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 2015  febbraio 10 Martedì calendario

Notizie tratte da: Loretta Napoleoni, Isis. Lo Stato del terrore, Feltrinelli 2014, pp. 137, 13 euro

Notizie tratte da: Loretta Napoleoni, Isis. Lo Stato del terrore, Feltrinelli 2014, pp. 137, 13 euro.

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Originariamente parte di al Tawhid al Jihad, il gruppo armato di Abu Mussab al Zarqawi è diventato Isi (Stato Islamico in Iraq), per poi fondersi, in Iraq, con al Qaeda, diventando al Qaeda in Iraq. Quando, nel 2010, ne assunse il comando Abu Bakr al Baghdadi, tornò alla vecchia denominazione. Nel 2013, in seguito alla fusione con un settore di Jabhat al Nursa, jihadisti affiliati ad al Qaeda, l’organizzazione prese il nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (al Sham), noto con la sigla Isil o Isis. Infine, prima della proclamazione del califfato, l’Isis divenne lo Stato Islamico. In Siria, e oggi anche in Iraq, il gruppo è noto come “al Dawlat”, lo Stato.

La bandiera nera e dorata dell’Isis sventola su un territorio più vasto del Regno Unito o del Texas, che va dalla sponda mediterranea della Siria fino al cuore dell’Iraq: l’area tribale sunnita. Al culmine della sua storia l’Olp, l’organizzazione armata più grande del Medio Oriente, controllava non più di una minima frazione di quell’area.

I residenti che scelgono di non fuggire devono aderire, pena la morte, al radicale credo salafita.
Le regole da rispettare (divieto di fumare e usare la macchina fotografica, obbligo per le donne di andare in giro completamente coperte e sempre accompagnate dal coniuge o da un parente maschio) non si distaccano da quelle imposte dal regime talebano, ma l’organizzazione si caratterizza per la sua modernità e per la capacità di utilizzare globalizzazione e tecnologia moderna, grazie anche a ricchi sponsor come Qatar, Kuwait e Arabia Saudita.

Quello che il gruppo armato lancia alla sua gente è un messaggio positivo: il ritorno del califfato, l’età dell’oro dell’Islam. In un momento in cui Siria e Iraq sono dilaniati dalla guerra, l’Egitto è dominato dall’esercito, la Libia è sull’orlo di un conflitto tribale e la Palestina è nuovamente ai ferri corti con Israele, il risorto califfato si presenta come una promettente entità politica.

Il portavoce dell’Isis, Abu Mohamed al Adnani: “La legalità di tutti gli emirati, i gruppi, gli stati e le organizzazioni [musulmane] viene azzerata dall’autorità del califfo e dall’arrivo delle sue truppe”.

La potenza militare è avvertita come una minaccia dai paesi musulmani vicini come Giordania, Libano e persino dall’Arabia Saudita, che inizialmente ne aveva finanziato le attività.

La costruzione dello Stato non viene solo imposta attraverso il terrore, ma si basa anche sulla ricerca del consenso. La popolazione delle zone controllate sostiene che l’arrivo delle milizie dello Stato Islamico ha coinciso con un miglioramento della gestione quotidiana dei villaggi: i combattenti hanno sistemato le strade e garantito cibo ed elettricità a chi aveva perso la casa.

Gli obiettivi sono rifondare l’antico califfato di Baghdad che, distrutto dai mongoli nel 1261, si estendeva dalla capitale irachena fino all’attuale Israele, e annettere Giordania e Israele, per ricreare quell’entità e diventare ciò che Israele è per gli ebrei, uno stato confessionale, sito nella loro antica terra, che li protegga ovunque si trovino.

Il primo discorso da califfo di Al Baghdadi è stato tradotto in molte lingue e diffuso quasi in tempo reale via Facebook e Twitter. Gli stessi canali vengono utilizzati per diffondere la “propaganda della paura”: soprattutto le esecuzioni barbariche e le punizioni brutali sono considerate più efficaci dei sermoni di al Qaeda.

