Fulvio Scaglione, Limes: Dopo Parigi che guerra fa 1/2015, 11 febbraio 2015
UCRAINA CHE VAI OLIGARCA CHE TROVI
QU RESTE-T-IL DE NOS AMOURS? Dopo una rivoluzione, una guerra, due elezioni, il cambiamento radicale di tutte le alleanze internazionali e un nuovo governo, cosa resta in Ucraina dei personaggi che contavano prima e contano tuttora? Mentre intorno cambiava tutto, è cambiato davvero qualcosa per gli oligarchi e i loro affari, compresi quelli che facevano con la Russia?
Converrà partire dall’oligarca per eccellenza della nuova Ucraina, il più famoso ed esposto: Petro Porosenko, 60 anni, settimo uomo più ricco del paese secondo Forbes, dal 25 maggio 2014 presidente della Repubblica eletto con il 54,7% dei voti. Come tutti i suoi colleghi del grande capitale e della grande industria, Porosenko si è occupato di politica anche prima di arrivare ai massimi livelli. Deputato per la prima volta nel 1998 per il Partito socialdemocratico fedele a Leonid Kucma, ha poi girovagato secondo necessità, fondando il movimento Solidarietà ma giocando un certo ruolo anche nella fondazione del Partito delle regioni, quello che sarà poi il partito di Janukovyc. Passato in Nostra Ucraina con Viktor Juscenko, torna in parlamento e diventa presidente della commissione Bilancio, per essere poi accusato di evasione fiscale per nove milioni di dollari. È uno dei principali sostenitori della campagna che porta Juscenko alla presidenza nel 2005 ed è prontamente compensato con la nomina a segretario del Consiglio di sicurezza dell’Ucraina.
Tra un incarico, uno scandalo (la Tymosenko lo accusò di aver favorito l’amico oligarca Viktor Pincuk nella privatizzazione a prezzo irrisorio di uno stabilimento statale; Juscenko replicò sciogliendo il governo Tymosenko) e qualche passaggio sul fronte avverso (nel 2012 entrò anche nel governo Azarov nominato dal presidente filo-russo Janukovyc), Porosenko ha dato prova di flessibilità e pragmatismo nel gestire il rapporto con la politica politicata, anche se gli va dato atto di essere stato sempre e coerentemente filo-europeo.
Con la rivoluzione di Jevromajdan, che ha concorso a finanziare, Porosenko ha cominciato a giocare in proprio, nella partita più difficile e nel momento più duro per l’Ucraina. Persino nel paese dove gli oligarchi, fin dall’indipendenza dichiarata il 24 agosto 1991, sono lo zoccolo duro della politica, poteva risultare imbarazzante che un oligarca dei più tipici diventasse presidente. Per di più, in una fase che si voleva e si vuole nuova, semmai orientata a rovesciare le abitudini perverse del passato. Così Porosenko non ha lesinato le promesse. Prima fra tutte quella di vendere P’jatyj Kanal, la rete televisiva da lui controllata. Fondato nel 2003 e diventato famoso già nel 2004 per la strenua opposizione a Viktor Janukovyc, prima vincitore nel voto falsato dai brogli e poi superato dal rivale Juscenko nella ripetizione delle elezioni, il canale è tuttora di proprietà del presidente e nella recente campagna elettorale per le politiche ha riflesso con puntualità le posizioni del suo blocco politico.
È naturale che in Ucraina, dove il conflitto d’interessi è stato negli ultimi vent’anni l’essenza della politica e del business, non si badi troppo a certi particolari, soprattutto ora che molti sperano di agganciarsi agli Usa e all’Europa e di uscire dalle secche del passato. Nondimeno, un’occhiatina da vicino a certi fenomeni andrebbe pur data.
Prima di diventare presidente, e sempre per ragioni di compatibilità istituzionale, Porosenko aveva avanzato a mezza bocca anche l’ipotesi di vendere Rosen, l’azienda dolciaria che ha fatto la sua fortuna e che prende il nome da parte del suo cognome. L’uomo d’affari ha cominciato a lavorare nel settore alimentare nel 1990, subito dopo essersi laureato in Economia all’Università di Kiev, e negli anni ha costruito un vero impero: Rosen, nel 2013 classificata al 18° posto tra le prime cento industrie dolciarie mondiali (prima Mars, sesta Ferrerò) [1], ha quattro fabbriche in Ucraina, due in Russia a Lipeck, una in Lituania e una in Ungheria, 10 mila dipendenti e una produzione pari a circa 430 mila tonnellate annue.
