Tino Oldani, ItaliaOggi 11/2/2015, 11 febbraio 2015
PADOAN VORREBBE VENDERE IL 40% DELLA HOLDING FERROVIE, MA UNO STUDIO DICE CHE È MEGLIO CEDERE SOLO L’ALTA VELOCITÀ
Ci risiamo. Dopo che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha confermato in un’intervista al Messaggero che il governo intende privatizzare nel 2015 una quota di minoranza delle Ferrovie dello Stato («non lontana dal 40%», ha precisato), gli esperti del settore hanno cominciato a seminare ipotesi e dubbi sull’operazione, che potrebbe risultare meno facile del previsto. Basta leggere sul sito lavoce.info un’analisi firmata da Paolo Beria, docente al Politecnico, e da Andrea Boitani, economista della Cattolica. Il loro punto di vista risulterà più chiaro dopo una breve premessa.
Giusto un anno fa, appena insediato a Palazzo Chigi, il premier Matteo Renzi si impegnò a realizzare un piano di privatizzazioni per ridurre il debito dello Stato. L’obiettivo era di incassare 12 miliardi l’anno dal 2014 al 2016. L’etichetta «vendesi» fu incollata sulle quote azionarie di aziende pubbliche come Poste, Enav, Sace, Fincantieri, Eni, Enel, Cdp Reti, Raiway e Ferrovie, da cedere per intero o in parte. Il capo della segreteria tecnica del ministero dell’Economia, Fabrizio Pagani, su incarico del ministro Padoan, tradusse il programma delle privatizzazioni in slide colorate, e il 27 giugno 2014 le presentò ai grandi investitori istituzionali, con tanto di timing, quote in vendita e ricavi ipotizzati. Lo stesso Padoan si impegnò con l’Ue a fare dismissioni pari allo 0,7% del pil ogni anno, fino al 2018. Il risultato? Un fiasco.
Nel 2014, a parte qualche centinaio di milioni racimolati con le quotazioni in Borsa di Fincantieri e di Raiway, e i 2,1 miliardi incassati vendendo a una società cinese la Cdp Reti, che detiene il 30% della Snam (reti gas), il resto delle cessioni, complice una Borsa poco favorevole, è rimasto al palo.
Per quanto riguarda le Ferrovie, un primo ostacolo era emerso verso la fine del 2014, quando si scoprì che l’amministratore delegato delle Ferrovie, Michele Elia, e il presidente, Marcello Messori, avevano in mente due progetti antitetici per la privatizzazione: il primo favorevole a cedere una quota della holding Fsi; il secondo fautore, invece, di una operazione più complessa, che definì «sfogliare il carciofo»: lasciare la rete ferroviaria in mano pubblica, per privatizzare alcune attività giudicate contendibili, come il trasporto merci e l’alta velocità.
Ma Messori, appena si rese conto che il governo era propenso a fare propria la soluzione proposta da Elia, giudicata di più facile esecuzione, ha rimesso le deleghe in materia di privatizzazioni e di riassetto strategico del gruppo. Da allora, però, la privatizzazione delle Ferrovie non ha fatto un solo passo avanti.
Il motivo, spiegano Beria e Boitani, è che cedere una quota di minoranza della holding Fsi per fare cassa, si sta rivelando un’impresa più complicata del previsto. Primo scoglio tecnico: Fsi ha un capitale sociale di quasi 39 miliardi di euro. Una somma mostruosa, se paragonata al capitale delle Poste, che, pur avendo un capitale di soli 1,3 miliardi, producono un fatturato di 30 miliardi, che è il triplo di quello delle Ferrovie. L’enormità del capitale sociale delle Ferrovie si deve al fatto che la holding Fsi, scrivono Beria e Boitani, «possiede e iscrive a bilancio non solo i beni strumentali, come i treni, e altre proprietà valorizzabili, come gli scali inutilizzati, ma anche l’intera rete ferroviaria, cioè i binari». Il tutto per effetto, non di un capriccio contabile, ma di disposizioni legislative del passato, che hanno prodotto «una bizzarra situazione».
In sintesi: «La holding Rfi ha ricevuto in concessione dallo Stato la rete di cui, in realtà, è proprietaria. Ne consegue che se un privato volesse acquistare Fsi per il 40 per cento, dovrebbe sborsare oltre 10 miliardi. Ma chi mai sarebbe disposto a investire tanto, per ottenere utili risibili in rapporto all’investimento?». La risposta di Beria e Boitani è ovvia: «Probabilmente nessuno». Per questo, sostengono, «sarebbe necessario separare i binari dalla rete, che è esattamente ciò che lo zoccolo duro dell’azienda non vuole fare, senza contare che bisognerebbe approfondire cosa comporti questa scelta per la concessione in essere».
A conti fatti, i due economisti sostengono che «la cessione di una quota della holding non sembra una strada facilmente praticabile, oltre a fare prevedere seri problemi regolatori». Per questo, suggeriscono «altre strade per privatizzare, forse meno redditizie per lo Stato, ma più sicure e fattibili», puntando sulla vendita di alcuni servizi, primo fra tutti «l’alta velocità o parti non funzionali: ciò permetterebbe di ottenere risorse, una struttura ferroviaria più snella, senza cedere monopoli naturali a privati». In pratica, la stessa conclusione del dimissionario Messori, dunque il contrario di ciò che pensa di fare il governo. Ma Padoan ne terrà conto? Vedremo.
In fondo, quando si parla di treni, a parte la puntualità, il resto è opinabile. Con l’abituale cinismo, Giulio Andreotti diceva che ci sono due categorie di matti: quelli che si credono Napoleone, e quelli che vogliono risanare le Ferrovie. Non aveva previsto che, dopo di lui, sarebbe arrivato chi vorrebbe addirittura venderle, dopo averle risanate.
Tino Oldani, ItaliaOggi 11/2/2015