La ricchezza dello Stato Islamico deriva soprattutto dai giacimenti petroliferi e dalle centrali elettriche presenti sul territorio che controlla; riscuote inoltre imposte sulle imprese e sulla vendita di armi e merci, provenienti per lo più da canali di contrabbando. Tutte le entrate e le uscite vengono accuratamente registrate in un rapporto annuale paragonabile al bilancio di una grande azienda.

Dal punto di vista economico, lo Stato Islamico è ancora di gran lunga inferiore ai numeri registrati dall’Olp, ma supera qualsiasi altra organizzazione nella competenza militare, nella manipolazione mediatica, nell’impegno sociale e nella creazione della macchina statale.

Di origini beduine, Abu Musab al Zarqawi nacque in un quartiere operaio di Zarqa, la seconda città giordana, nel 1967. Ragazzo difficile e piccolo delinquente, poco più che ventenne fu arrestato e condannato a cinque anni. In carcere aderì al salafismo radicale, la dottrina che predica il rigetto totale dei valori e degli influssi occidentali. Appena rilasciato, partì per l’Afghanistan per aderire ai mujaheddin e nel 2000 a Kandahar incontrò per la prima volta Osama bin Laden, ma respinse il suo invito a entrare in al Qaeda, convinto che il nemico da combattere non fossero i lontani Stati Uniti ma la vicina Giordania. Per questo fondò un piccolo campo di addestramento a Herat, in Afghanistan, nei pressi del confine iraniano. Da lì partirono molti attentati suicidi contro gli sciiti in Iraq.

Tra il 2003 e il 2004 bin Laden riconobbe al Zarqawi, alla guida di un gruppo di jihadisti noto come al Tawid al Jihad, che poi cambiò nome in Stati Islamico in Iraq (Isi), come capo di al Qaeda in Iraq. Morì nel 2006 in un attacco aereo statunitense e da allora si aprì una lotta per la successione che indebolì la sua corrente jihadista. Solo nel 2010, quando Abu Bakr al Baghdadi divenne leader dei resti dell’organizzazione in Iraq, le cose cambiarono: pur continuando ad attaccare obiettivi americani, seppe prendere le distanze da al Qaeda e si dedicò a proiettare un’immagine più nazionalista del movimento. Vide nel conflitto siriano un’opportunità per ricompattare e rafforzare la sua organizzazione e vi inviò un gruppo di jihadisti.

A differenza dei leader di al Qaeda, che alla conquista territoriale preferivano il nemico lontano, gli Usa, al Baghdadi, come già prima di lui al Zarqawi, credeva che, in mancanza di una base territoriale vasta e forte in Medio Oriente, quella lotta era destinata a fallire. Il sogno del nuovo leader era quindi quello di ricreare il califfato di Baghdad attraverso una guerra di conquista tradizionale contro i nemici vicini, le corrotte oligarchie sciite che dominavano Siria e Iraq.

“Cintura di Baghdad” era il nome dato da al Zarqawi al suo progetto di conquista della capitale irachena, che doveva avvenire attraverso il suo isolamento. Con le basi nella cintura, che era divisa in cinque regioni, Isi avrebbe potuto introdurre in città armi, autobombe, combattenti, e disporre unità antiaeree. Il piano degli jihadisti prese il via all’inizio del 2006 con occupazioni militari e attentati suicidi, ma nel 2007 arrivarono nel Paese oltre centomila americani con l’obiettivo di riconquistare i centri intorno a Baghdad. E ci riuscirono. Nell’estate del 2014 al Baghdadi ha riportato l’esercito dell’Isis là dove l’Isi era stato fermato sette anni prima, realizzando ciò che al Zarqawi non era riuscito a fare.