Quando si sparse la voce di una possibile vendita, subito si disse che Mars e Nestlé si erano fatte avanti e che l’affare era stato valutato intorno al miliardo e mezzo di dollari. Da allora non è successo nulla. O per meglio dire, qualcosa è successo ma nell’altro senso. L’inasprimento dei rapporti tra Mosca e l’Ucraina, l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbas hanno complicato la vita agli oligarchi ucraini che avevano rapporti economici con la Russia. Anche Rosen ha avuto la sua parte di problemi: nel marzo 2014, la polizia russa ha bloccato i due impianti di Lipeck (la fabbrica e il magazzino per la distribuzione in tutta la Russia), atto finale di una disputa cominciata mesi prima, centrata su una presunta violazione di marchio da parte dell’azienda ucraina ai danni di una concorrente russa e rinforzata da parte russa da un improvviso rigore nella gestione delle pratiche doganali. Era l’epoca in cui il Teatro dell’Opera di Kiev cancellava il concerto del pianista russo Denis Macuev, colpevole di aver firmato una lettera in favore della presa della Crimea, e città russe come San Pietroburgo e Vladivostok annullavano la tournée del gruppo rock ucraino Okean El’zy. Un pretesto, quello delle autorità di Lipeck ispirate da Mosca, capace però di tagliare del 20% gli incassi russi del «re del cioccolato», il soprannome che Porosenko si porta dietro ormai da anni.
Appuntamento in Crimea
Sembrava una brutta storia, e lo era. Con un sorprendente lieto fine in ottobre, quando la filiale russa di Rosen è stata di nuovo autorizzata a operare. Un benvenuto segnale di ragionevolezza, si poteva sperare. Ma si poteva pure malignare, perché poco prima, il 19 settembre, a Minsk, Russia, Ucraina e separatisti filorussi del Donbas, con l’assistenza dei rappresentanti dell’Ocse, avevano raggiunto l’accordo per il cessate-il-fuoco. Noi italiani siamo abituati a pensar male e spesso ad azzeccarci, ma in questo caso nessuno ha affacciato l’ipotesi che nelle pieghe dei colloqui di pace tra Vladimir Putin e Petro Porosenko avesse trovato posto anche un piccolo favore del Cremlino per il «re del cioccolato», magari in cambio di qualche flessibilità altrove.
Il terreno perfetto per un gentlemen’s agreement politico-economico sarebbe la Crimea, che da originaria pietra dello scandalo del conflitto russo-ucraino è pian piano scivolata nel dimenticatoio della diplomazia. In Crimea, il presidente industriale ha forti interessi. Nella penisola ha sede uno dei tre stabilimenti della Bohdan Corporation, il gruppo automobilistico fondato nel 1992 dalla privatizzazione e fusione di alcune aziende ex sovietiche e controllato da Petro Porosenko. La Bohdan produce automobili (circa 150 mila l’anno), autocarri (15 mila), autobus (9 mila) e filobus, un articolo quest’ultimo ancora molto apprezzato nel mondo ex sovietico e particolarmente usato in Crimea, dove si trova il più lungo percorso di filobus al mondo: quello che per 82 chilometri si snoda tra Simferopoli e Jalta.
Ma non basta: Petro Porosenko, considerato l’incerto status della Crimea riannessa alla Russia con un atto d’imperio che nessun governo o organismo internazionale ha finora riconosciuto, è tuttora il legittimo proprietario di uno dei tre cantieri navali di Sebastopoli, il porto di riferimento della flotta russa del Mar Nero. Nel settembre del 2014, secondo dichiarazioni di Sergej Menjajlo, ex secondo in comando della stessa flotta e governatore provvisorio della città per nomina di Putin, Porosenko avrebbe messo in vendita il cantiere, che non potrebbe essere ceduto se non all’amministrazione della città, cioè alla Russia.
