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 2015  febbraio 12 Giovedì calendario

Mi sono spesso domandata per quale ragione lei non abbia mai commentato un argomento che periodicamente torna d’attualità: le Regioni a statuto speciale

Mi sono spesso domandata per quale ragione lei non abbia mai commentato un argomento che periodicamente torna d’attualità: le Regioni a statuto speciale. Si parla di obiettive necessità, all’epoca della loro costituzione, tanto che sono state previste dalla Carta costituzionale. Altrettanto si conclude che sarebbe anacronistico mantenerle in vita oggi, per varie ragioni, non ben precisate. Perché, a suo avviso, i politici evitano di parlarne, in un momento propizio come l’attuale, in cui si mette in discussione l’assetto costituzionale, dal bicamerale perfetto, all’abolizione delle province, all’accorpamento dei comuni? Che cosa c’è sotto, che i cittadini non conoscono? Mariella Mercalli mariella.mercalli@hotmail.it Cara signora Mercalli, P osso comprendere perché la classe politica preferisca evitare l’argomento. Le regioni a statuto speciale nascono dalla crisi dello Stato centralizzato, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia non perdette soltanto le sue colonie. Dovette anche fare fronte alle ambizioni di Paesi che accampavano diritti su una parte del suo territorio nazionale. La Francia, con un colpo di mano, cercò d’impadronirsi della Valle d’Aosta e di organizzarvi un referendum. La Jugoslavia cercò di fare altrettanto con Trieste. In Sicilia nacque un movimento secessionista in cui qualche fantasioso personaggio sperava addirittura che l’isola divenisse un’altra stella della bandiera degli Stati Uniti. Nella fase più pericolosa l’Italia fu aiutata dagli Alleati. Il presidente Truman costrinse Parigi a ritirare i propri soldati dalla Valle d’Aosta, i neozelandesi e gli inglesi intimarono alle truppe di Tito di abbandonare Trieste. Per decidere le sorti della provincia di Bolzano, Alcide De Gasperi ebbe la fortuna di negoziare in tedesco con il rappresentante di un Paese (l’Austria) che aveva colpe da farsi perdonare. E in Sicilia, infine, il movimento secessionista perdette credibilità quando divenne difficile distinguere i suoi quadri da quelli della mafia e del banditismo. Ma le richieste di autonomia erano genuine e non era possibile ignorarle. Nacquero così le prime regioni a statuto speciale che il governo, in alcuni casi, cercò di legare maggiormente allo Stato nazionale celebrando matrimoni di convenienza fra Bolzano e Trento, fra Venezia Giulia e Friuli. Con l’occasione, anche la Sardegna riuscì a soddisfare una sua vecchia aspirazione. Sono queste, cara Signora, le ragioni per cui non sarebbe facile tornare indietro. Forse, dopo l’inizio della grande crisi finanziaria degli ultimi anni, sarebbe stato ragionevole correggere lo statuto finanziario delle regioni e ridurre la quota di reddito prodotto localmente che ciascuna di esse è autorizzata a conservare nel proprio bilancio. Ma verrebbe allora in discussione il problema di due regioni che presentano caratteristiche opposte. Il Trentino Alto Adige sosterrebbe, con ragione, di avere fatto un uso impeccabile del denaro pubblico. La Sicilia, malauguratamente, non potrebbe fare altrettanto, ma ricorderebbe al governo nazionale, sottovoce, che esiste ormai nell’isola una folta schiera di pubblici dipendenti e privati cittadini che dipendono dal bilancio regionale. Questi «rentiers», come erano chiamati un tempo tutti coloro che vivono di rendita, sono elettori. Quanti partiti italiani sono disposti a privarsi dei loro voti? © RIPRODUZIONE RISERVATA Pagina Corrente Pag. 49 Immagini della pagina