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 2015  febbraio 10 Martedì calendario

LA STAMPA E LA POLITICA

Allorquando, sedici anni fa, giovinetto venni a Milano, invitato dal signor Edoardo Sonzogno a dirigere il giornale l’ Illustrazione universale, il giornalismo politico milanese era ben diverso da quello d’ oggi. Non c’ è che un giornale che si sia conservato pressochè tal quale, la Perseveranza, in omaggio probabilmente ai suoi principi conservatori. Il Bonghi non c’ era ancora – ci entrò un anno dopo,– c’era però il Filippi.... ma non era stato ancora a Costantinopoli. Non s’ usava in quei tempi remoti mandare un appendicista a vedere la prima rappresentazione dell’ Aida al Cairo e la prima dei Nibelungi a Bayreuth : Filippi non aveva ancora esteso tant’oltre il territorio sottoposto al suo sindacato: il teatro Carcano era l’ultima Tule de’ suoi domini: fuori i bastioni si poteva stonare senza timore d’ essere additato all’ ira pubblica nell’ appendice del magno foglio del mattino. Pippo non aveva ancora quell’ andatura maestosa e cattedratica, quella rotonda gravità di pancia cinquantenne, que’ cappellacci da uomo stagionato, insomma tutte quelle altre sue esteriorità solenni, che fanno contrasto col suo interiore sempre gioviale ed ancora giovanile. Era snello e camminava rapido.
Il Filippi non godeva allora, nella critica musicale, quel primato che oggi nessuno più gli contesta: anzi nell’opinione di alcuni non era che un pover’ omo appetto all’ immenso, all’arcangelico all’ onnilatere Giuseppe Rovani. Debbo parlare con rispetto del Rovani, giacchè ho desinato un giorno in casa sua.... Ci ho poi veramente desinato? Il fatto è dubbio.
Vero è che un giorno, - anzi il primo giorno che ebbi l’onore d’ essergli presentato, - Rovani m’ invitò a desinare. Alle sei, ora indicatami, mi trovai in via dell’ Annunziata, ove allora abitava l’appendicista della Gazzetta di Milano. Alle sei e mezzo, continuavo ancora nel salotto a girare il cappello fra le mani in compagnia di persone che non conoscevo e che parlavano fra loro molto forte. Alle sette giunse finalmente il padrone di casa, accompagnato da una mezza dozzina di altri invitati. La signora Rovani, - una bella bruna dalle labbra rosse e dagli occhi lucenti, - dichiarò di non aver da sfamare tanta gente. Ci mettemmo a tavola lo stesso, in attesa di rinforzi culinari mandati a prendere all’ osteria. Il padrone di casa mangiò un piatto di minestra e due michette, poi sparve e nessuno si meravigliò della sua scomparsa. De’ commensali qualcuno mostrava d’ aver molta fame, la maggior parte mostrava d’aver soltanto molta sete. Avevo avuto l’onore d’ esser messo accanto alla signora Rovani, ma questo posto onorifico non mi valse un diritto di prelazione su’ commestibili che furono portati in tavola, e che mi furono offerti in modo molto intermittente. Por fortuna il ritardo e lo spettacolo della strana compagnia che mi circondava avevano assopito il mio appetito. Ricordo ancora la voce d’ un giovane bruno e robusto, i cui no! stridenti mi facevano rintronare la testa, come se mi fossero stati percossi i timpani dell’ udito con un martello. Quel giovane, - che poi è morto, - era allora il beniamino del Rovani, ed una delle ragioni principali del suo favore erano appunto que’ no! laceranti, che l’ avrebbero fatto mettere alla porta da ogni altra casa.
Alle frutta Rovani ricomparve. Era andato a fare un sonnellino! - e tornava rasserenato, rinfrescato, rintuonato. Fu allora amabile e seducente, come sogliono essere gli uomini popolari: in mezzo al frastuono assordante della brigata, m’intrattenne alquanto in disparte, dicendomi cose gentilissime, guardandomi paternamente co’ suoi belli occhi chiari, ridendo del suo bel riso sereno. Mi disse che Meyerbeer era … un animale; poi soggiunse con quel suo sorriso da gentiluomo: « Si dice così per dire, per dar forza alla frase; del resto s’intende che fo di cappello a certe sue pagine; » poi declamò quattro versi di Emilio Praga :

In un dente che somiglia
Una torre rovinata
Ho una danza forsennata
Di stranissimi dolor!
Allora il giovane beniamino ripetè questi versi con grida formidabili, e Rovani si rigettò nella conversazione – o meglio disputa, – o meglio ancora urlìo generale, – ed alcuni minuti dopo eravamo tutti dinanzi al pianoforte, e Rovani, accompagnato da molte voci alquanto cacofoniche, cantava l’ Inflammatus dello Stabat Mater di Rossini, e giurava che ciascuna di quelle battute conteneva tutto intero l’ universo, e che Meyerbeer era.... un animale, nient’ altro che un animale. Ed avendo qualcuno protestato timidamente, il giovane bruno lanciò una salva di no! talmente strazianti che per alcuni minuti tutti perderono completamente l’udito.
