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 2015  febbraio 08 Domenica calendario

DESTINAZIONE DHARAMSALA LA CASA DI RIPOSO DELLO SPIRITO

Esisterà un posto dove tu possa essere, per un attimo, sereno? Su questa Terra, intendo, senza aspettare “la prima notte di quiete”? Li ho visti quelli che arrivavano a Santa Fe, chiudevano gli occhi e dicevano: «Aveva proprio ragione Castaneda, senti?». O tra le rocce rosse di Sedona, travolti da un vortice prima ancora che fosse acceso l’interruttore dell’energia. E l’India, oh l’India, non se la sono reinventata tutti, da Varanasi in giù, tornando turbati per almeno due settimane? E allora perché Dharamsala, dieci ore di pulmino da Delhi, attraversando il Punjab? Ci vengono per il Dalai Lama, ma io l’ho già conosciuto, His Holiness. È stato un pomeriggio d’inverno in una città lontana: Ottawa, Canada.
Venti minuti in una stanza d’hotel, che credo sia per lui la vera casa, replicabile ovunque. Mancava soltanto Richard Gere. Rideva e rispondeva. Andammo oltre il tempo stabilito. Alla fine mi prese la mano e uscimmo dalla camera così: congiunti. Il personale schierato s’inchinava, ma sbirciava perplesso. Entrammo in ascensore e la presa aumentò. Cominciai a ridere anch’io. Le porte si aprirono nella hall e c’erano dieci fotografi con gli obiettivi puntati, un plotone d’esecuzione a salve. Per la visita in Canada avevano dato a ciascun gruppo una diversa photo opportunity: questi avevano l’uscita dall’albergo. Il loro soggetto, però, allacciato a uno sconosciuto. Senza staccare gli occhi dalla macchina fecero segno di scansarmi, ma il Dalai Lama non lo consentiva. Rassegnati, scattarono. Arrivammo all’auto scura. Le sciarpe di seta bianca volarono via. Disse: «Arrivederci. Vieni a trovarmi». Non era un invito vero e proprio, ma un cartello indicatore in questo peregrinare in cerca di una meta. Il giorno dopo, nelle foto sui giornali, era solo: la mia presenza cancellata dal photoshop.
Ecco dunque la “casa di riposo”, che sarebbe la traduzione di Dharamsala, 19mila abitanti, sede del governo tibetano in esilio e destinazione per migliaia di orientalisti, sperduti, cercatori d’aura. Una città fra le montagne, popolata a prima vista da commercianti al rialzo, monaci d’altura e gigolò dell’Himalaya. Paccottiglia, escursioni e tintinnii. Qualunque cosa tu stai cercando, se ti dicono di sederti e aspettare di essere trovato, inverti la rotta, riattraversa il Punjab, Delhi, aereo e avanti la prossima. Lo scetticismo è figlio dell’irritazione, più che della delusione. Guardi la notte calare, il presepe accendersi, mentre babbo Natale dorme lontano, protetto dall’alibi della distanza: solo a te è chiesto uno slancio, ogni forma di fede è una partita senza risultato. Tutto è sommesso, ogni cosa fruscia. Il Dalai Lama è un signore nel suo maniero, domani si mostrerà, ma se fossi venuto qui per ripresentarmi mi sentirei uno sciocco che ha la presunzione di esistere.
Nel risveglio la realtà è spesso l’appartamento di un film di Hitchcock: ci torni e tutto ti sembra diverso. Dharamsala si trasforma all’alba: rarefatta, tace. Il fuso orario è sghembo, include una mezzora che rende difficile il calcolo, ma assicura comunque una parentesi, uno di quei momenti di irreperibilità come solo su un aereo in volo intercontinentale o durante un’anestesia generale. C’è qualcosa di speciale nell’essere lì e allora. La vita scivola di dosso, tutto quel che resta è sentirsi straniero e accolto. Il saluto di ogni sconosciuto è un sorriso, che passa di bocca in bocca come una parola d’ordine comunicata da un complice all’altro. Sincronizzate i gesti e il colpo riuscirà. È qualcosa di sincero ed euforico, riduce l’estraneità a condizione necessaria e sufficiente. Quel sorriso multiplo è un luogo, una patria. L’esilio, a suo modo, una benedizione. Qualunque cosa lo è, se produce accettazione. Penso una frase che fa da esergo e dà il titolo a un romanzo di James Salter: «Ricordati che la vita in questo mondo non è altro che un gioco e un passatempo». Non viene da un testo buddista, ma dal Corano. Dove, di certo, non si ipotizzano altri mondi nel mondo, scatole cinesi, bambole russe, città indiane, nascondigli per obbligo e per scelta dove non esserci se non per se stessi. Questo è il sorriso di Dharamsala: l’affermazione di un limbo, la lingua di una tribù silente di cui puoi entrare a far parte semplicemente sparendo. Cerco un’immagine per spiegare la sensazione e mi accorgo di averla già trovata, anzi devo ammettere che lei ha trovato me e mi ha portato qui. È quella fotografia all’uscita di un albergo a undicimila chilometri di distanza: il Dalai Lama, apparentemente solo, si avvia all’auto scura mentre due sciarpe di seta bianca volano via. Non esserci, ma sapere di esserci stato. Poter fare a meno delle conferme, delle documentazioni, di quella parola a due facce che è “riconoscimento”.
«Arrivederci. Vieni a perderti».
Un gioco e un passatempo: vivere nello spazio tempo tra la realtà come appare e la sua deformazione tramite un trucco del prestigiatore. E sorriderne.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 8/2/2015