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 2015  febbraio 08 Domenica calendario

UN NEW YORKER DI NOVANT’ANNI

[Intervista a David Remnick] –
NEW YORK
In novant’anni di storia, il New Yorker ha avuto soltanto cinque direttori. David Remnick, ultimo in ordine di tempo, tiene le redini della rivista dal 1998. Corrispondente in Urss per il Washington Post, ha vinto un premio Pulitzer nel 1993 per La tomba di Lenin: gli ultimi giorni dell’impero sovietico, a cui hanno fatto seguito altri cinque libri coronati da grande successo, tra i quali King of the World, dedicato a Muhammad Ali, e The Bridge, sul presidente Obama. Nato a Hillsdale, New Jersey, cinquantasette anni, padre dentista e madre insegnante d’arte, Remnick è sposato con Esther Fein dalla quale ha avuto tre figli. Colto, brillante e dalla battuta pronta, interpreta alla perfezione il ruolo del direttore moderno, con un occhio alle innovazioni tecnologiche e un altro alla tradizione. Del resto, a cominciare dal dandy Eustace Tilley, icona del New Yorker, la forza della rivista è stata proprio nella combinazione tra la celebrazione del rito e una costante attenzione alle novità culturali e sociali. Questa duplicità si rispecchia in un altro elemento con cui Remnick interpreta la propria direzione: riesce a essere estremamente autorevole e nello stesso tempo cordiale e ironico. Lo incontro a pochi giorni dallo storico trasloco della rivista, immortalato sulla copertina dell’ultimo numero disegnata da Bruce McCall: da Times Square alla Freedom Tower, il grattacielo sorto sulle ceneri delle Torri gemelle, nel quale Si Newhouse ha acquistato ventiquattro piani per le riviste della sua Conde Nast. «Sto vedendo la città dalla stessa prospettiva che ebbero le vittime dell’attacco al World Trade Center», osserva Remnick con una punta di inquietudine, «ma ho sempre creduto nella forza positiva dei cambiamenti».
Il New Yorker nasceva il 21 febbraio 1925 intorno all’"Algonquin Round Table", il celebre circolo di scrittori della New York anni Venti, a pochi passi da Times Square: il cuore della città… «Sì, effettivamente la storia della rivista si è sviluppata nello spazio di pochi isolati, ma devo dire che questo cambiamento geografico offre un rapporto più organico con una zona determinante per la storia della città: il porto. Non credo tuttavia che tutto ciò possa avere un impatto significativo sulla nostra proposta culturale».
Quanto vende oggi il New Yorker?
«Gli ultimi dati si attestano sul milione e cinquantamila copie. E si calcola che ogni numero sia letto mediamente da tre persone. Più della metà della tiratura viene effettuata fuori da New York, e potrà sorprenderla scoprire che in California vendiamo più che nello stato di New York. Il motivo è che lì ci sono due grandi città, Los Angeles e San Francisco».
Quali sono state le svolte principali in questi novant’anni?
«La rivista nasce in un’America precedente la Grande depressione, immersa nell’Età del jazz, e dunque caratterizzata da raffinatezza e leggerezza. La prima grande svolta avviene in coincidenza con la Seconda guerra mondiale: è il momento in cui i reportage e i saggi diventano più lunghi, più profondi. La seconda grande svolta è quella dell’11 settembre. È evidente: la maturazione è avvenuta sempre grazie a momenti dolorosi».
Lei è stato il primo direttore a fare un endorsement presidenziale: John Kerry contro George W. Bush.
«Mi sarebbe sembrato ridicolo non farlo: leggendo i nostri articoli era assolutamente chiara la nostra posizione. Si è trattato quindi di un endorsement assolutamente prevedibile, che tuttavia non ebbe alcuna fortuna: Kerry perse».
Poi ci fu un secondo endorsement, stavolta coronato dal successo: in una famosa copertina del 2008 raffigurò il presidente Obama e la moglie Michelle in posa da terroristi, sotto un quadro di Bin Laden.
«A me quella copertina parve una parodia degli stereotipi di certa destra».
Tuttavia il presidente Obama la definì “un tentativo non molto riuscito di fare satira”.
«Questo dimostra che la nostra satira, riuscita o meno che sia, è libera da condizionamenti, e che può divertire o offendere chiunque».
La tragedia di Charlie Hebdo invita a riflettere sul fatto che possano esistere limiti alla satira, o no?
«Io non credo, e in questo sono assolutamente con Voltaire. Voglio dire che lo sono anche nel momento in cui lotto in prima linea per attaccare l’antisemitismo dello stesso Voltaire».
Davvero non pensa che la satira possa diventare una copertura per veicolare messaggi di odio o disprezzo?
«Il rischio ovviamente c’è, ma eviterei di aprire la porta alla censura. Credo che quei casi siano facilmente identificabili dai lettori: e sarebbe sbagliato sottovalutarli».
Sinceramente: le piacciono le vignette di Charlie Hebdo?
«No e non le avrei mai pubblicate, ma rivendico la possibilità, per chiunque, di farlo».
La carta stampata è in crisi: il futuro è digitale?
«Devo correggerla, è il presente a essere digitale. Per quanto ci riguarda non possiamo che adeguarci al meglio. I nostri siti hanno circa dodici milioni di visitatori al mese. Affrontiamo il problema delle inserzioni pubblicitarie, tutte concentrate su compagnie come Google o Yahoo, nella consapevolezza che l’unico modo per sopravvivere è essere unici. Noi proponiamo testi che cercano di risultare sempre profondi e che si rifiutano di risolvere in venti secondi qualcosa avvenuto venti secondi prima».
Il New Yorker è celebre anche per i “fact checkers”: lei ne ha ben sedici sotto contratto.
«Proporre la massima accuratezza dei testi, controllandone ogni aspetto, è un altro modo attraverso cui cerchiamo di distinguerci. Ovvio che questo aumenti il lavoro, i tempi e i costi».
Come mai non esistono testate come il New Yorker a Londra o a Parigi?
«Sono splendide città e grandi capitali, ma oggi non hanno la stessa centralità. Tuttavia negli ultimi anni ho assistito a vari tentativi di imitazioni, falliti uno dopo l’altro: sono rimasto in particolare colpito da una testata russa, arrivata a una cinquantina di numeri, e da un’altra di Hong Kong. Copie spudorate, con le vignette, con i testi lunghi, insomma con tutto ciò che caratterizza la nostra rivista».
Ma New York è ancora la capitale del mondo? «Oggi il mondo ha numerose capitali, ma non credo si possa seriamente pensare che Pechino o Shanghai abbiano la stessa forza di attrazione di New York, non in termini culturali». Cosa ha imparato dalla sua esperienza russa che le è poi servita per dirigere un giornale prettamente newyorchese?
«Facevo il cronista sportivo quando a ventinove anni sono stato improvvisamente catapultato al centro di un impero che stava crollando. Quello che ho riportato a casa è stata la conoscenza di una realtà diversa e lontana, con la quale non bisogna mai dimenticare di confrontarsi».
C’è qualcosa che invidia in un’altra rivista?
«Certamente alcuni scrittori, ma anche scelte editoriali di testate come l’ Atlantic: si tratta tuttavia di una gelosia positiva, che cresce su un terreno sano. Intendo dire un terreno in cui non esista solo l’approccio twitter».
Antonio Monda, la Repubblica 8/2/2015