Quel giorno feci la conoscenza di parecchi giovani che combattevano, come me, le prime battaglie del giornalismo. Alcuni sono morti, altri hanno acquistato fama, altri sono rimasti oscuri, e si consolano della loro oscurità sparlando degli altri. Tutti si riunivano la sera, dopo il teatro, nel caffè Martini, giacchè non esistevano ancora i grandi caffè della Galleria, ed il Martini era il ritrovo di tutto il mondo teatrante e giornalistico. Ferveva allora ben più ardente di adesso la battaglia fra gli avveniristi ed i fedeli della musica italiana. La scuola avvenirista era rappresentata, al Martini, principalmente da Filippi e dal povero Luzzi, l’altra dal Rovani e da Antonio Ghislanzoni, e da un campo all’altro si lanciavano sarcasmi che qualche volta passavano la pelle.
A leggere oggi le appendici musicali che il Rovani scriveva nella Gazzetta di Milano, si resta meravigliati del credito in cui era tenuto da una parte del pubblico. Quelle appendici erano ordinariamente brevi, e sotto la fosforescenza delle immagini e la pompa del periodare appare lo stento dello scrittore e la povertà della sua coltura musicale. Tuttavia nessuno appendicista fu mai pagato tanto profumatamente, giacchè quella sua collaborazione a urli di lupo fruttava allora al Rovani circa ventimila lire l’anno. Con ragione diceva: « La Gazzetta è la mia marcìta! »
Disgraziatamente, dopo pochi anni, quel grasso podere, inaspettatamente, diventò improduttivo. La Gazzetta di Milano era stata, fino al 1859, il giornale officiale del Governo austriaco, ed in tal qualità godeva in Lombardia larghissima diffusione. Venuti i tempi nuovi, quattro de’ suoi redattori misero alla porta il vecchio direttore Menini, e ne fecero un giornale liberale. L’evoluzione fu fatta molto abilmente: il giornale, ben comprendendo che non avrebbe potuto aver voce in capitolo in mezzo agli uomini che formavano il governo e la classe dirigente, se ne stette in disparte, e diè al suo isolamento l’apparenza dell’indipendenza. Ricca d’articoli e di corrispondenze, compilata con cura, nitidamente impressa su buona carta, studiandosi di ritrarre l’opinione della borghesia liberale, moderata e disinteressata, la Gazzetta di Milano riuscì a conservare quasi tutti i vecchi abbonati e ad acquistarne de’ nuovi. Si può calcolare ad ottanta o centomila lire l’ anno il lucro che ne ritrassero i quattro proprietari, uno de’ quali era il Rovani.
La Gazzetta di Milano, giornale del pomeriggio, non era però venduta per le strade. L’unico giornale ad un soldo era il Pungolo, diretto, come adesso, da Leone Fortis, ma più piccolo di formato e redatto economicamente. Dopo il Fortis le figure più notabili del Pungolo erano Michele Uda, oggi redattore del Pungolo di Napoli, e Vincenzo Broglio, cronista unico ed omnibus, che portava sul Corso con aria trionfale una giacca di velluto, de’ calzoni di color chiaro ed una zazzera, già rada, ma bionda e lucente di pomata. Oh quanto era bello allora Vincenzo Broglio e quanta ammirazione provò per lui il giornalista allora novellino, che scrive queste pagine, la prima volta che lo vide!
Il Pungolo era nato alcuni anni prima e nel secondo suo numero aveva sparato una bomba, ripubblicando quel famoso indirizzo mandato all’ imperatore d’ Austria dopo il 6 febbraio 1853 da un certo numero di cittadini milanesi, manifesto che dopo d’allora è rimesso fuori in ogni occasione d’elezioni contro i sottoscrittori di quel documento. Il Pungolo se ne servì nelle elezioni amministrative contro i candidati favoriti dalla Perseveranza, e si atteggiò così fin dal primo giorno ad avversario del gruppo rappresentato da questo giornale. Furono allora i belli anni del partito così detto delle Galline, dal nome della sala in cui si radunava, e più malignamente dei polpettisti, e ne furono i campioni l’ avvocato Castelli, l’ avvocato Guastalla, l’ avvocato Benvenuti ed altri. Era una frazione del partito moderato che alla Camera era rappresentata dal centro e dal centro destro, dal Correnti, dal Sivori, dal Guttierez, dal Piolti de Bianchi, ecc. Quando la Gazzetta di Milano fu presa dalla febbre rossa che la condusse alla tomba ed il partito radicale prese baldanza, polpettisti e consorti, dimenticando le zuffe passate, – le dimenticarono proprio? un po’ di rancore covò sempre, – si fusero nell’Associazione costituzionale.