Legge marziale e soci russi
La tempistica dei colloqui di pace e dell’accordo di Minsk ha qualcosa a che fare anche con il destino di Serhij Taruta, 60 anni, fondatore dell’Unione industriale del Donbas, presidente della squadra di calcio Metalurh Donec’k e, sempre secondo Forbes, uno degli uomini più ricchi non dell’Ucraina ma d’Europa, con una fortuna personale di circa 2,5 miliardi di euro. L’Unione produce quasi 8 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno e nel 2013 la World Steel Association la classificava al 44° posto tra i produttori mondiali [2].
Ai primi di marzo del 2014, Porosenko lo ha nominato governatore di Donec’k, città di cui Taruta è originario e in cui ha costruito le proprie fortune. Poco dopo, ai primi di ottobre, lo ha destituito e sostituito con Oleksandr Kikhtenko, 58 anni, ex comandante di gruppi d’élite dell’Esercito ucraino e parlamentare del partito Forza e onore fondato da Ihor Smesko, a sua volta capo dei servizi segreti dell’Ucraina tra il 2003 e il 2005. Nel 2004 Smesko fu decisivo nell’impedire all’esercito di intervenire contro i dimostranti che protestavano per i brogli elettorali a favore di Janukovyc e, quindi, nel far ottenere la presidenza a Juscenko grazie alla ripetizione del voto. Ma nel 2005 Smesko fu liquidato dallo stesso Juscenko: su di lui, infatti, gravava il sospetto di aver organizzato, o in qualche modo favorito, l’avvelenamento che aveva portato lo stesso Juscenko in punto di morte.
Non si è mai capito fino in fondo perché Porosenko abbia deciso di liberarsi di Taruta. Certo, non si può dire che il governatore miliardario abbia sempre tenuto sotto controllo la situazione nella città diventata il simbolo dell’insurrezione filorussa, ma è difficile farne una colpa solo a lui. Il dissidio potrebbe essere stato, invece, politico. Taruta aveva più volte chiesto l’introduzione della legge marziale a Donec’k e nella confinante regione di Luhans’k, proprio mentre Porosenko avanzava una proposta di legge per uno statuto speciale per le zone del Donbas.
Bisogna ovviamente anche mettere nel conto altri due fatti. Il primo è che gli interessi economici di Taruta hanno il nocciolo duro negli stabilimenti del Donbas. Uno statuto speciale, magari corredato da una larga autonomia regionale, avrebbe potuto almeno in parte metterli a rischio. Il secondo è che l’Unione industriale del Donbas ha dal 2010 un azionista di maggioranza (50,2% delle azioni) che si chiama Carbofer Group, ha base in Svizzera ed è capofila di una cordata di cui fa parte, oltre a una serie di investitori anonimi, anche la Vnesekonombank, la banca per le attività economiche all’estero della Federazione Russa. Si può forse ipotizzare che la rottura totale tra Russia e Ucraina, che la legge marziale avrebbe potuto provocare, avrebbe avuto anche il pregio di avvantaggiare Taruta rispetto ai soci russi nel complesso gioco dei pacchetti azionari? Chissà. Comunque sia, ora Taruta è tornato a essere un ricco privato cittadino. Oltre che, ovviamente, un membro del parlamento ucraino.
L’oligarca con tre passaporti
Queste, però, sono tutto sommato piccole cose rispetto alla partita che sta giocando, in economia e in politica, il vero oligarca del momento: Ihor Kolomojs’kyj, 51 anni, secondo uomo più ricco d’Ucraina (dopo Rinat Akhmetov), da anni inquilino fisso della lista Forbes dei 500 uomini più ricchi al mondo, nominato governatore di Dnipropetrovs’k (la città dov’è nato, si è laureato in ingegneria e ha costruito la propria fortuna) dal primo governo provvisorio del dopo-Majdan.
Kolomojs’kyj guida il Privat Group, entità piuttosto misteriosa ma vasta e potente. Ha il cuore finanziario nella PrivatBank e articolazioni in quasi tutti i settori dell’economia: dall’acciaio ai media, dalle compagnie aeree ai materiali ferrosi, dal petrolio al gas, dallo sport (calcio, basket, hockey) all’industria alimentare, fino alla chimica. Sugli anni in cui Privat Group si è formato e sui metodi usati da Kolomojs’kyj e dal suo socio Hennadij Boholjubov per approfittare delle privatizzazioni delle aziende statali circolano decine di racconti e aneddoti. Inutile indugiare, valgono più o meno per tutte le storie degli oligarchi, in Ucraina come in Russia e forse in qualunque altro paese. Naturalmente Kolomojs’kyj ha navigato con accortezza le acque della politica: senza mettersi molto in mostra negli anni di Kucma, poi alleandosi con la Tymosenko durante la rivoluzione arancione, infine tornando discreto negli anni di Janukovyc.