All’inizio dell’invasione Usa del 2003 al Baghdadi si unì al gruppo di al Zarqawi, al Tawid al Jihad, con il compito di introdurre clandestinamente combattenti stranieri in Iraq. Divenne emiro di Rawa, nei pressi del confine siriano, dove era solito giustiziare pubblicamente chiunque fosse sospettato di collaborare con la coalizione a guida Usa.
Come al Zarqawi, anche il nuovo leader jihadista si concentrava più sulle questioni quotidiane che sulla diffusione di proclami e video. Fino a quando non si è autoproclamato califfo, si conoscevano solo due sue foto. Ha mantenuto negli anni l’abitudine di coprirsi il volto anche con i suoi più fidati luogotenenti, tanto da guadagnarsi il nome di “sceicco invisibile”.

Come il suo predecessore, al Baghdadi trascorse alcuni anni in carcere, a Camp Bucca, nell’Iraq meridionale, dopo la cattura da parte degli Stati Uniti nel 2005. A differenza di al Zarqawi, però, il futuro califfo vantava origini di rango più alto. Nato nel 1971 a Samarra, in Iraq, si racconta di una sua discendenza diretta dal Profeta Maometto e, secondo una biografia nota tra gli jihadisti, nella sua famiglia si contano imam e professori di lingua, retorica e logica.
Laureato in Studi islamici a Baghdad, è stato imam di Fallujah.

Da califfo, al Baghdadi ha richiamato con un’abile propaganda molti combattenti dall’estero, riscuotendo successo soprattutto tra i giovani musulmani in Occidente.

Nel 2013, la fusione tra lo Stato islamico dell’Iraq e i membri del Jabhat al Nusra nello Stato islamico dell’Iraq e del levante (al Sham), ha fatto infuriare i vertici di al Qaeda: Ayman al Zawahiri ha respinto l’accordo, ma la risposta del califfo è stata chiara: “Se devo scegliere tra la volontà di Dio e quella di al Zawahiri, scelgo Dio”.

La creazione del Califfato non è l’unico tentativo di un’organizzazione armata di costituire un proprio stato-guscio. Durante la guerra si formavano in seguito alle guerre per procura: gli sponsor finanziavano attori non statuali delegandoli alla gestione delle guerre, come accadde alla fine degli anni Settanta in Nicaragua, dove i contras erano finanziati dagli Usa per combattere contro i sandinisti, finanziati dai sovietici.

La guerra per procura favorisce la totale assenza di chiarezza nelle alleanze e negli obiettivi, mette in campo soggetti mossi da interessi che possono mutare in corso d’opera, creando di fatto una situazione fluida e pressoché anarchica. All’interno del conflitto siriano, per esempio, in un contesto in cui tutti combattono tutti per interessi particolari, l’Isis si è inserito per un proprio obiettivo di conquista. In un paio d’anni sono riusciti a occupare regioni strategiche ricche di risorse, cooptando i leader delle tribù sunnite locali per poter sfruttare i giacimenti petroliferi presenti sul territorio. Lo stesso hanno fatto in Iraq: nell’estate 2014, mentre avanzava su Baghdad, l’Isis ha lanciato un attacco alla raffineria di Baiji, fissando come obiettivi una diga e un oleodotto. La gestione delle risorse è stata condivisa con le tribù locali sunnite, discriminate dal governo precedente, per guadagnare consenso tra la popolazione, grazie a strategie diplomatiche ben più raffinate dell’imposizione violenta adottata in passato da al Qaeda.

Abu Bakr al Baghdadi ha sfruttato sponsor provenienti dalla Penisola Arabica che volevano un cambiamento di regime a Damasco per fondare roccaforti economiche in Siria e Iraq.
E non è stato difficile selezionare tra potenziali sostenitori del conflitto siriano: emissari di Kuwait, Qatar e Arabia Saudita, seppur con interessi e obiettivi diversi, hanno fornito al gruppo di al Baghdadi non solo denaro, ma anche accesso e addestramento all’uso di attrezzature militari occidentali.