Un’occhiata al Pungolo del 1865 mostra che somigliava tal quale ad un buon giornale di provincia odierno, – alla Sentinella Bresciana, per esempio, o all’Arena di Verona. Una lettera della capitale, che era allora a Torino, un po’ di cronaca cittadina, un po’ di ultime notizie e di recentissime fatte con le forbici, e la ciambella era fatta ed era messa nel forno. L’articolo di prima pagina del Fortis, o quello di seconda e terza pagina firmato dal Dott. Verità, – quando c’erano, – era la parte piccante e saporita del giornale; ma l’assenza della concorrenza permetteva ai redattori di far le cose con comodo. Il buono o cattivo successo d’una prima rappresentazione era annunziato spesso con due o tre giorni di ritardo, piuttosto per fare un atto di dovere verso l’ impresa, l’autore e gli artisti, che per informare il pubblico. Telegrammi particolari, mai nessuno. Alla fine dell’anno, il giornale prometteva di riprendere, in un tempo indeterminato, la stampa del romanzo Artista e cospiratore di Paolo Ferrari, nonchè quella delle Passeggiate milanesi di Vincenzo Broglio e del Bucato in famiglia, corrieri di Michele Uda; ma passato il mese di gennaio, questi titoli appetitosi sparivano dal giornale.... per ricomparire nel dicembre successivo.
Organo delle Galline in politica, il Pungolo era in letteratura il portavoce, il vessillifero, il Mecenate della consorteria delle Effe, raccolta di persone, a dir vero, di molto ingegno quasi tutte, e che non meritavano la guerra che fu loro fatta. Il nome di consorteria delle Effe fu inventato, credo, dal Ghislanzoni, ma in quel gruppo non c’ erano soltanto nomi di cui F era la lettera iniziale. C’ era Fortis, c’ erano Paolo Ferrari, Filippi, Fambri, Faccio; c’erano artiste ascrittevi soltanto in grazia dell’ effe, la Ferni e la Fricci; c’erano i due Boito, Emilio Praga, Michele Uda, Giovanni Biffi.... C’ erano anche de’ non-valori, ma lasciamoli lì. Il Ferrari, in una specie di dramma bernesco, ha ritratto uno de’ conciliaboli della Società delle Effe (vedi la Strenna nell’Associazione della Stampa). Un giorno forse, nel nostro piccolo mondo letterario milanese quel periodo sarà ricordato con la stessa compiacenza con cui i francesi ricordano il cenacolo romantico del 1830: sia questo detto senza intenzione di parva componere magnis.
Oggi la consorteria delle Effe si è dispersa; alcuni de’ suoi affiliati sono morti immaturamente ; la maggior parte de’ superstiti s’ è fatta onore nell’ arte che coltivava; ma le illusioni si sono sfrondate, i crani. si sono pelati e le fronti si sono solcate di rughe. Pochi forse, appena qualcuno, guardando la sua presente situazione, può dire, come dice il Rizzi in un bel sonetto: « Era questo il mio sogno e s’ è compiuto! »
Saltiamo sedici anni: sorvoliamo alla creazione del Secolo, alla rapida decadenza della Gazzetta di Milano, alla nascita ed alla morte volontaria del Corriere di Milano del Treves, alle nascite ed alle morti, tutt’ altro che volontarie, della Posta del Mattino, del Lombardo, dell’ Utione, della Cronaca grigia quotidiana, alle vertiginose evoluzioni della Lombardia - abbiamo dimenticato di nominarla fra’ giornali del 1865, - e veniamo alla descrizione del giornalismo attuale, e confrontiamolo col giornalismo d’ allora.
La Perseveranza è rimasta tal quale. Tali e quali i principi politici, tali e quali gli abbonati, tali e quali la carta ed i caratteri, tali e quali i mobili dell’ufficio di redazione, tali e quali i redattori, senonchè i mobili sono un po’ più sdruciti e polverosi e i redattori, se non moralmente, sono fisicamente alquanto sdruciti anch’ essi.
Il giornale è diretto dal signor Carlo Landriani, ma gli articoli che segnano la linea politica del giornale sono scritti ordinariamente dal Bonghi. Il prof. Cognetti de Martiis scrive gli articoli economici. Il Filippi scrive sempre, con cresciuta competenza ed autorità, gli articoli di critica musicale ed anche quelli di critica drammatica, benchè in fatto di letteratura si professi un puro dilettante. Il signor Fausto Riva scrive la rassegna estera. I signori Viganò e Rubbi attendono alla compilazione del giornale, ed il primo scrive buone rassegne letterarie. L’avv. Zambaldi scrive articoli che specialmente riguardano le questioni cittadine. Il signor Romualdo Bonfadini scrive da parecchi mesi dotte e belle recensioni di libri nuovi. Sono numerosi i corrispondenti ed i collaboratori straordinari : fra’ primi bisogna citare il signor Francesco De Luigi (corrispondente romano), il signor Capon-Folchetto (corrispondente parigino), il prof. Pasquale Turiello (corrispondente napoletano).
