Paolo Foschini, Corriere della Sera 8/2/2015, 8 febbraio 2015
CHEF, ESPERTI, RELIGIOSI IL LAVORO DEI 42 TAVOLI PER IL DIRITTO AL CIBO
MILANO Ci vuole un po’ per mettersi nello spirito giusto e forse c’è da capirlo. È già uno stress scrivere un regolamento di condominio in dieci, figurarsi mettersi seduti in cinquecento (più altri duecento invitati in piedi), dentro un capannone grande come San Pietro e anche piuttosto buio, dominato dalle torri tremende di Anselm Kiefer a ricordarci quanto siam bravi a distruggere il mondo, ma con sotto una fila di cassette di frutta che a fine giornata ne resterà la metà e a far da atmosfera una musica che va da Bob Dylan agli U2, e finalmente la distesa di quei 42 tavoli più un gran palco e una platea di sedie laggiù in fondo, una immagine che a prima botta fa un po’ megamatrimonio e un po’ concorso per parastatali, e una folla che ti hanno detto essere di «esperti» e lì per lì ti chiedi che c’entrano un calciatore e la Coldiretti, la guerra di Umberto Veronesi al cancro e di Raffaele Cantone alla corruzione, e tutto questo, almeno nelle intenzioni, non per fare il solito convegno che alla fine arrivederci e grazie ma con l’ambizione di scrivere (o almeno decidere come scrivere) addirittura con testo che un giorno impegni i Paesi dell’Onu a fare davvero la lotta alla fame, a mettere fine davvero agli sprechi, a fare davvero qualcosa di giusto.
E comunque ecco, se siete arrivati a leggere d’un fiato fin qui senza un punto avete un’idea di come è iniziata e anche di come avrebbe potuto essere. «Carta di Milano», ha deciso di chiamarla il governo: per la città che ospita l’Expo e il relativo tema, certo.
Sono le dieci di mattina. Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, va in cerca del suo tavolo col suo solito divertito realismo: «Se non l’hanno già pronta nel cassetto, questa Carta, ma veramente vogliono farci partecipare a scriverla... eh, sarà una bella sfida».
La zona dei tavoli è off limits per i giornalisti e per chiunque non sia stato invitato a sedersi, gli armadi della sicurezza non ti fanno varcare il nastro neanche di un metro. E guardare da lontano i tavoli di lavoro che si mettono al lavoro non aiuta a capire un granché. Mediamente ogni tavolo è composto da otto-dieci persone. Ogni tavolo ha un tema che metterli insieme pare un’enciclopedia: l’acqua del pianeta e il turismo, le indicazioni geografiche sulle etichette e il ruolo delle donne in Expo, le disuguaglianze sociali e la logistica del cibo. Per fortuna ci ha pensato un professore, Salvatore Veca, a costruire un «metodo» per tutti. Ogni tavolo avrà una traccia di massima da seguire, ciascuno darà il suo contributo e alla fine un relatore dovrà condensare il risultato della discussione in un documento di 4.000 battute al massimo.
E così piano piano cominciano. Ecco là in fondo Dino Abbascià, presidente italiano dei dettaglianti dell’alimentazione meglio noto come il «fruttivendolo d’oro», a dire che «l’esportazione di agroalimentare è oggi a 35 miliardi e io sono sicuro che possiamo arrivare a 50, certo abbiamo il problema della contraffazione». Ecco allo stesso tavolo Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare, a rivendicare che «ogni anno oltre un miliardo di persone provano il food&drink italiano». Ecco Giancarlo Caselli ad avvertire che anche l’agroalimentare è ormai da tempo terreno delle ecomafie, ecco due tavoli più in là Livia Pomodoro intervenire sul «diritto al cibo». C’è il tavolo sul post Expo, con l’idea dell’architetto Stefano Boeri: «Aprire un negoziato con il Bie, Bureau international des expositions, per riformare l’articolo 3 in base al quale l’esposizione finisce il 31 ottobre. Ci vorrebbe un secondo tempo, un prolungamento per continuare ad affrontare il tema». Il centrocampista Demetrio Albertini sta allo stesso tavolo dello chef Davide Oldani che parlando di cibo-sport-salute ricorda quanto «nutrirsi non basta per stare bene, servono stili di vita adeguati: oggi mangiamo quattro volte più del necessario». Almeno noi.
A mezzogiorno pausa, parla il Papa. E poi c’è una prima parte di interventi dal palco, i lavori dei tavoli si fermano. Soprattutto poi c’è un gran buffet, perché a forza di parlare di cibo un po’ di fame viene.
Ma alla ripresa sono tutti molto carichi. Il tavolo 42, l’ultimo, è il più prossimo al confine oltre il quale la security ti mangia vivo. Ma sporgendosi un po’ si riesce ad ascoltare qualcosa di quel che dicono. Sono in quattordici, il loro tema è la «lotta alla povertà». Il loro coordinatore è Lino Lacagnina, gli altri in ordine alfabetico sono Bignardi Paola, Bottalico Gianni, Davanzo Don Roberto, De Luca Vincenzo, De Marzo Giuseppe, Duca Gianfranco, Farru Giampiero, Gori Cristiano, Nodari Claudia, Pezzana Paolo, Pontello Elisabetta, Pozzi Chiara, Rinaldi Vittorio, Severini Melograno Paola. Tutti appartenenti ad associazioni del Terzo Settore o del volontariato. Appunti di dibattito: «Il problema è la frammentazione del nostro mondo», «bisogna restituire alla politica un ruolo di regia», «passare dal semplice contrasto alla guerra contro la povertà, per vincerla!», «il punto da cui partire comunque è la destinazione di risorse», «un conto è la povertà locale, un conto quella globale». Seguirà relazione. Quattromila battute. «Ma ci rivedremo in maggio e continueremo da dove siamo rimasti», conclude don Davanzo: «È già un bel risultato».