarafaggi, cose che chissà perché non sono mai entrate in una lista).
Torna la donna con la felpa rossa, per ricordare all’Incredibile Buzz che ha una riunione. Peretti le fa un cenno e prosegue: «Il nostro primissimo formato era una lista di link. «Il fatto è che, se ti guardi intorno, ti accorgi che tutto ha la forma di una lista: Google è la top ten dei link più rilevanti per una parola, Facebook è la lista delle cose che i tuoi amici stanno postando. Insomma, è il modo di organizzare l’informazione che si evolve così. E allora ci siamo detti: perché fare solo una lista di cose che rimandano ad altre? Invece di segnalare le cose che la gente vuole condividere, perché le cose da condividere non le creiamo noi?». Nel 2011 l’Huffington Post venne venduto ad Aol per 315 milioni di dollari e Peretti fu pronto a dedicare i suoi superpoteri a BuzzFeed. Ed eccoci qui, nel cuore del posto dove «creano le cose».
La felpa rossa bussa di nuovo. Deve proprio andare, gli dico. Lui si passa una mano tra i capelli. «Sì, credo che ci sia della gente che devo vedere, da qualche parte». Annuisce, mi dà la mano e scappa via.
(The Sunday Times/News Syndicadon. Trad. di Fabio Galimberti)