Aggiungete alle spese cagionate da questo numeroso e valente personale di redazione, quelle de’ molti telegrammi politici e commerciali, e capirete che il bilancio passivo della Perseveranza è molto grave. Non so quale sia la sua presente situazione finanziaria; mi viene affermato che in grazia dello sviluppo dato alla parte commerciale ed a’ cresciuti prodotti della quarta pagina, amministrata in casa, sia da qualche tempo migliorata di molto: so però d’ altra parte che soltanto pochi anni fa, la Perseveranza costava più di cinquanta mila lire all’anno a’ suoi proprietarii. Ignoro quanti questi sieno, conosco soltanto i nomi di alcuni; si può notare come segno loro caratteristico, che appartengono quasi tutti al club dell’ Unione, sicchè non sarebbe uno sproposito il dire che la Perseveranza è l’ organo di questo club, che pure non ha colore politico, anzi contiene de’ progressisti ed anche qualche radicale ….all’acqua di rose. Al principio d’ ogni anno i membri del Consiglio d’ amministrazione della Perseveranza, tutte persone di grande autorità, raccolgono in una sala del club i loro amici, espongono i bisogni del giornale, li invitano a parlarne agli amici degli amici, ed in pochi giorni la somma occorrente è raccolta.
Sono molti anni che questa scena si ripete, nè mai la Perseveranza s’ è trovata nella necessità di mancare ai suoi impegni, nè mai ha dovuto servirsi di quelle risorse che un giornale non può confessare in pubblico. Ciò non fa torto al gran giornale del mattino, – che pel suo prezzo e pel suo carattere molto serio non può sperare una diffusione molto larga, – e d’altra parte onora i suoi generosi sostenitori. Si dirà che la loro generosità non è completamente disinteressata, giacchè la Perseveranza mantiene in credito il loro partito e quindi la loro influenza; ma non pochi fra loro vivono fuori della vita pubblica, nè ambiscono d’ entrarvi. La civiltà d’un popolo si misura dal sentimento che ogni cittadino ha di formar parte d’un ente collettivo e dal grado d’ interessamento che prende alla salute di esso. Il partito moderato milanese non è privo al certo di difetti, – pur non contando quelli che gli regalano i suoi avversarii ; – ma è certo che ha in grado eminente il sentimento della collettività. Per quanto riguarda la stampa, ha fatto sacrifizii che lo onorano e che di rado furono compensati. E non lo vediamo ogni giorno rispondere con slancio ai tanti appelli fatti al suo cuore? Non ha dato, nello spazio d’ un anno, centinaia di migliaia di lire agl’ inondati della riva del Po, alla Congregazione di carità per l’ invernata del 1879-80, al Comitato dell’ Esposizione? E così che un partito si mostra degno di stare a capo del paese, e non è meraviglia che il partito moderato abbia ancora in Milano tanta forza, mentre nel resto d’ Italia la sua potenza è crollata.
Il Pungolo, dal 1865 in poi, ha subìto molte vicende, dirò così amministrative, restando però sempre sotto la direzione del Fortis.
Nel 1864, assorbì il Corriere di Milano, fondato nel dicembre 1879 da Emilio Treves, e divenne proprietà - nominale - d’ una Società anonima, fondata, credo, con un capitale di 150 mila lire. Dico nominale, perchè non fruttò mai un soldo ai suoi proprietarii, anzi, dopo pochi anni, fu necessaria l’emissione di obbligazioni da lire 500 l’ una per menare innanzi il giornale. Finalmente, nel 1879, il Pungolo fu acquistato dal banchiere E. Oblieght per la somma, salvo errore, di 220 mila lire, che tutte si liquefecero nell’ estinguere le obbligazioni emesse e le altre passività.
Oggi dunque il Pungolo è proprietà del signor Oblieght, ed il Fortis è direttore stipendiato e compartecipe ai benefizi - eventuali - dell’ azienda. L’ Oblieght, come tutti sanno, è proprietario, in tutto o in parte, anche della Libertà, del Bersagliere, del Fanfulla, dell’ Italie, e di non so quanti altri giornali di vario colore e sapore. Anzi ci fu un momento in cui il signor Oblieght manifestava l’intenzione e faceva pratiche per acquistare pressochè tutt’ i giornali d’Italia, facendo del giornalismo un gran ficio, come si diceva un tempo. Si parlò allora d’un’ offerta di due milioni per comperare in blocco tutto lo stabilimento Sonzogno.
Il Pungolo, - cresciuto di formato a più riprese dopo la nascita del Secolo, - è oggi il più grande dei giornali ad un soldo. Ha perduto, pochi mesi fa, un eccellente collaboratore per la parte estera, Emanuele Calma: questa parte del giornale è oggi affidata al signor Luigi Menghini. Il signor Leopoldo Bignami, giornalista svelto, versatile, dallo stile leggiero ed incisivo, aiuta e supplisce il Fortis in tutt’ i casi in cui il giornale deve dire quel che pensa, e mette mano perciò agli articoli di prima pagina non meno che alla cronaca. Il Broglio - passato dalla parte di brillante a quella di padre nobile - ed il signor Giovanni Pozza compilano la cronaca. Il Pozza s’occupa più specialmente de’ teatri e delle belle arti quando non se ne incarica il Fortis, che in quest’ uffìcio prende il faux nez di Dottor Verità.
