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 2015  febbraio 11 Mercoledì calendario

QUANDO L’ITALIA E LA SCUOLA S’IMPEGNAVANO PER I LIBRI

Che in Italia si legga poco non dev’essere tutta colpa di Drive In, se già nel 1891 lo scrittore (e docente) Emilio De Marchi scriveva: «Il premio nella forma di libro entra gratis nelle famiglie più povere e rimane oggetto di culto. (...) L’educatore non può rinunciare a questo modo di diffusione della cultura e delle buone idee in un Paese che non compra libri e non legge». Eppure il giovane Stato post-risorgimentale, in collaborazione con una selva di editori grandi, piccoli e improvvisati, ce la stava mettendo tutta: un’impresa avvincente, insegnare il piacere di leggere — tra prove ed errori, slanci pedagogici in avanti e concorrenza sleale — che viene raccontata oggi da Elisa Marazzi nel saggio Libri per diventare italiani. L’editoria per la scuola a Milano nel secondo Ottocento (Franco Angeli, pp. 332, e 38). La legge Casati sull’istruzione, del 1859, era stata estesa al nuovo regno già all’indomani dell’Unità. Fatta la scuola, restavano da fare i libri scolastici. Nacquero così formule innovative, come appunto il «libro di premio», «dono al migliore» tra gli alunni, con l’obiettivo di «istruire dilettando». Nei cataloghi finiva un po’ di tutto, dal manuale di selfhelpistica alla robinsonade, genere avventuroso nato sulla scia dell’eroe eponimo di Defoe; ma anche i primi bestseller europei per l’infanzia, come il Pierino Porcospino di Hoffmann o l’italianissimo Giannetto di Parravicini. Certo, oggi molti di questi titoli non ci dicono nulla. Eppure, nel bene e nel male, hanno contribuito a creare l’identità dei nostri nonni; e quindi un po’ anche la nostra.