Da governatore di Dnipropetrovs’k, il miliardario non ha invece mancato di farsi notare. Il giorno dopo la nomina ha definito Vladimir Putin «nanerottolo schizofrenico»; ha investito circa 10 milioni di dollari per organizzare il battaglione Dnipro, una formazione di volontari nazionalisti; ha offerto 10 mila dollari di ricompensa a chi gli portasse miliziani filorussi catturati e altro denaro a chi, tra questi, consegnasse le armi. Insomma, la causa della «nuova Ucraina» ha certo trovato in lui uno sponsor dichiarato ed efficace, complice anche il fatto che il suo impero industriale è poco esposto nei confronti della Russia. Il che naturalmente non gli impedisce di approfittare della posizione politica e del potere economico raggiunti in patria per perseguire e ampliare i propri interessi personali.
In favore di Kolomojs’kyj gioca la situazione politica ucraina, che oggi si regge su patti e arrangiamenti tra forze diverse. Intanto quello tra il premier Jacenjuk e il presidente Porosenko, il primo uscito dalle elezioni politiche con il maggior numero di voti per il suo Fronte popolare, il secondo gratificato dal maggior numero di seggi per il Blocco da lui capitanato. Nessuno ha vinto, nessuno ha perso, ma la soluzione della «grande coalizione» (il Fronte e il Blocco, con l’aggiunta dei meno consistenti Autodifesa, Patria e Partito radicale) è diventata obbligata. Devono poi essere tenute presenti le esigenze dei grandi partner della nuova Ucraina, gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Da qui le nomine dei ministri, con i dicasteri decisivi delle Finanze e dell’Economia affidati rispettivamente a un’americana che ha fatto l’intera carriera al dipartimento di Stato Usa (Natalie Jaresko) e a un banchiere privato lituano (Aivaras Abromavicius), trasformati in ucraini con la cittadinanza conferita un paio d’ore prima della nomina.
Se a questo si aggiungono le note asprezze della situazione economica, non è difficile capire come Kolomojs’kyj riesca a esercitare un’influenza decisiva sul processo decisionale. L’oligarca ha piazzato «suoi» uomini in tutti i maggiori partiti filo-Majdan e nei gangli decisivi della vita nazionale. Anche così si spiega perché il premier Jacenjuk – fattosi garante del rapporto con il Fondo monetario internazionale che eroga prestiti cruciali, ma in cambio chiede radicali riforme – fatichi tanto a far approvare due leggi da tempo ritenute decisive: quella sulle privatizzazioni e quella sulle verifiche fiscali, in particolare i controlli sulle operazioni finanziarie verso l’estero. Un tema fondamentale nella costruzione di uno Stato più solido, tenendo anche conto del fatto che nel solo 2014 hanno preso il volo verso lidi più sereni almeno 70 miliardi di dollari e il volume dell’economia «in nero», secondo le analisi degli esperti del Razumkov Center di Kiev, è ormai pari al 50% del totale .
Kolomojs’kyj ha tre passaporti (ucraino, cipriota e israeliano) e dirige il proprio impero dalla Svizzera. È una combinazione, ma proprio la Svizzera è il paese che, in valori monetari, accoglie la maggiore quantità di esportazioni dall’Ucraina, davanti anche alla Russia e alla Gran Bretagna, con gli Emirati Arabi Uniti al quarto posto.
In più, l’oligarca può contare su contatti di solito preclusi ai comuni mortali. Nell’aprile del 2014, infatti, Hunter Biden, 44 anni, figlio del vicepresidente americano Joseph Biden, è stato inserito nel consiglio di amministrazione di Burisma Holdings, una società di diritto cipriota di cui si sanno pochissime cose. In pratica, che si occupa di gas naturale e che è controllata dallo stesso Kolomojs’kyj. È già curioso, dal punto di vista della trasparenza e dei conflitti di interessi, che un ricco uomo politico ucraino si metta in affari con la famiglia di un potente uomo politico statunitense proprio mentre questi si occupa direttamente degli affari dell’Ucraina ed esercita su di essi un’influenza decisiva. Ma le curiosità non finiscono qui. Nel consiglio di amministrazione di Burisma è entrato, nello stesso periodo, anche Devon Archer, 40 anni, nel 2004 responsabile finanziario della campagna presidenziale di John Kerry e poi amministratore dei beni personali di Theresa Heinz Kerry, vedova di Henry Heinz III (grande industriale del settore alimentare) e poi moglie dello stesso John Kerry che, guarda che combinazione, è il segretario di Stato americano.