La crisi rossa che travagliò Milano nel 1868 e nel 1869 spinse tutt’ i monarchici sinceri a far la pace fra loro ed a stringersi in un fascio. Così fu che le antiche galline si versarono nell’Associazione Costituzionale, ed il Pungolo con loro. Dopo la caduta della. Destra, benvero, e precisamente nel 1877,,nvero, e precisamente nel 1877. si videro nel Pungolo delle intenzioni di screzio. Si parlò allora della formazione d’un partito nuovo, che doveva essere costituito principalmente dagli amici del Pungolo e rappresentare nella Sinistra la gradazione Correnti. Si parlò di accordi già presi col Nicotera, che si sarebbe staccato volentieri dagli elementi progressisti turbolenti per mettersi a capo del partito nuovo. Ma dopo alcuni articoli del Pungolo, in cui il progetto era adombrato, non se ne parlò altro ed il partito nuovo restò nell’ ovo.
In questi ultimi mesi - e precisamente dopo lo scacco del Mosca nella lotta elettorale contro il Marcora - il Fortis ha rimesso innanzi l’ idea del partito nuovo, e ci si è infervorato durante una settimana, ma l’indifferenza del pubblico lo ha di nuovo scoraggiato. Ad ogni modo il Fortis non vuole invecchiare nell’ opposizione, e troverà modo, presto o tardi, d’uscirne. Vi sono giornalisti, che sono felici d’ esser fuori del partito che governa, magari d’ essere isolati, e che si troverebbero imbarazzati e seccati il giorno in cui i loro amici e le loro idee avessero il sopravvento : il Fortis è invece uomo di governo, con la minoranza sta malvolentieri e mai a lungo. Per altri l’ opposizione è fine a sè stessa: il gusto di dire quel che pensano degli atti del governo, esercitando su questo un’influenza puramente negativa, è per loro sufficiente: pel Fortis questa soddisfazione, piuttosto sterile, non basta: l’ opposizione non gli serve se non come mezzo per prevalere; e se non ci riesce, se ne stanca.
Dando questo giudizio del Fortis, dichiaro che non ci metto nessuna intenzione denigratrice, chè anzi riconosco volentieri che in politica queste tempre positive hanno maggior pregio delle tempre negative. Il Pungolo ha avuto traversie in mezzo alle quali ogni altro giornale sarebbe perito; ma, al momento di cadere, trovò sempre chi lo sostenne, appunto perchè si sa non essere esso una cattedra da cui si espongono e si discutono principi astratti, ma una macchina politica, che ha la sua parte d’ azione nella vita del Comune e dello Stato e che tende allo scopo di spingere innanzi, non soltanto certe idee, ma anche certi uomini, ed in quest’arte è peritissimo. Guardato da questo punto di vista, il Pungolo occupa nella stampa milanese una situazione speciale e se avesse meglio saputo conservare i suoi lettori, e non si fosse lasciato sopravanzare da altri giornali, se il Fortis avesse saputo accoppiare alle sue qualità politiche le qualità amministrative del Sonzogno, la sua potenza sarebbe oggi formidabile. Disgraziatamente il Pungolo non seppe mai resistere alle concorrenze serie: non resistè a quella del Secolo, non resistè a quella del Corriere di Milano, non ha resistito a quella del Corriere della Sera, e la sua tiratura è andata sempre, lentamente, calando.
Ho nominato il Corriere della Sera, ed eccomi a far la parte di Cicero pro domo sua. Questo giornale nacque il 5 marzo 1876, tredici giorni prima della caduta della Destra! - e fu fondato co’ danari di tre giovani di buona volontà, due de’quali, il domani del 18 marzo, s’ accorsero che erano schietti progressisti, e che perciò il loro giornale non rappresentava punto le loro idee. Il Corriere quindi fu posto nell’ alternativa o di morire o di mutar colore. Non aggradendomi nessuno de’ due corni di questo dilemma, mi riuscì di mettere insieme alcune egregie persone, che ebbero fede nel giornale ed in me, e salvarono me e lui dal frangente in cui eravamo capitati. Oggi che il Corriere della Sera spaccia diecimila copie ne’ giorni ordinarii, dodicimila ne’ giorni di notizie à sensation, posso dirlo: ne’ cinque anni della sua esistenza ci furono de’ momenti molto scuri, ne’ quali il domani era un futuro molto problematico. Allora, le persone che lo hanno in tasca, - intendo moralmente - passando sotto le sue finestre, nella galleria Vittorio Emanuele, dicevano: « Quanti giorni di vita gli restano? » Le ho udite: non è vero, avvocato G.?
