Manlio Graziano, Corriere della Sera - La Lettura 8/2/2015, 8 febbraio 2015
QUANTA VOGLIA DI FRONTIERE, ANCHE SE CONTANO SEMPRE MENO
Le frontiere come le conosciamo oggi (o meglio: come le vediamo su un atlante) sono un prodotto recente sulla scala della storia umana. Sono nate dai trattati di Vestfalia, nel 1648, con il principio di sovranità: cioè con il diritto assoluto del principe di imporre la sua autorità in un territorio, e il dovere di non oltrepassarne i confini, pena l’infrangimento della sovranità altrui. Donde l’importanza di definire quei confini con precisione. In realtà, le frontiere erano sempre esistite. Ma, in regola generale, si trattava di frontiere naturali: foreste, fiumi, monti, paludi, deserti e mari. Frontiere che non avevano consistenza giuridica, e la cui legittimità durava solo fino a quando il nemico non riusciva a valicarle. Tuttavia vi erano eccezioni. La più celebre è il limes romano. Benché le frontiere dell’impero fossero in prevalenza naturali, avevano consistenza giuridica, in quanto rappresentavano il limite del territorio entro il quale si applicava il diritto romano. Ecco perché in Germania, dove la frontiera naturale del Reno appariva debole, essa fu rafforzata da un limes artificiale, di legno prima, di pietra poi. Nei secoli successivi ai trattati di Vestfalia, le frontiere si sono riempite di un nuovo contenuto: il principio di nazionalità. Esso è sorto dalla necessità (prima di tutto economica) che i sudditi di uno stesso principe si riconoscessero gli uni con gli altri, comunicassero tra loro, obbedissero alle stesse leggi e rispettassero le stesse tradizioni (molto spesso inventate). I soggetti, così omologati, formeranno la nazione, e questa coinciderà con le frontiere dello Stato. All’apogeo di quel processo di sacralizzazione dello Stato-nazione — nell’Ottocento — anche le frontiere diventeranno «sacre e inviolabili». Oggi le frontiere vivono un’epoca di decadimento: i movimenti globali di beni, di capitali e di persone, come pure la moltiplicazione di istituzioni sovranazionali e organismi transnazionali, hanno fortemente intaccato il principio di sovranità e l’impermeabilità delle frontiere. Ma è una tendenza né univoca né irreversibile: essa si incrocia con l’insorgenza di nuove identità desiderose di mettersi al riparo dietro frontiere sicure, e con la persistenza di rancori legati alla definizione per via militare, in un passato più o meno remoto, di certi confini. La riapertura del vaso di Pandora delle frontiere avrebbe dunque conseguenze incalcolabili. A Cipro, in Azerbaigian, in Moldavia, in Georgia, in Iraq, e in luoghi più remoti, le frontiere reali non corrispondono già più a quelle degli atlanti. Ma, con un tacito accordo, potenze grandi e piccole hanno deciso di ignorarlo. Per questo, la prima annessione territoriale di peso dalla fine della Seconda guerra mondiale — quella della Crimea –– è stata vista come un pericoloso precedente.