Alla fine dell’estate 2014 gli Usa sembravano intenzionati a organizzare, sotto l’ombrello della Nato, una Grande coalizione per combattere l’Isis ma, alla conferenza di Parigi, indetta a tale scopo nel mese di settembre, nessun Paese membro, né alcuno stato arabo presente, ha scelto di inviare truppe, preferendo continuare a combattere una “guerra per procura”.

Il modello dello stato-guscio è perfetto per ricreare il Califfato. Può essere piccolo come un sobborgo cittadino o grande quanto un vero stato. È semplice da costruire e governare soprattutto nelle aree devastate dalla guerra, dove ogni infrastruttura è crollata e l’autorità politica si è dissolta; le spese non militari sono minime perché la popolazione non ha bisogno di altro che di ricevere i mezzi di sussistenza di base.

I soldati arruolati dall’Isis ricevono una paga molto inferiore rispetto a quella di un comune operaio locale (circa 40 dollari mensili contro 150) perché siano motivati non dal denaro, ma da uno scopo ideologicamente superiore: la costituzione del Califfato. Sono sì, come i jihadisti di al Qaeda, pronti a morire per la causa, ma non aspirano tanto al martirio quanto alla realizzazione, su questa terra e in questa vita, del progetto di creazione dello Stato.

Per costruire il consenso, altro elemento necessario alla realizzazione del Califfato, a differenza del regime talebano che, considerandosi una casta superiore, razziava la popolazione, al Baghdadi dà vita a una serie di programmi sociali di aiuto. Questi prevedono, per esempio, campagne di vaccinazione antipolio o donazioni: secondo il sito “The Atlantic”, quando l’Isis ha rubato 425 milioni di dollari alla banca centrale di Mossul, il denaro è stato destinato non solo a finanziare gli aiuti militari, ma anche “la campagna del gruppo per conquistare cuori e menti”.

Il governatorato di Raqqa, in Siria, dove ha sede il quartier generale del califfato, offre esempi di opere pubbliche finanziate con i profitti generati dalla privatizzazione del terrorismo, come un nuovo suk. I militari sistemano le strade e riparano gli autobus, gestiscono gli uffici postali e le infrastrutture fondamentali.

Nel giugno 2014 il portavoce dell’Isis dà l’annuncio della rinascita del Califfato: “Scrollatevi di dosso la polvere dell’umiliazione e dell’afflizione, così che un nuovo califfato nascerà dal caos, dalla confusione e dalla disperazione del moderno Medio Oriente”. Presto, si diceva, sarebbero state annientate due entità politiche create dai britannici e dai francesi nel 1916, ossia la Siria e l’Iraq.
L’Isis si rivolge alla Umma, la comunità musulmana nel mondo, cercando di presentare un’immagine politica contemporanea e positiva in contrasto con le democrazie occidentali soggiogate dalle banche e con i regimi musulmani di ispirazione occidentale.

Al Baghdadi è il primo leader islamico, dopo Abdülmecid (1823-1861), ad assumere il titolo di Califfo.

Alla vigilia dei mondiali di calcio del 2014 l’Isis ha postato su Twitter un video in cui alcuni suoi membri giocavano a pallone con le teste mozzate di soldati e poliziotti iracheni sciiti. Anche la violenza più barbara, diffusa viralmente attraverso i social media, crea consenso tra la popolazione: alcuni, commentando il caso, hanno pensato che fosse stata fatta giustizia, altri vengono semplicemente sedotti dalla forza e cercano protezione unendosi al vincitore.
Se lo Stato Islamico è terrificante per una platea globale, è anche percepito come il protettore della popolazione locale contro i mali della guerra permanente, una popolazione in difesa della quale nessuna forza di vendetta o punizione è troppo spietata.

A Raqqa, capitale del Califfato, nelle sere estive, si svolgono le feste dell’estate islamica, a base di musica, esibizioni di combattenti e acclamazioni popolari per il califfo. Qui i giovani sono sollecitati ad arruolarsi in difesa del nuovo Stato.