Queste traversie, il Corriere della Sera le patì perché fu fondato con un capitale insufficiente. Avviso a coloro che meditano di fondare un giornale, - ce n’ è sempre una dozzina in questa città in cui il signor Sonzogno ha guadagnato de’ milioni col Secolo: per cavarsi questo gusto occorrono oggi centocinquantamila lire l’ una sull’ altra, a cui bisogna aggiungere un direttore ed un amministratore che sappiano rispettivamente il loro mestiere, individui che non s’incontrano ad ogni cantonata.
Dato che si abbiano il direttore e l’amministratore, la somma indicata ci vuol tutta, o si fa un bel fiasco. Vi paiono troppe cento-cinquantamila lire? Ebbene, ho sbagliato, ce ne vogliono duecentomila. Se non mi credete, provate e vedrete.
Dacchè sono a Milano, cioè da sedici anni, furono fatti fra grandi e piccoli, fra serii e ridicoli, almeno due dozzine di tentativi per la creazione di nuovi giornali politici. Tre soli fogli riuscirono a vivere ed a far fortuna: il Secolo di Edoardo Sonzogno, il Corriere di Milano del Treves (morto volontariamente), e il Corriere della Sera. Tutti gli altri fallirono, e gli editori ci rimisero fior di quattrini, e gli scrittori le illusioni, e qualcuno la salute ed il patrimonio. Ho avuto parte alla redazione di tutti e tre questi giornali fortunati, anzi sono questi i soli giornali in cui ho avuto parte, non contando la direzione tenuta durante quattro mesi del giornale la Lombardia. Vidi nascere ed accompagnai il Secolo fino all’orlo della sua prosperità ; assistei il Corriere di Milano dalla sua pensosa nascita al suo allegro suicidio, ho spinto il Corriere della Sera nell’alto mare in cui oggi naviga col vento in poppa: non ho dunque avuto nessun cavallo ucciso sotto, e potrei dirmi ottimista; ma lo spettacolo di tante rovine a cui ho assistito mi spinge a dire a’ progettisti di giornali: - Non v’illudete! in queste imprese perigliose, per uno che vince, venti almeno soccombono.
Che se alcuno mi domanda di fargli parte di quanto ho imparato in sedici anni d’esperienza per far prosperare un giornale, gli dirò: anzitutto abbiate de’ collaboratori giovani, valenti, elettrizzati dal desiderio di acquistar gloria, non mestieranti. Posso vantarmi di avere un personale di redazione esemplare in Dario Papa, Ettore Teodori, Carlo Barbiera, Antonio Gramola, Labanca, Raffaele De Cesare, Luigi Archinti. Ci saranno degli scrittori più forbiti, non ce ne sono che esercitino la loro professione con più amore. In un giornale, nessuna rubrica può essere trascurata impunemente; tutte hanno lo stesso valore, tutte vogliono, in chi n’ è incaricato, ugual diligenza. Un buon sotto-cronista può essere la fortuna d’un giornale. In questa quotidiana battaglia che combattiamo, la vittoria può esser decisa da un modesto tamburino tanto quanto dal generale. In un ufficio di redazione, non ci sono superiori ed inferiori, tutti sono uguali.
Una delle maggiori difficoltà che s’incontrano per la diffusione d’ un giornale nascente è di farlo conoscere e gustare dal pubblico. Il signor Prosdocimo, ex-funzionario in pensione, spende ogni giorno un soldo per comperare il Corriere della Sera: c’ è però un altro giornale, mettiamo il Messaggero serotino, fatto ugualmente bene, fors’ anche migliore, che il signor Prosdocimo, se lo conoscesse, preferirebbe. Ma egli non ha che un soldo da spendere al giorno pel suo nutrimento intellettuale, non ha che un’ ora da consacrare alla lettura : egli ignora dunque il Messaggero serotino e lo ignorerà finchè una circostanza straordinaria glielo ponga sott’ occhio.
Scoppia una crisi ministeriale. Il pubblico porta via i giornali a ruba: il signor Prosdocimo non trova più, alla solita edicola, il suo favorito Corriere della Sera. È costretto a comperare il giornale meno ricercato, il già negletto Messaggero serotino. Or bene, se il direttore di questo giornale è un uomo d’ ingegno, quel giorno non soltanto avrà fatto bene il suo foglio come al solito, ma si sarà sforzato di farlo meglio di tutti gli altri, dimodochè non soltanto il signor Prosdocimo ne resti pienamente sodisfatto, ma coloro che leggono più fogli, riconoscano che il Messaggero serotino è il giornale fra tutti meglio informato e meglio redatto. Fate pure prodigi di diligenza durante un anno intero, la tiratura del giornale non muta; fate il giornale bene durante tre giorni quando lo spirito pubblico è eccitato, e la tiratura salirà immediatamente e non scenderà più.
