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 2015  febbraio 08 Domenica calendario

VICINI NEL TEMPO CON IL CUORE E IL CERVELLO

Prima c’erano solo gli artisti. Le ricamatrici anonime dell’arazzo di Bayeux che racconta l’epopea dei normanni ad Hastings, Paolo Uccello e la battaglia di San Romano, Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, Napoleone a cavallo che attraversa le Alpi di Paul Delaroche. Poi, con la guerra di Crimea del 1854 e quella civile americana del 1861-65, i soldati e l’orribile grandezza della guerra trovarono nuovi testimoni, i fotografi. Le palle di cannone che costellano, immobili e mute, la valle di Balaklava dove fu decimata la Brigata inglese di cavalleria leggera fotografate da Roger Fenton e gli ufficiali impettiti dell’esercito unionista, ignari dei massacri di là da venire, immortalati da Mathew Brady, portarono, insieme alla stampa popolare, la guerra nelle case dell’Occidente. Da allora sono soprattutto le immagini, prima statiche e poi in movimento, a raccontare la cronaca della guerra. Il miliziano spagnolo colto da Robert Capa nel momento della morte all’epoca della guerra civile spagnola e Kim Phuc Phan Thi, la bambina nuda che corre per sfuggire al napalm durante il conflitto vietnamita (premio Pulitzer 1972 per il fotografo Nic Ut) sono entrati nella memoria di tutti. Ma le foto di guerra non sono solo cronaca. Lo dimostra la mostra di Londra: il tempo è una variabile indipendente nel raccontare la realtà. Anche un’immagine scattata dopo mesi e anni da un evento bellico può ricostruire l’orrore e narrare la pena: l’orologio fermo sulle 11.02 di Nagasaki (1966) immerso in un bagno di luce fredda fotografato da Shomei Tomatsu e gli scheletri di repubblicani uccisi dai franchisti disseppelliti a Malaga nel 2009 e fissati nella fotocamera di Luc Delahaye ci restituiscono intatti l’orrore della seconda bomba atomica del 1945 e la ferocia delle ideologie del secolo breve. Non serve che il fotografo sia sempre cronologicamente vicino a ciò che scatta. Basta che non siano lontani il suo cuore e il suo cervello.