Le donne, come in ogni regime basato sull’islam più integralista, sono escluse dalla vita sociale e civile e private di diritti elementari come quello di circolare e vestirsi liberamente. L’Isis, nei territori conquistati, va in cerca, porta a porta, di ragazze nubili delle tribù sunnite locali per combinare matrimoni con i miliziani e accrescere il consenso tra la popolazione.

Nel 2009 al Baghdadi venne rilasciato per amnistia da Camp Bucca, centro di detenzione gestito dagli americani in Iraq, dove era rinchiuso dal 2005. Salutò con una battuta il riservista di Long Island che lo scortava all’uscita: “Ci vediamo a New York”. Nessuno dette peso a quelle parole fino a quando, nella primavera del 2014 l’iracheno si autoproclamò califfo dello Stato Islamico. Allora il colonnello dell’esercito Kenneth King, che era stato comandante di Camp Bucca, si disse sorpreso e raccontò che il detenuto al Baghdadi non era considerato un pericoloso estremista.

Il mito di Abu Musad al Zarqawi fu creato dagli stessi Usa. Dopo l’11 settembre l’amministrazione Bush ne sentì parlare dai servizi segreti curdi come del tramite tra i due gruppi jihadisti di Giordania e Afghanistan. Al tempo, in realtà, il giordano era considerato un elemento secondario nella galassia di al Qaeda, ma Washington costruì attorno al suo personaggio una mitologia tale da giustificare l’intervento militare in Iraq: il regime di Saddam era stato accusato di possedere armi di distruzione di massa e di sostenere il terrorismo. In assenza di prove dell’esistenza delle prime, si doveva dimostrare che il dittatore e al Qaeda fossero soci in affari. L’anello di questo collegamento fu individuato in al Zarqawi.

Gli ostaggi, soprattutto occidentali e preferibilmente giornalisti e operatori umanitari, sono merce preziosa: vengono venduti in un mercato ricco di gruppi criminali e terroristi. Mentre ogni altro Stato apre le trattative e paga, Stati Uniti e Gran Bretagna rifiutano di farlo. Nelle chat room e nei tweet jihadisti secondo i sostenitori dell’Isis questa posizione mira a fomentare la paura nell’opinione pubblica.

Fin dalla fine del 2010, il gruppo capì che era necessario diffondere una mitologia atta a presentare al Baghdadi e i suoi seguaci come una forza molto più solida di quanto fosse in realtà. Per questo scopo, ma anche per la raccolta fondi e il reclutamento, vennero usati i social media, che ancora oggi rappresentano per l’Isis il principale strumento di propaganda. Quando Twitter e Facebook hanno bloccato il video della decapitazione del giornalista americano James Foley, in qualche ora gli informatici del califfato avevano ripristinato l’accesso tramite siti alternativi, come Diaspora.

Una delle iniziative più riuscite dell’Isis è un’app chiamata in arabo L’alba delle liete novelle, per tenersi aggiornati sull’attività del gruppo jihadista.

L’Isis, durante i mondiali di calcio del 2014, ha usato su Twitter l’hashtag #Brazil2014 per ottenere milioni di visualizzazioni, sperando che gli utenti cliccassero i link ai suoi video in cui si invitavano i musulmani occidentali a entrare nelle loro fila. La rivista “The Atlantic”, analizzando la strategia social-mediatica dello Stato Islamico, ha scoperto che l’Isis riceve 72 retweet per ogni tweet inviato.

Perché, nonostante l’uso massiccio di mezzi di comunicazione tecnologici e popolari come Facebook, Twitter, YouTube e Instagram, l’antiterrorismo internazionale si è accorto di quanto stava accadendo solo con la proclamazione del Califfato?

A settembre 2014 l’Isis aveva attirato 12.000 combattenti stranieri, 2200 dei quali di provenienza europea. A muoverli non è solo, come in passato, la necessità di riscattare dall’umiliazione i compagni di fede in Medio Oriente, ma la possibilità di partecipare alla costruzione di un nuovo ordine politico, l’illusione di una nazione non corrotta e intrisa di senso di fratellanza. Ma per molti giovani occidentali si tratta di un’avventura, una specie di campo estivo militare.