Un foglio che nasce deve far voti che nel suo primo anno di vita avvengano due o tre avvenimenti clamorosi, che stuzzichino superlativamente la curiosità: se saprà profittarne, la sua fortuna è fatta. Se l’ anno passa liscio, è ben difficile che il giornale riesca a farsi strada, quannd’ anche compilato da giornalisti di primissimo ordine.
Vero è che, quando non avvengono fatti che agitino il pubblico, si può, con un talento di redazione eccezionale, intavolando polemiche, inventando nuove forme d’ articoli, creando nuove rubriche, dare il gambetto in pochi mesi a tutti i proprii colleghi. Questo è il sogno di tutt’i giornalisti novellini, i quali hanno in testa un certo ideale di giornale, che ogni giorno debba offrire a’ lettori una serie d’ articoli piccantissimi e farli delirare dal piacere. Questi sognatori domandano soltanto diecimila lire, cinquemila, mille, magari cinquecento per realizzare il loro sogno: quando le hanno trovate, mettono fuori un foglio di carta stampata e fanno un fiasco maiuscolo. Il loro progetto, dopo tutto, non è chimerico; soltanto per attuarlo bisogna essere un giornalista di genio, ed io non parlo qui ai genii, parlo ai giornalisti di mediocre levatura, come me, che hanno coscienza della loro mediocrità e che s’ industriano di supplire con l’ arte, con la conoscenza del mestiere, alla deficenza dell’ ingegno.
Bisogna inoltre tenere a mente che il giornalista non è il padrone del pubblico, ma il suo servitore, e che deve fare il giornale non per servire la propria ambizione, le proprie passioni, le proprie amicizie, i propri interessi, ma per istruzione e divertimento del pubblico. In questo il pubblico ha il fiuto finissimo : per quanto il giornalista sia abile, i lettori s’accorgono subito se ha sistematicamente un secondo fine, e allora guai a lui! Il pubblico compra il giornale per essere informato di tutto quel che accade: è dunque un dovere di stretta onestà pel giornalista di non tacergli nulla. Occultare una notizia perchè danneggia i nostri amici politici, sorvolare sopra un fatto per non giovare al partito avversario, non parlare di Tizio o di Sempronio per non far loro la réclame, mentre Tizio e Sempronio hanno fatto qualcosa di clamoroso, sono piccole disonestà, che indispettiscono il pubblico e che riescono a tutto danno dello spaccio del giornale. Il pubblico perdona più facilmente un articolo appassionato ed ingiusto che certi artificiosi silenzi, certi escamotages di notizie, da cui si sente mistificato. « Giuro di dire la verità, tutta la verità », dice il testimone prima di cominciare la sua deposizione. Il giornalista è un testimone; egli deve dare al pubblico non soltanto le notizie del giorno, ma tutte le notizie del giorno, per quanto qualcuna possa increscergli.
Adesso dirò una cosa che sarà presa come un segno di scetticismo, ma la penso e, secondo il mio costume, la dico: credo che il colore politico d’un giornale abbia poca influenza sulla sua fortuna, e che il Secolo, per esempio, potrebbe mutare, con poco danno del suo spaccio, i suoi principi in quelli dello Spettatore lombardo. Difatti, non vediamo, nella repubblicana Francia, che il Figaro clericale, legittimista, è il giornale più letto ? E lo leggono non soltanto i monarchici, ma anche i repubblicani. E i lettori del Secolo sono forse tutti repubblicani? E non ci sono preti e beghine che preferiscono abbonarsi a questo giornale anzichè al poco fortunato Spettatore?
Ecco che ho nominato il Secolo. Passiamo quindi dal campo monarchico costituzionale nel campo più o meno repubblicano. Una delle caratteristiche dello spirito pubblico a Milano è che due soli partiti vi prevalgono : il partito moderato ed il partito radicale. I progressisti puri sono una minoranza trascurabile. E però l’Associazione progressista creata a tempo del ministero Nicotera ha sempre vissuto e vive più di nome che di fatto, e nelle elezioni è sempre sopraffatta ed assorbita da’ radicali, che le impongono i loro candidati.
Una delle forze del Secolo fu di non essersi mai messo al servizio di nessuna società politica, di nessun gruppo, di nessun ministero; sicchè il pubblico, fin dalle sue origini, s’ accorse che era un giornale fatto per uso de’ lettori, non per uso d’ altri : questa, come ho detto, è una qualità eccellente per un giornale che vuol far fortuna. Il Secolo ha per editore un uomo che non ha larga coltura, nè gusti molto fini, ma che ha un raro istinto de’ bisogni e delle inclinazioni della piccola borghesia ed è aiutato da un amministratore di prim’ordine. Il Secolo nacque moderato, ed i suoi primi redattori furono Eugenio Ferro, oggi redattore della Gazzetta Ufficiale e revisore al Senato, Carlo Pisani, oggi direttore della Venezia, Vincenzo Salvatore, oggi direttore del Banco di Napoli a Venezia, Antonio Scalvini, divenuto impresario, ed io, tutti allora come adesso buoni monarchici. Dopo alcuni mesi, non essendo noi stessi ben sodisfatti della redazione, discorrevamo in crocchio de’ miglioramenti da farvi. Ognuno metteva fuori un’ idea. « Ecco quel che faremo, disse Edoardo Sonzogno, stamperemo ogni giorno immancabilmente due romanzi. » Tutti, ed io più forte de’ miei colleghi, protestammo contro questa stravaganza.