Per finire, va detto che Burisma Holdings è una delle poche società private autorizzate a commercializzare gas in Ucraina e che detiene, insieme a Royal Dutch Shell, i diritti di prospezione e sfruttamento dei giacimenti di shale gas dell’Ucraina. Giacimenti che si trovano... sì, nel Donbas, almeno in parte nel territorio governato da Kolomojs’kyj. Cioè del proprietario di Burisma, alla cui governance contribuiscono il figlio del vicepresidente e l’amministratore dei beni di famiglia del segretario di Stato. Entrambi americani.
I rimpianti di Akhmetov
Dal grande rivolgimento ucraino non tutti stanno uscendo più potenti di prima. Rinat Akhmetov, 49 anni, patron di System Capital Management, l’uomo più ricco di Ucraina e, secondo Forbes, l’88° uomo più ricco al mondo con una fortuna personale di 12,5 miliardi di dollari, è probabilmente impegnato a rimpiangere i bei tempi di Janukovyc e del Partito delle regioni, di cui era generoso finanziatore. Il suo gruppo vanta interessi molto variegati: dai media alle miniere, dalla meccanica alla finanza, dall’agroalimentare al petrolio all’energia elettrica, fino al calcio – Akhmetov possiede lo Sakhtar Donec’k, con cui ha vinto la Coppa Uefa nel 2009. Il sito della compagnia offre, per il 2013, questi dati: 100 aziende, fatturato di 24,465 miliardi di dollari, profitti prima delle tasse per 1,256 miliardi di dollari.
A differenza di altri oligarchi, con la «nuova Ucraina» Akhmetov è andato coi piedi di piombo, decidendosi ad appoggiarla (con relative dichiarazioni televisive) solo quando i fermenti autonomistici del Donbas erano ormai diventati guerra aperta. Troppo tardi. Questo, e i trascorsi politici, che all’epoca della rivoluzione arancione lo portarono a scontrarsi frontalmente con la Tymosenko e il suo governo, lo hanno trasformato nell’oligarca «cattivo», troppo amico dei russi. Il perfetto capro espiatorio su cui convogliare l’ostilità popolare nei confronti degli oligarchi che peraltro, presi come categoria, continuano ad avere la parola decisiva sulle sorti del paese.
Le esitazioni di Akhmetov hanno due facili spiegazioni. I pezzi forti del suo impero industriale (acciaio, metalli ferrosi, miniere, meccanica) sono dislocati proprio nel Donbas investito prima dalla ribellione e poi dalla guerra. È sua, per esempio, Metinvest, 25° produttore mondiale di acciaio secondo le classifiche del 2013. Metà degli impianti Metinvest sono appunto nel Donbas. Nella stessa regione, le aziende del gruppo di Akhmetov danno lavoro a 300 mila persone: i sentimenti e le opinioni politiche di questa massa di uomini e donne non possono essere trascurati. È chiaro che l’oligarca si è trovato spiazzato: proclamare fedeltà a Kiev e rischiare che una ribellione vittoriosa confiscasse o nazionalizzasse le sue industrie; o fidarsi della rivolta ispirata da Mosca e compromettersi con le autorità della «nuova Ucraina», per mettere così a rischio un’altra parte del proprio impero?
Ma c’è anche un’altra ragione. A differenza di Kolomojs’kyj, per esempio, Akhmetov ha bisogno di mantenere buoni rapporti con la Russia, il principale sbocco estero delle attività fondamentali del System Capital Management. Almeno il 10% dell’acciaio Metinvest passa il confine, per non parlare di produzioni più particolari come le condotte per gasdotti e oleodotti, di cui Akhmetov è grande fornitore per le aziende di Stato russe. Non basta, perché anche in Crimea l’oligarca ha notevoli interessi: titolare dei diritti di prospezione e sfruttamento degli eventuali giacimenti di gas e petrolio nel Mar Nero, fornisce da monopolista (attraverso Krymenergo) l’energia elettrica e gestisce (con Ukrtelekom) la quasi totalità delle 532 mila linee telefoniche fisse. Accordi proficui ma stipulati con il governo di Kiev, un tempo benevolo. Che succederà, se e quando per le stesse questioni Akhmetov dovrà confrontarsi con il Cremlino?