La grande jihad è di natura prevalentemente spirituale e consiste nella lotta quotidiana di ciascun individuo contro le tentazioni; la piccola jihad è la lotta fisica contro il nemico, difensiva o offensiva. Difensiva è l’obbligo, per tutti i membri della comunità, di imbracciare le armi per tutelare l’Islam, offensiva può essere lanciata solo dal califfo per diffondere l’Islam.
La jihad combattuta oggi dallo stato islamico rientra in entrambe le categorie: finché il califfo dispone di guerrieri a sufficienza, la comunità è esentata dalla guerra offensiva, ma se sono necessari altri soldati, nessun autentico musulmano può ignorare l’appello del suo leader spirituale e politico. “Quelli che possono immigrare nello Stato Islamico devono farlo, perché l’immigrazione nella casa dell’Islam è un dovere” dichiarava al Baghdadi il giorno in cui ha annunciato la nascita del califfato.

Al Qaeda non ha mai ottenuto risultati neanche lontanamente paragonabili alla formazione del Califfato. “Al Qaeda è un’organizzazione mentre noi siamo uno stato” spiegava un combattente dell’Isis che si fa chiamare Abu Omar, in una chat online con il “New York Times”.
Secondo il gruppo, la creazione del Califfato minaccia l’ordine geopolitico originariamente creato per favorire l’Occidente e le oligarchie sue amiche.

Quando al Qaeda cominciò a suscitare malumori in Medio Oriente, non fu perché era diretta da un miliardario saudita, lontanissimo dalla vita quotidiana dei musulmani, ma perché l’organizzazione decise di portare la jihad fuori dal Medio Oriente, lontano dalle sofferenze e dalle ingiustizie subìte dalle popolazioni. L’11 settembre fu un’operazione che in realtà pochissimi jihadisti approvarono.

La guerra civile, o fitna, viene condotta contro i governi filo-occidentali blasfemi (tagut).

Al tempo della sua nascita, a metà del Diciannovesimo secolo, il salafismo non era un’ideologia antioccidentale. Al contrario, fu l’ammirazione degli arabi per la modernità dell’Occidente a dar vita a un movimento di riflessione sulla crisi dell’Impero Ottomano. Vedendo i risultati del Vecchio Continente, i paesi arabi aspiravano a creare modernità nei nuovi stati che emergevano dalla disintegrazione dell’Impero, emulando la cultura politica occidentale. A tale scopo la dottrina salafita esortava a tornare alle origini dell’Islam e agli insegnamenti del Profeta, un ritorno alle radici che avrebbe conferito ai popoli la forza per conquistare l’indipendenza dagli Ottomani. Verso la fine dell’Ottocento, però, il tradimento dell’Europa che, anziché aiutare il mondo arabo a modernizzarsi, lo colonizzò, contribuì alla trasformazione del salafismo in un movimento xenofobo, conservatore e ortodosso, che ritiene le potenze straniere responsabili della decadenza del mondo arabo. Negli anni Cinquanta, Sayyed Qutb riformulò il concetto di al Tawhid, unità divina e assoluta di Dio, assegnandogli una connotazione politica, un’esortazione a ripulire l’Islam da ogni influenza esterna.

La parola “genocidio” sembra appropriata per descrivere quanto accaduto ai danni degli sciiti, in Siria negli ultimi anni e in Iraq dall’estate del 2014. In molti infatti sono convinti che l’intervento di al Baghdadi in Siria abbia poco a che fare con l’abbattimento del regime di Assad, ma sia stato motivato dalla pulizia etnica degli alauiti in una regione destinata a diventare la nuova culla del Califfato.