In que’ tempi, il romanzo affettato nell’ appendice usava poco ne’ giornali italiani ed era stato smesso da parecchi giornali francesi: l’ idea di stamparne due contemporaneamente, a detrimento degli articoli e delle notizie politiche, letterarie, cittadine, poteva essere giudicata una stravaganza: eppure quell’ idea, applicata, determinò la fortuna del Secolo.
Fu anche del Sonzogno l’ idea dei premi ordinari e straordinari, ed egli pel primo si servì su larga scala del telegrafo. Si può oggi ancora discutere sul valore morale di qualcuna di queste innovazioni: certo è che dal punto di vista industriale furono tutte felicissime, tanto vero che gli altri giornali hanno dovuto adottarle, nè potrebbero rinunziarvi senza danneggiarsi gravemente.
Il Secolo è diretto dal signor Teodoro Moneta, a cui però spetta piuttosto il titolo di redattore in capo, giacchè il giornale è veramente diretto dal Sonzogno e dal signor Enrico Reggiani, amministratore. La parte cittadina è compilata dal signor Carlo Romussi, che scrive anche le appendici sulle commedie nuove e sulle esposizioni di belle arti. Il signor Filandro Colacito, già redattore della Capitale, è entrato da qualche tempo al Secolo. Il signor Amintore Galli, professore al Conservatorio, scrive le appendici musicali. Le riviste finanziarie sono del signor Antonini.
Milano ha due altri giornali di Sinistra : la Lombardia e la Ragione. La Lombardia, che durante sedici anni fu giornale moderato, anzi officiale, prese una ubbriacatura di progressismo nel 1876, e dopo varie vicende, passò in proprietà del tipografo signor Civelli. Vorrebbe rappresentare il partito progressista puro, ma di tratto in tratto dà una capata nel radicalismo. È redatto dal signor Abele Savini, dal prof. Lodovico Corio e dal prof. Paolo Porro: le appendici musicali sono sottoscritte Athos, pseudonimo del signor Virgilio Colombo, già allievo del Conservatorio. In qualità di giornale mattutino, la Lombardia non ha concorrenti fra’ giornali ad un soldo, e sento dire che la sua tiratura è in rialzo da qualche tempo.
La Ragione, fondata sul finire del 1875, ebbe fortuna ne’ primi tempi, ma andò poi declinando, ed oggi non dà molto a lavorare alle fabbriche di carta. È diretta dall’ avv. Attilio Luzzatto, che scrive di politica, di amministrazione, di pittura, di drammatica e di musica. La cronaca è fatta dal sig. Francesco Giarelli, scrittore enfatico, ma vivace e copioso. Lavora nella Ragione anche il signor Dobrilla. La Ragione non ha una linea politica ben definita, mentre talora s’ accosta alla Sinistra moderata e tal’altra sale sulla cima della montagna : a differenza del Secolo, la si può chiamare, senza intenzione di denigrarla, piuttosto giornale di partito che di principi.
Resta a parlare del partito clericale, rappresentato da due giornali: l’Osservatore cattolico e lo Spettatore lombardo, sempre in guerra fra loro, e che guerra! L’ uno chiama l’ altro fogna, l’altro risponde farabutto. Lo Spettatore fu fondato da’ clericali più transigenti e remissivi per rintuzzare la tracotanza dell’ Osservatore, diretto dal famoso Albertario e da D. Enrico Massara, che pretendevano e pretendono ancora dominare su tutto il clero lombardo e comandare a vescovi ed arcivescovi. Fu diretto dapprima da un prete Scala, e andò male, ed ora è diretto dal signor Hamilton Cavalletto, toscano, ex-ufficiale, che dell’ antica professione ha serbato i calzoni attillati, e gli stivaloni. E uomo d’ingegno e di studi, ma anche adesso lo Spettatore è poco letto e non accenna a diventar popolare. Intanto il partito clericale, così scisso, continua ad essere a Milano nulla più che un desiderio di alcuni gentiluomini e gentildonne. Il partito liberale s’accorge che questo stato di cose è prodotto dal giornale dell’Albertario, e però ha per questo prete rubicondo e sensuale un’involontaria e segreta simpatia. Don Davide Albertario ha certamente una fibra giornalistica molto forte: lo si è veduto nel recente scandalo di Viadana, da cui ogni altro prete sarebbe stato abbattuto, e che per lui è stato

Leggero soffio di villana auretta
D’abbronzato guerriero in su la guancia.


E. TORELLI-VIOLLIER.