Siccome dalle grane nascono sempre altre grane, Akhmetov deve affrontare pure i problemi che gli derivano da certe beghe legali arrivategli addosso con curiosa puntualità. Janukovyc era appena arrivato a Mosca dopo essere fuggito da Kiev quando i magistrati svizzeri si presentavano agli uffici della Dtek Trading Sa, attiva sul mercato del carbone e controllata da Akhmetov, con un mandato di perquisizione. Scopo dell’indagine: appurare quali fossero i rapporti tra la società dell’oligarca, con sede a Ginevra, e la Mako Trading Sa, a sua volta controllata da Oleksandr Janukovyc, figlio dell’ex presidente, i cui beni (come quelli del padre e di altri 16 esponenti del defunto regime) erano appena stati «congelati» dall’Unione Europea.
La cauzione record di Firtas
Qualcosa di simile, ma molto più in grande, è toccato qualche settimana dopo a Dmytro Firtas, 49 anni, proprietario della Nadra Bank (l’undicesima per volume d’affari in Ucraina), di numerose aziende chimiche (è considerato il «re del titanio») e, soprattutto, grande affarista nel trasporto e nella commercializzazione del gas naturale. Il 12 marzo 2014, all’uscita dal suo ufficio di Vienna, l’oligarca è stato arrestato dalla polizia austriaca in base a un mandato di cattura emesso dall’Fbi. Ha scontato nove giorni di prigione e poi è tornato in libertà, ma solo dopo aver pagato una cauzione di 125 milioni di euro, la più alta nella storia del sistema giudiziario austriaco. L’arresto di Firtas è arrivato, con straordinaria puntualità rispetto agli eventi in Ucraina, a causa di un’indagine aperta da più di otto anni e relativa a un’accusa di corruzione: reato che sarebbe stato commesso negli Stati Uniti, con il trasferimento di 18,5 milioni di dollari per ottenere la concessione di diritti minerari in India.
Firtas non è nuovo ad accuse e scandali e come tutti gli oligarchi dell’Ucraina ha alle spalle una carriera rapida ma piuttosto ricca di lati oscuri. Considerato che tutta la geopolitica degli ultimi decenni è stata, in definitiva, una geopolitica dell’energia, non sarà solo malignità ipotizzare che l’improvviso precipitare delle fortune giudiziarie sia dovuto anche alla posizione decisiva che Firtas occupa da molti anni nella gestione dei flussi est-ovest del gas che transita per l’Ucraina.
L’oligarca è socio paritario di Gazprom in RosUkrEnergo, azienda di diritto svizzero che tra il 2006 e il 2009 è stata anche l’unico mediatore autorizzato alla vendita del gas russo a Naftohaz, l’equivalente ucraino di Gazprom. Si trattava ovviamente di una posizione assurdamente privilegiata, tanto più che Firtas fu più volte accusato di avere anche accordi particolari con Gazprom (secondo alcuni, addirittura attraverso i boss della mafia russa) e di lucrare ancor di più manipolando le quantità erogate ai danni di Naftohaz e quindi dello Stato ucraino. Nel 2009, la Tymosenko, allora capo del governo, abolì la pratica della mediazione – arrogando allo Stato la trattativa diretta con Gazprom – quindi mettendo fuorigioco RusUkrEnergo, che rimase tuttavia in affari con il gigante russo nel trasporto del gas turkmeno verso l’Europa.
Oggi, come tutti sanno, la riforma del sistema energetico ucraino e la sua privatizzazione sono tra le priorità indicate dal Fondo monetario internazionale per continuare il supporto finanziario all’Ucraina. Queste traversie giudiziarie, arrivate dalla lontana America proprio al momento giusto, sembrano anche un modo per sgombrare il campo da interlocutori non graditi, scomodi o troppo compromessi con la Russia. Favorendo quindi le suddette riforme. E affidandosi, magari (le vicende di Kolomojs’kyj lo dimostrano), all’oligarca «buono» di turno.