Lo Stato islamico ricorre al concetto di takfir, apostasia, per legittimare la purificazione religiosa dell’Islam. La genesi del takfir risale al primo scontro violento tra sunniti e sciiti, la Grande fitna, prima guerra civile tra musulmani. Scoppiò nel 655, quando i seguaci di Maometto si divisero sulla successione. Il califfo Uthman fu accusato di apostasia da coloro che sostenevano la candidatura di Ali, discendente diretto del Profeta. La Grande fitna diede origine allo scisma tra gli sciiti, seguaci di Ali, e i sunniti, seguaci di Uthman. Da allora i due rami dell’Islam si sono accusati a vicenda di apostasia.

Il concetto di apostasia è divento nel tempo uno strumento per contestare il potere politico del momento, anche se storicamente il suo scopo ultimo non era mai stato lo sterminio degli eretici. Quello del 2003, perpetrato dagli uomini di al Baghdadi ai danni degli sciiti in Iraq fu il primo genocidio motivato dalla lotta all’apostasia: erano accusati di aver stretto alleanze con le potenze straniere per ribaltare il regime, comportamento che i salafiti consideravano appunto takfir.

Le forze della coalizione in Iraq erano paragonate agli invasori mongoli che nel Tredicesimo secolo avevano distrutto il Califfato. Lo spiegò la rivista online “Bashaer” che, ricordando l’epilogo dell’antico “sacco di Baghdad”, predisse che, come le forze siriane e egiziane avevano sconfitto mongoli e tartari ad Ayn Jalut, “siamo sicuri che Dio impartirà una punizione simile e definitiva all’America”.

L’Occidente ha a lungo sottovalutato le guerre tra sunniti e sciiti, tendendo a considerare le violenze per l’islamizzazione dei territori una semplice conseguenza del fanatismo religioso e senza comprendere che in realtà quello della religione era solo un alibi per assicurarsi il controllo delle regioni.

Come è arrivata un’organizzazione armata, sconosciuta fino a tre anni fa, a minacciare il mondo? La risposta sta nel progressivo disfacimento dello stato nazionale in Siria e in Iraq. Svuotati del loro ruolo di rappresentanti della popolazione, sono arretrati fino alla condizione di enclave premoderne.

In Siria la primavera araba ha incontrato la violenta repressione di Assad. In breve tempo le proteste pacifiche sono diventate una guerra civile, degenerata a sua volta in una moderna guerra per procura, con vari ricchi Stati del Golfo a finanziare gruppi armati e milizie per colpire l’Iran, nemico sciita numero uno, e Assad, amico di Teheran. Ogni regola di guerra è stata infranta, a cominciare dall’impiego di armi chimiche contro i civili. Un milione di persone sono state sfollate e duecentomila hanno perso la vita.

In Iraq il presidente sciita Nouri al Maliki ha consolidato il proprio potere attraverso una campagna per la distruzione delle altre etnie. Ha fatto arrestare i suoi rivali, il vicepresidente Tariq al Hashimi e il ministro delle Finanze Rafea al Essawi facendo scoppiare proteste nelle province sunnite che lui, sostenendo di essere a conoscenza di infiltrazioni di al Qaeda tra i manifestanti, represse con violenza, facendo registrare decine di morti nell’aprile del 2013.

Mary Kaldor, docente della London School of Economics e autrice di New and old wars: organized violence in a global era, scrive che la globalizzazione ha fatto precipitare alcune regioni in condizioni di anarchia simili a quel che Thomas Hobbes definiva “stato di natura”. “Lo stato di uomini privi di società civile non è altro che una guerra di tutti contro tutti […] con la continua paura e il rischio di una morte violenta”.

Nei territori conquistati, uno dei primi compiti che l’Isis realizza è l’istituzione di tribunali religiosi e l’imposizione della sharia. Lo Stato islamico si assume a pieno titolo le responsabilità del rispetto della legge, del mantenimento dell’ordine e della sicurezza nazionale.

Anche se è impegnato in una pulizia etnica a tutti gli effetti, il Califfato offre l’opportunità di convertirsi al salafismo sunnita per ottenere la cittadinanza, ma chi rifiuta e non può fuggire viene giustiziato.